I° UN MEDICO LEGGE LA BIBBIA - PRIMA PARTE







Giuseppe Tradigo
Un medico legge la bibbia



curiosità ricerche riflessioni occasionate dall'incontro
con ammalati e medicine nella bibbia


Introduzione alla prima stesura di vent'anni fa

Considerando le condizioni igieniche dei tempi biblici, tra le altre cose, mi è stato spontaneo domandarmi: Gesù ha raccolto gli escrementi per le strade quando era bambino?
Non posso negare che questioni del genere possano nascere a causa di una certa deformazione professionale e che non sono le più importanti per chi si accosta a un libro sacro, ma perché tutto coopera al bene e anche l’esser medico il più delle volte non è un male, perché, pur nei limiti personali, non offrire un contributo che potrebbe essere originale alla conoscenza della bibbia?
Ecco le ragioni del libro.
Se poi chi lo avrà per le mani lo vorrà giudicare con benevolenza e anzi migliorare con le sue critiche, ne potrà certamente cavare insieme all’utile, anche una lettura divertente.

Non posso negare che questioni del genere possano nascere a causa di una certa deformazione professionale e che non sono le più importanti per chi si accosta a un libro sacro, ma perché tutto coopera al bene e anche l’esser medico il più delle volte non è un male, perché, pur nei limiti personali, non offrire un contributo che potrebbe essere originale alla conoscenza della bibbia?
Ecco le ragioni del libro.
Se poi chi lo avrà per le mani lo vorrà giudicare con benevolenza e anzi migliorare con le sue critiche, ne potrà certamente cavare insieme all’utile, anche una lettura divertente.

Introduzione aggiornata al corrente anno 2010

Rileggendo il testo ai nostri giorni, mi sono accorto quanta acqua è passata sotto i ponti della mia storia da quando io ero più medico che filosofo fino a tutt'oggi che mi sembra di essere filosofo, malgrado fossi stato medico, quanto basta per meritare un aggiornamento. Nel frattempo ho scritto altri appunti di filosofia e, infine, un piccolo testo intitolato: "un filosofo legge la bibbia".
Confrontando le due introduzioni mi sembra quasi di preferire la prima, ma probabilmente per via di un certo amore ancora in boccio, accompagnato da altrettanta comprensione per una freschezza che rischia ora d'acquietarsi nella riflessione, se non nella meditazione. In ogni caso leggendo i pareri del medico mi sono trovato con un vecchio amico che mi ha lasciato in dono un poco di serenità.

Vedi il SOMMARIO a fondo pagina


1° cap. Igiene

Servizi igienici pubblici, protezione dell'ambiente, abitudini e tradizioni dei popoli della bibbia. 
(Rifiuti e scorie industriali, cloaca, acqua potabile, abluzioni, inquinamento atmosferico, popolazione, escrementi, riscaldamento).

Studente universitario, uno degli esami meno difficili, ma non dei meno interessanti riguardava l’igiene.
La materia era una specie di selezione di argomenti che andavano dalla cubatura necessaria per una stanza d’ospedale di venti (!) degenti alla sezione dei collettori fognari, dalla conservazione dei cibi alla protezione dell’ambiente dal pulviscolo atmosferico e comprendeva molti altri argomenti ognuno dei quali coinvolgeva i diversi aspetti della vita dell’uomo e della sua salute, la cui conoscenza era necessaria per un medico, almeno dal punto di vista informativo, anche se richiedeva un ulteriore approfondimento per coloro che vi si sarebbero poi dedicati nei vari settori specialistici.
Uno di essi, quello dei rifiuti, era già allora, appena finita la guerra, molto importante e lo è divenuto sempre di più nei nostri giorni con l’accumularsi delle scorie industriali di difficile smaltimento naturale che si sono aggiunte a quelle già prodotte direttamente dall’uomo.
Qualche decina di anni fa durante i lavori necessari per il restauro delle fondamenta della basilica di San Clemente a Roma, gli archeologi scoprirono un collettore fognario, costruito dagli antichi romani, non segnato nelle mappe del comune, sconosciuto a tutti, che tuttavia continuava a far il suo bravo lavoro di raccogliere e convogliare una certa quantità di acque nere.
Se le cloache romane hanno sfidato i secoli, ben diversa era la situazione nella Gerusalemme biblica.
Solo in tempi più recenti vicini alla dominazione romana possedeva un sistema di scolo delle acque nere a cielo aperto di una certa efficacia. pari a quello di molte città medioevali a nord delle Alpi.
Se si pensa che l’acqua potabile che non veniva dai fiumi e dai pozzi era raccolta nelle cisterne si potrebbe concludere che la sua fornitura fosse continuamente in pericolo di rimanere inquinata.
Quando andavamo fuori a trovare i nonni che vivevano in campagna, avevamo occasione di parlare con una loro vicina di casa, una contadina venuta dalla Sardegna dopo la fine della guerra che ci raccontava del tempo della sua giovinezza. Ci diceva come tutti gli abitanti del paese che appena potevano lavorare, uomini e donne, affidati i bambini alle cure degli anziani, tra la fine di febbraio e i primi di aprile, lasciavano le loro case di Olzai per andare a piedi lontano venti, venticinque chilometri, in direzione Ottana e Sedilo, a zappar la terra. Allora, per cibo, si accontentavano del pane, senza nemmeno aver qualcosa di companatico e neppure il vino per bere, ma solo l’acqua che, in mancanza di fonti e di pozzi, attingevano al fiume. Per la notte trovavano rifugio in qualche casolare di pastori e, con un misero compenso, potevano riscaldarsi davanti ad un fuoco acceso in mezzo all’unico stanzone che serviva di dormitorio, sdraiati tutti sulla nuda terra, gli uomini da una parte e le donne dall’altra.
Quando poi le spighe erano mature, si ripeteva l’esodo per la mietitura, con la variante che per dormire bastava accovacciarsi sotto un albero, ponendo sotto il capo un sasso per guanciale.
Eppure il suo paese non faceva parte dell’antico regno di Israele, e i tempi della sua giovinezza, non erano quelli dell’età del bronzo.
Se il racconto aveva del sorprendete e alle volte poteva lasciarci increduli, risvegliava in me, medico in erba, una domanda spontanea: quali fossero le condizioni di salute e quelle igieniche di quei contadini.
Il fatto che bevessero l’acqua dei fiumi e mangiassero del pane malamente conservato mi lasciava perlomeno perplesso.
Tuttavia non si deve giudicare l’ambiente di allora con quello nostro industriale e non si possono paragonare le acque di quei tempi con quelle inquinate dei nostri fiumi.
E tutto questo ci può anche servire per tirar la conclusione che in un modo analogo non corrispondono al vero certe osservazioni troppo pessimistiche fatte oggi sulle condizioni igieniche di quattromila anni fa. Probabilmente le acque delle cisterne nella città di Davide non erano poi così inquinate come la precarietà della loro raccolta ce lo potrebbe far credere e come il vivere primitivo di quella gente sembrerebbe escludere altrimenti. Allora l’attenzione nella cura dell’ambiente trovava la sua applicazione in norme e usi così meticolosi e pignoli da diventare delle vere cerimonie, che oggi non capiremmo e che giudicheremmo quasi delle superstizioni, mentre allora, se erano le sole possibili, erano anche le uniche efficaci.
Comunque in Palestina si era ben lontani dalle pratiche igieniche dei ricchi Romani.
Nelle case di Israele ci si trovava in una situazione di precarietà e di conseguenza a norme di pulizia pedanti, ma necessarie, mentre nelle terme della capitale si poteva vivere nei passatempi del lusso e del benessere, se non addirittura nella ricerca del piacere, anche nel campo della salute. Non è che a Gerusalemme mancavano i ricchi che si permettevano le comodità di Roma, ma erano pochissimi e non potevano godere appieno della sua raffinatezza.
Ci si trovava allora un pò come oggi, con il divario esistente tra l’occidente ed il terzo mondo. Proprio per questo le usanze dei Giudei risultavano strane nell’ambiente romano e Marco in un passo del suo vangelo (Mc.7, 2-8), qui sotto riportato molto liberamente, si sentiva in dovere di darne una sommaria spiegazione, per rendere comprensibile il discorso di Gesù che distingueva la mancanza di pulizia dai veri peccati, opponendosi ad una valutazione che vedeva la prima pari ai secondi, un po’ come se noi, ai giorni d’oggi, mettessimo sullo stesso piano il mangiare con le mani e l’essere golosi. 
 I farisei vedono che alcuni dei discepoli di Gesù prendono cibo con mani immonde, contrariamente alla legge tradizionale che obbliga chi vuol sedersi a tavola a lavarsi prima le mani e le braccia sino al gomito, come per togliersi la polvere raccolta magari sui banchi del mercato, quasi fosse un'immagine di quell'interesse egoistico caduto sulle loro anime durante il compra-vendita. Si tratta di una disobbedienza alla legge tradizionale che prescrive queste e altre abluzioni, nonchè la cura e la pulizia rituale delle stoviglie , dei piatti e delle pentole. I farisei denunciano il fatto a Gesù che, in qualità di maestro sarebbe responsabile dell'istruzione e del comportamento dei suoi discepoli. 
Gesù non risponde discutendo l'operato dei discepoli, o la  pedanteria degli accusatori e, nemmeno, mettendo in forse il valore di questa abitudine, ma al contrario ponendo in risalto lo spirito di una legge che vuole preparare i commensali a celebrare una festa in famiglia e non una scorpacciata tra compagnoni, un po' come facevano le nostre mamme con noi bambini che si preoccupavano della pulizia delle nostre mani, senza poi tralasciare di fare il segno di croce prima di soddisfare il nostro istintivo appetito. 
I Discepoli di Gesù erano alla scuola di un maestro che prima di assicurarsi delle loro abluzioni, avrebbe egli stesso lavato i loro  piedi in occasione dell'ultima sua cena (Gv. 13, 3 ss.), per spiegare con un esempio come dovevano trattarsi vicendevolmente, sempre e non solo a tavola. 
Si capisce quindi la risposta di Gesù che sembra più dura della stessa accusa: "Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate solamente le buone maniere del galateo".
In ogni caso, anche a quei tempi, se fortunatamente i rifiuti e i prodotti di scarto del lavoro non raggiungevano la quantità e la pericolosità dei nostri attuali, erano tuttavia sufficienti per ammorbare l’aria e la vita della gente, tanto che molte attività venivano segregate in rioni isolati, fuori dell’abitato, come accadeva per i conciatori della pelle o per quei tintori che usavano la porpora che, con la loro puzza e con i loro scarichi, non potevano essere certamente tollerati nell’ambito cittadino.
Forse tuttavia gli antichi riguardo agli odori avevano un concetto diverso dal nostro. Probabilmente nessuno di essi avrebbe mai sopportato il fumo dei tubi di scarico delle automobili delle nostre strade, ai quali ci siamo talmente abituati da non avvertirli quasi nemmeno, mentre nessuno di noi tollererebbe nel centro della città, vicino alla cattedrale, una stalla di un numero rilevante di cavalli (trecento animali ?!) che ai tempi di Salomone erano necessari per i servizi di corte e per il presidio militare, situati nelle adiacenze del suo palazzo e del famoso tempio di Gerusalemme. Non solo, lo stesso odore di bruciato che emanava dai sacrifici era percepito come un ‹soave profumo›. È vero che la bibbia proibiva di costruire dimore sopra una stalla, ma dal momento che i componenti di una famiglia dormivano tutti insieme, piccoli animali compresi, non si dovrebbe pensare che la proibizione avesse un valore igienico. I veri motivi erano talmente noti a tutti che la bibbia non li rammenta nemmeno, infatti le cose quando sono di dominio pubblico non meritano una spiegazione e gli Ebrei conoscevano il perché della sua validità. Noi invece possiamo fare solo delle congetture. Considerando che le stalle potevano fungere anche da fienili e che le case abitualmente non avevano un camino, tanto che il fuoco veniva acceso nel mezzo della stanza principale, senza una adeguata protezione, si potrebbe pensare che il divieto servisse a prevenire il rischio degli incendi, sicuramente devastanti più che ai giorni nostri, se le case erano costruite facilmente con materiale infiammabile e appena separate l’una dall’altra da viottoli stretti che, a stento praticabili dai singoli viandanti, erano quasi preclusi a eventuali squadre di pompieri improvvisati.
Oggi l’allevamento degli animali, non solo quelli da macello, ha assunto una forma industriale, se ne avverte la puzza anche da lontano, persino in aperta campagna.
Ben diversa era la situazione prima dell’ultima guerra, essa sembra farci capire come l’infrazione del divieto biblico fosse persino giustificata. Io stesso al tempo della mia fanciullezza, in montagna, abitavo in un appartamento situato direttamente al primo piano sopra una stalla, dove nelle sere d’inverno ci rifugiavamo tutti, forse attratti quasi istintivamente dal profumo del fieno e dal tepore dell’ambiente.
Un quadro di Segantini, esposto alla galleria d’arte moderna di Milano, intitolato "le due madri", che raffigura nella pace di un luogo del genere una donna con il piccolo in braccio, accanto alla mucca con il suo vitellino, mi ricorda ancora quegli anni, insieme alla poesia del tempo del Natale.

Nell’antichità, comunque, il problema presentava almeno due aspetti diversi.
Il primo quello di una popolazione nomade che nel deserto attraversa un territorio vasto, anche se inospitale. Il secondo quello di un insediamento cittadino, anche se di minor portata, ma stabile nel tempo. Ancora in ambedue i casi bisognava prendere in considerazione la massa delle persone e quindi la quantità dei rifiuti concentrata in una determinata area. È difficile valutare oggi la consistenza numerica degli antichi agglomerati civici o degli accampamenti dei nomadi o quello delle milizie degli eserciti. Intanto i censimenti consideravano esclusivamente quasi sempre gli uomini adulti, in certe altre occasioni poi le cifre avrebbero potuto avere solamente un significato simbolico, come quando noi diciamo: "Te l’ho detto mille volte", senza corrispondere ad un conteggio reale. Tuttavia se si pensa che i nati in una famiglia normale erano quasi sempre almeno più di una decina e che la gente si sposava in tenera età, è facile pensare che nel giro di cinquant’anni un villaggio poteva diventare una città e ancora, se si pensa alle morie dovute alla peste ed alla fame, la stesa città, altrettanto in fretta, poteva ridursi a un povero villaggio con un numero esiguo di abitanti.
Tutto questo poteva accadere ancora nel medioevo. Il turista che visita Siena e ammira il suo duomo, si meraviglia quando viene a conoscere che era sato progettato solo come il transetto di una imponente costruzione, le cui vestigia si possono vedere nella piazza, addossate alle case vicine. Era bastata una peste per impedire che fosse portato a termine e per rendere inutile la sua enorme capienza.
Per questo non si devono stimare subito come esagerate certe cifre riportate nei libri sacri.
In circostanze analoghe a quelle della bibbia, Cortes, con i suoi pochi conquistatori del Messico, si trovò, senza volerlo, nel mezzo di una battaglia dove si affrontavano eserciti enormi costituiti da diverse centinaia di migliaia di soldati, tanto che in un primo tempo la sua presenza passò inosservata.
Se l’organizzazione militare degli Ebrei prescriveva che ogni soldato portasse con sé una zappa per sotterrare i suoi rifiuti è improbabile che questa norma riuscisse allo scopo in situazioni del genere.
Ma dove il problema aveva la sua massima rilevanza era sempre nelle città.
Come si è già detto, a Gerusalemme mancava un sistema fognario ed i rifiuti, sia degli uomini, sia degli animali, che vivevano con loro in stretto contatto, venivano buttati semplicemente fuori di casa.
Erodoto riferisce che nell’Egitto di allora, come incredibilmente anche in quello dei nostri tempi (nel 1990), i bambini erano incaricati di raccoglierli in ceste, che poi trasportavano ponendosele sul capo ad essiccare al sole, per essere usati nella stagione fredda come combustibile a buon mercato. Il metodo era certo in uso anche tra gli Israeliti, se in Ezechiele (4,12) si dice che gli escrementi potevano persino talvolta servire a cuocere i cibi.
Quando Gesù nella sua vita pubblica dirà: "Lasciate che i piccoli vengano a me", non abbracciava degli amoretti avvolti in nubi di borotalco, piuttosto dei mocciosi puzzolenti.
Anch’egli bambino avrà raccolto a Nazaret lo sterco per la strada?
È più facile affermarlo che escluderlo.
Gesù non ha fatto nei suoi vangeli la ‘scelta dei poveri’. Egli stesso era veramente povero, perché apparteneva a quel terzo mondo che, salvo pochi privilegiati, era ed è enormemente diffuso sulla nostra terra di tutti i tempi.




2° cap. Ancora sull'igiene

La religione, idea forza a servizio dell’uomo, anche nel campo dell’igiene, senza nemmeno che egli ne sia pienamente cosciente.
(Morte, sepoltura, prostituzione, carne suina, impurità legale, Tobi).

Un altro problema d'igiene non meno importante riguarda la pratica funeraria.
Gli archeologi hanno sempre ritrovato estese necropoli vicino agli insediamenti umani. La sepoltura dei morti va di pari passo con la loro venerazione se non divinizzazione.
Molti popoli credevano ad una certa vita post mortem e quindi si sentivano in dovere di assicurare ai defunti in qualche modo una dimora nel costruire la loro tomba. Gli Egiziani li tumulavano con tutte le suppellettili usate in vita e perfino con gli strumenti di lavoro.
Tuttavia anche oggi non è difficile trovare in certe regioni del terzo mondo chi non ha la disponibilità finanziaria, seppur modesta, per seppellire i propri morti, immaginarsi a quei tempi. Non ci deve ingannare al riguardo lo splendore di alcune tombe il cui ritrovamento ci ha fatto ereditare delle vere opere d’arte di immenso valore, perché esse erano destinate a poche persone importanti. Gli stessi Romani buttavano talvolta gli schiavi morti al di là delle mura cittadine e i cani e gli avvoltoi avevano modo di esercitare il loro mestiere di spazzini naturali.
Per gli Ebrei, invece, non aver la propria sepoltura era considerato un vero castigo di Dio. A proposito basta rileggere la profezia di Elia contro Acab che aveva approvato l’assassinio di un suo suddito, tramato dalla moglie.
Il passo della bibbia descrive il sopruso di un potente, il re Acab, che approva una propaganda di calunnie costruita apposta per condannare e sopprimere un suddito e per poter così permettere al re d'impadronirsi della sua vigna. In pratica, una cosettina da nulla se la paragoniamo alle angherie di altri potenti della nostra epoca, che hanno costruito i campi di concentramento per sopprimere milioni di persone che avevano derubato, seguito dallo sterminio di altri milioni di morti sui campi di battaglia, necessario per affermarlo. La bibbia, a questo punto, riferisce che il Signore invia espressamente Elia dal re per predirgli la sua fine: "Sterminerò nella casa di Acab ogni maschio...".
La condanna riferita da Elia è una profezia e, come tutte le profezie, non si avvera una sola volta, ma diventa storia che si ripeterà in ogni epoca in casi simili (1Re. 21, 17-24).
Un altro passo della bibbia descrive come per gli Ebrei il morto fosse in uno stato speciale che comunicava a chi ne veniva in contatto una specie di interdizione, che lo metteva nella impossibilità di compiere molte delle azioni, anche le più comuni, se prima non avesse soddisfatto un complesso di rituali, costituiti principalmente in abluzioni, che gli avrebbero ridato la purità legale.
Chiunque per i campi avrà toccato un uomo ucciso o morto per cause naturali o anche solamente un suo osso sarà immondo per sette giorni. Si tratta della contaminazione con un cadavere che ha il potere di isolare un uomo, come se egli stesso fosse morto, insieme alle stesse cose che egli usa, la tenda dove abita, le suppellettili e le persone che egli tocca, come se diventassero morte e inutili insieme a lui. Solo la comunità, nella persona di un suo rappresentante, ha il potere di riammetterlo dopo tanti rituali, che sono riconoscimenti pubblici e attestati di espiazione, ridonandogli, per così dire, una vita riunita nuovamente con quella del suo popolo (Numeri.19, 16-22).
Si può pensare che simili usanze fossero praticate a scopi igienici, anche se dettate più dall’istinto che non dalla ragione?
Sicuramente, no!
Era piuttosto la religione a dettare il loro agire che prendeva la forma di un cerimoniale. Gli Ebrei non sapevano certamente che il cadavere poteva esser fonte di infezioni.
Gli stessi motivi religiosi erano a fondamento di una serie di comportamenti morali che avevano ripercussioni sulla salute del fisico.
Considerazioni analoghe valgono in un altro contesto, completamente diverso da quello appena esaminato, come quello nei riguardi della prostituzione, che dettava una posizione mentale e un conseguente comportamento certamente favorevoli a prevenire la diffusione delle infezioni sessuali. Un passo del levitico:
  Il ‹non profanare tua figlia›, prostituendola, è connesso con il pericolo che costituisca un esempio e una permissione della prostituzione della stessa comunità, con la conseguenza di mettere nelle condizioni il paese di riempirsi d'infamie. (Levitico. 19, 29). 
 In un mondo dove il sesso era talmente liberalizzato da ritenersi sacra la prostituzione esercitata non solamente dalle donne, ma anche dagli uomini, nei locali annessi ai templi pagani, essa veniva invece talmente disistimata dagli Ebrei che la prostituta era paragonata alla loro nazione quando si rivolgeva agli idoli per tradire l’unione con il suo Signore (Numeri.19, 16-22), 
Un discorso analogo riguarda il consumo della carne suina che forse in quei climi caldi avrebbe potuto facilmente esser causa di infestazioni parassitarie.
 Non mangerete la loro carne dei porci e non toccherete i loro cadaveri. (Deuteronomio. 14, 8).
Probabilmente l’origine dell’avversione per questi animali faceva parte di quel complesso di sentimenti che gli Ebrei avevano nei riguardi del mondo idolatrico che pur presentava un suo fascino per essere tecnicamente più avanzato del loro. Essi costituivano un popolo di pastori nomadi, prima e dopo essersi insediati in Egitto, e anche in quella terra non abbandonarono mai questa attività. Vi immaginate un popolo in cammino nel deserto che sospinge mandrie di porci al posto di condurre greggi di pecore? Anche un profano di pastorizia come un medico della mia fatta non può non ritenerlo impossibile.
Ebbene una volta insediatisi nella regione dei Cananei erano obbligati a difendere l’integrità del loro patrimonio spirituale. I porci erano considerati semplicemente estranei alla loro cultura, alla stessa stregua, della relazione con le donne del posto che avrebbero potuto introdurre i costumi idolatri in un popolo che si era consacrato al vero Dio.
Quindi seppellire i morti, non mangiare la carne suina, evitare la prostituzione non avevano, almeno per loro, un valore igienico. Facevano invece parte di una usanza accettata, di una specie di esercitazione collettiva, più ancora, di una ascetica perseguita per mantenersi sani moralmente e questo, anche se non ne erano coscienti, avrebbe però avuto un riflesso importante sulla salute fisica.
Anche a loro, come in tutti i tempi, la religione apportava quel qualcosa in più, che è necessario per evitare il male ed arrivare al bene, soprattutto per aumentare il rispetto verso la persona umana nella sua integrità fisica e spirituale.

Tornando all’argomento delle pratiche funerarie dal quale abbiamo preso le mosse val bene la pena di rileggere il racconto di Tobi.
Tobi rappresenta nella storia il primo filosofo che distingue tra verità e giustizia, ovverosia tra ragione e volontà, infatti segue la prima, senza dimenticarsi di tradurla nella scelta voluta e perseguita di una vita pratica dispensatrice di beni. 
 È la figura dell'uomo esiliato lontano dalla patria e nemmeno del tutto protetto nell'ambito degli affetti familiari, eppure egli cerca, non dico le proprie convenienze, ma al contrario le occasioni di aiutare chi è nel bisogno. Egli può dire: "Passavano i giorni uno dopo l'altro, ma io ero sempre fermo nel percorrere le strade della verità e della giustizia. Ero prigioniero in terra straniera, a Ninive, nel paese degli Assiri, ma non isolato, perché avevo molti fratelli che avevano bisogno di me e dei quali io mi sentivo responsabile. Agli affamati davo il pane, agli ignudi gli abiti, ai connazionali soppressi e gettati dietro le mura di Ninive la sepoltura.
Eppure una spia informò l'autorità e l'accusa fu portata a conoscenza del re, tanto che io fui costretto a fuggire non solo lontano dalla patria, ma anche dalla famiglia e dalla casa che abitavo. I miei beni furono confiscati e furono incamerati nel tesoro del re. Mi restò solo la moglie Anna con il figlio Tobia.... (Tobia.1, 3.17-20).
Finalmente, sotto il regno di Assarhaddon, potetti ritornare nella mia casa e rivedere la moglie Anna e il figlio Tobia.
Eppure, questa pausa di tranquillità e di riposo non dura a lungo. Nell'intimità di una festa familiare arriva ancora la notizia di nuovi sopprusi e di altri omicidi e Tobi manda il figlio ad accertarsi e si prepara a rimediare  e a soccorrere, sebbene abbattuto, ma mai domato.
I vicini di casa lo deridono dicendo: "Non ha più paura! Proprio per questo motivo è già stato ricercato per essere ucciso. È dovuto fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i morti". (Tobia. 2, 1,8).
Persino la moglie non approva del tutto l'attività del marito  e, in un’altra occasione gli dice:
 "Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal come sei ridotto! (Tobia. 2, 14). 
Sono critiche e accuse che servono a nascondere l'ignavia delle persone prudenti e che rendono invece maggior merito all'operato di Tobi. 
Non era stata una questione di igiene a dettare il suo comportamento. O meglio era stata una questione di igiene mentale e morale insieme.
Come più tardi i santi, da Francesco a Teresa di Calcutta, si mossero con coraggio a cercare e ad aiutare gli ammalati, così Tobi affrontava il rischio e il disprezzo per seppellire i morti. Egli, come uomo fatto di spirito e di materia, non si sente chiuso nel solo ambito del fisico e non limita l’igiene al solo aspetto esteriore. E’ un uomo religioso anche quando evita che i morti ammorbino le strade e vengano sbranati dai cani randagi. Non conosce gli effetti del suo agire sulla salute, ma li conosce l’amor di Dio che li ha mossi.

Ma a proposito di Tobi, permettetemi una domanda impertinente: egli è un personaggio storicamente esistito o è solo una figura leggendaria?
La questione ne potrebbe richiamare un’altra: è mai esistito veramente il lupo di Gubbio, ammansito da San Francesco?
Probabilmente quel lupo era solamente un efferato delinquente e le povere pecorelle gli abitanti del posto da lui vessati. Le prediche dei francescani raccontavano al popolo la sua conversione in un modo edificante, senza irritare il suo pessimo carattere da poco rabbonito.
Qualcosa di simile, anche se in un campo diverso, era il racconto di una esperienza reale di un santo, che era diventato leggendario tra gli Ebrei e che ci può offrire qualche insegnamento anche oggi. Forse noi abituati ad una certa brutale letteratura realista non ci sentiamo più così vicini a questi racconti, ma basta in ogni occasione ‹aver orecchi per intendere› e si riesce sempre a capir qualcosa.


3° cap. Infestazioni e infezioni

Gli ebrei vivendo in un ambiente più povero e più contaminato ebbero occasione di immunizzarsi verso l’epidemia che colpì a morte anche il primogenito del faraone?
(Topi, peste, Mosé, le piaghe dell’Egitto).

Mio padre aveva un negozio dove vendeva tutto quello che serve ai ciabattini per far le scarpe.
Durante la guerra non c’erano più scarpe e nemmeno calzolai, perché uomini e cose venivano in fretta distrutte sui campi di battaglia e sotto i bombardamenti delle città. Per questo il negozio era vuoto e le cantine che fungevano da magazzino erano state lasciate all’incuria, piene di scatole vecchie, di sporcizia e di topi. Una delle prime incombenze che nostro padre affidò a noi bambini, appena finita la guerra, fu quella di ripulire la cantina e, per la prima volta, in mezzo alla puzza e ai detriti, venni a scoprire con orrore la presenza di questi animali. Ci apparvero subito come delle bestie schifose. Ci scagliammo contro di essi con tutte le armi a nostra disposizione, ma sembravano non essere nemmeno troppo intimoriti, anzi quasi pronti ad assalirci per difendere il loro regno, le tane e i loro piccoli. Ma se mostrarono di avventarsi contro di noi con tanto coraggio, scapparono ben presto in ritirata, come dei vigliacchi pieni di paura, davanti ad un magnifico soriano che la mamma ci mandò opportunamente in aiuto; eppure rimasero sufficientemente a lungo per provocare tutto il mio orrore ed il mio disgusto e lasciarmi anche capire come avrebbero potuto diventare persino pericolosi.
In alcune vallate della Svizzera sono ancora conservati, come antichi cimeli, alcuni vecchi granai e addirittura piccole abitazioni, costruite su delle specie di colonne di legno, interrotte a metà della loro altezza da una larga pietra a forma di piatto. Essa è posta lì a far da scudo ai topi che non potendo superarla non riescono nemmeno a rubare le provviste. A guardar quei posti viene in mente la favola del pifferaio magico che liberò un intero villaggio da questi infausti roditori, dopo averli incantati con la sua musica e che poi rubò con lo stesso piffero i bambini ai contadini del luogo che non gli avevano pagato il compenso pattuito.
Certamente se i bambini valevano quanto la disinfestazione bisogna dire che quei topi erano veramente un grosso danno!
Basta leggere le pagine del Manzoni che descrivono la peste di Milano per rendersene maggior conto. Questi piccoli animali non solo hanno di per sé un potere distruttivo incalcolabile, ma trasmettevano spesso nei tempi passati la peste all’uomo, per tramite delle pulci.
In Svizzera dove promessi sposi, topi, e pulci erano, a quei tempi, forse di casa e dove comunque la peste era endemica, gli abitanti si erano probabilmente quasi abituati e anche abbastanza immunizzati, tanto da poter andare in aiuto, come infermieri e becchini, nelle regioni vicine dove questa malattia assumeva ogni tanto la virulenza grave, propria delle epidemie con danni inenarrabili. Al passar di essa i sopravvissuti si contavano sorpresi di esser ancor vivi in un paese deserto. Alcune città in queste occasioni persero per sempre la loro importanza e, se non del tutto a causa della moria, almeno in concomitanza con essa, come accadde per la stessa Roma imperiale, dopo esser stata colpita a successive riprese da questa immane sciagura.
Noi non sappiamo quali furono le cause delle malattie che colpirono al tempo di Mosé gli egiziani, ma la bibbia ci avvisa che furono precedute da tutta una serie di gravi infestazioni, se non dei topi, di altri animali non meno dannosi.
 Il Signore disse a Mosé: "Io colpirò tutto l'Egitto con le rane. Il Nilo ne sarà pieno; esse usciranno dai suoi margini, entreranno nelle case, nelle camere e saliranno sui mobili sui letti, nella reggia del faraone, nei palazzi dei suoi ministri e invaderanno le case del popolo, entreranno nei forni e nelle madie", (Esodo. 7, 26-29).
Il Signore disse a Mosé: "Comanda ad Aronne di stendere la mano con il tuo bastone sui fiumi, sui canali e sugli stagni per far uscire le rane sul paese d’Egitto!". Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono l'intero paese, (Esodo. 8, 1-2).
Il Signore disse ancora a Mosé: "Comanda ad Aronne di stendere il tuo bastone, percuotere la polvere della terra ed essa si muterà in zanzare che invaderanno tutto il paese d’Egitto", (Esodo. 8, 12-13). 
Poi il Signore disse a Mosé riferisci al Faraone: "Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo, ecco io manderò da domani le cavallette sul tuo territorio. Esse sommergeranno il paese e divoreranno tutto ciò che è rimasto dopo la grandine e le infestazioni...", (Esodo. 10, 4-5).
Lascia partire il mio popolo, altrimenti Mosé raccoglierà una manciata di fuliggine e la getterà in aria sotto i tuoi occhi. Essa si diffonderà su tutto l’Egitto e produrrà, sugli uomini e sulle bestie, un’ulcera con pustole", (Esodo. 9, 1-9).
Gli Ebrei non furono colpiti dalle ulcere e dalla moria che seguirono a queste infestazioni; forse un po’ come gli Svizzeri ai tempi della peste, in condizioni di vita di maggior povertà, erano più facilmente in contatto con animali del genere, tanto che si può pensare che siano stati proprio questa contaminazione abituale a procurar loro una certa immunità.
Allora non furono quelle sciagure un castigo per un intervento diretto di Dio?
Fu l’una e l’altra cosa.
Come anche le pagine della bibbia sono state scritte dagli uomini e nel medesimo tempo da Dio, in ugual maniera si deve dire che la storia che esse raccontano è stata causata da interventi naturali e nello stesso modo da altri soprannaturali e, come la bibbia non si capisce del tutto se non si vede, in quello che riferisce, la mano dell’uomo e insieme quella di Dio, così le vicissitudini umane possono insegnarci molto di più se le consideriamo nel loro evolversi naturale e, nello stesso tempo, raccolte nei confini di orizzonti infiniti.
Così, se c’è una storia sacra del popolo ebreo, allora ogni popolo ha la sua bibbia che potrebbe raccontarci e che il Signore ci svelerà a suo tempo.
Noi leggendo la prima potremmo intuire meglio le altre ed interpretarle forse con meno errori.
Esse riuscirebbero allora non solo a soddisfare la nostra curiosità, ma anche il desiderio di conoscere meglio l’azione di quel Padre e Signore che ha in mano le sorti dei nostri destini.

4° cap. l’Assistenza del malato

Con che disposizione assistere il malato? Gli amici di Giobbe non sanno farsi uno con la sua situazione. Proprio egli, invece, che avrebbe bisogno di aiuto, una volta superata la prova, è ritenuto degno di soccorrerli nel loro bisogno.
(Malattia, assistenza sociale, spese mediche, merito, castigo).

Dopo un periodo di vacche grasse i nostri tempi sembrano ora essere diventati più magri ed in questi casi purtroppo i primi risparmi, che si devono fare, vanno a colpire le spese per l’assistenza sociale.
E’ sempre difficile convincere un malato che le prestazioni mediche costano e che qualcuno le deve pagare e, se questi non capisce perché deve tirar fuori tanti soldi per la sua salute, immaginarsi se lo capiscono le assicurazioni.
Eppure una volta si era più prudenti nelle spese.
Appena finita la guerra, fresco di laurea, assunto in un ospedale di provincia ebbi modo di osservare il caso di un paziente, operato per una banale appendicectomia che incappò in una serie di complicazioni che lo costrinsero ad una degenza più lunga dell’usuale. Io ero allora un medico in erba e non osavo certamente mettere in dubbio l’operato di chi aveva eseguito l’intervento chirurgico, ma l’assicurazione era più critica di me e voleva sapere se quelle sue complicanze non fossero dipese, in qualche modo, dall’imperizia del medico curante.
Insomma se una appendicectomia normale necessitava di un ricovero di sette giorni, come mai in questo caso era durato molto più di un mese? Di chi la colpa? Chi doveva pagare le maggiori spese?
Ma senza arrivare alle inchieste delle assicurazioni, qualche tempo fa il giornale radio denunciava l’operato di alcuni sanitari di un reparto di maternità di un nostro ospedale che avrebbero abbondato nel porre l’indicazione dei tagli cesarei, con il solo scopo di aumentare i loro onorari. Probabilmente la notizia non era vera, almeno del tutto, comunque tutte queste considerazioni ci lasciano capire che se la cura del malato non è un affare, non è nemmeno esente da interessi economici. Per questo alle volte, anche se egli non sa tutti questi retroscena, avverte tuttavia un qualcosa che non appaga la sua richiesta di aiuto, che non viene incontro del tutto alle sue esigenze.
Infatti, sebbene cerchi nel medico chi lo possa guarire, senza accorgersi, spera ancor di più di trovare in lui uno che lo sappia comprendere.
Purtroppo alle volte rimarrà deluso.
Come chi è stato offeso si rivolge al giudice per ottener giustizia e trova invece un ufficiale dell’amministrazione incaricato di applicare le norme e le pene previste dal codice civile, che non sempre lo potranno ripagare del danno, mai consolare del tutto per il torto e il dolore patito, così il malato può incontrarsi con un ufficiale dell’amministrazione sanitaria che saprà applicare al meglio della sua arte tutte le tecniche richieste dalla circostanza, che se potrà alleviare il suo dolore fisico, non riuscirà tuttavia a prendere abbastanza in considerazione quello morale del suo animo ferito.
Non voglio dire che alla persona che soffre mancherà la comprensione e la partecipazione, ma mentre egli sopporta un male che gli sembra impossibile, non potrà mai aspettarsi qualcosa più del possibile, anche se questo gli sembrasse troppo poco.
Anzi talvolta potrà avere perfino l’impressione di esser preso in esame come se fosse solo un libro da leggere o da sfogliare. Purtroppo per diventare medici, o per imparare a farlo sempre meglio, non si può evitare di considerare il malato, quasi senza riguardo alla sua esperienza personale, come se fosse un oggetto di studio.
Ricordo di aver visto, quando frequentavo la facoltà di medicina, una donna di mezza età, ancora in forze, ma già provata dai dolori che gli rodevano il petto. Era lì scoperta davanti a noi sei studenti, appena ventenni, senza esperienza, mentre il professore ci spiegava il suo caso clinico. Forse, pur di guarire, era pronta a tollerare anche quella pubblica esposizione, ma non sapeva di essere già sulla strada di un doloroso calvario. Forse, nelle notti insonni che l’aspettavano, avrà avuto il tempo per ricordarsi di quando era stata contenta di farsi ammirare o, altre volte, risentita per uno sguardo curioso, se non inopportuno, ora si trovava impietosamente nuda davanti all’interesse freddo di sei studenti per il suo seno ridotto ad una pietra, con la pelle raggrinzita dalle cicatrici.
Non potrò dimenticare facilmente quello sguardo che implorava pietà.
Ma anche senza considerare questo caso estremo, il medico non arriverà mai a soffrire quello che soffre il suo paziente. Finita la visita, anche lui ha la sua famiglia e le sue preoccupazioni.
Nessuno può immedesimarsi nel malato come egli meriterebbe. Forse un poco di più i familiari, tanto meno quegli amici che vengono a consolarlo con le loro raccomandazioni e che alle volte riescono solamente ad essere di peso.
E’ il caso di Giobbe. Egli viene colpito da una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo.
 Giobbe, colpito da una malattia della pelle, che lo tormenta giorno e notte, prende un coccio per grattarsi e si rotola nella cenere. Allora sua moglie gli dice: "Vedi bene come sei ridotto! Non sei ancora stanco di preoccuparti solamente di essere onesto? Benedici Dio e muori!". Ma egli risponde: "Parli come una che non ragiona! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?".
Nel frattempo tre suoi amici, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita vengono a conoscenza di tutte le disgrazie che l'hanno colpito. Lasciano la loro casa e si accordano per visitarlo; quando arrivano da lui, non lo riconoscono nemmeno, così com'è, deturpato dalla malattia e non possono trattenere un grido di spavento. Inutilmente cercano di immedesimarsi nel suo male: si stracciano le vesti, senza preoccuparsi dello sporco che regna nella sua casa. Anche loro, come Giobbe, seduti per terra vicino a lui non sanno cosa dire, mentre il tempo non passa e la situazione non muta: così per sette giorni e sette notti.  (Giobbe. 2, 8-13).
Oggi nessuno avrebbe tanto tempo per rimanere silenzioso qualche minuto con chi soffre nell’intento di immedesimarsi con lui nel portare il suo peso. Al contrario si sentirebbe subito in dovere di dargli dei buoni consigli per cercar quei rimedi tecnici che il nostro progresso, con un aggiornamento sempre più accelerato, sembra prometterci come infallibili; ma anche gli amici di Giobbe, quando parlano, si mostrano ben lontani dal suo stato d’animo e dalle sue condizioni.
Anche loro si comportano come facilmente fa chi sta bene e si crede abbastanza maestro da consigliare ai miseri il miglior comportamento da tenersi nelle malattie, al punto da sentirsi qualche volta in diritto di condannare la loro imprevidenza, e quasi autorizzati, pur a fin di bene, a riportarli sulla retta via con qualche paternale del genere:
 Non dimenticati di quel che ti dico: ogni male viene a chi se lo ha comperato: è un castigo di Dio da sopportare con pazienza. Se ci si ravvede si guarisce, se ci si ostina si perisce..  (Giobbe. 4, 7-9). 
Eppure, davanti alla debolezza di Giobbe, questi paladini della giustizia si mostrano ben più deboli di lui stesso.
Il loro agire, senza saperlo, potrebbe persino essere motivato più dalla paura di doversi trovare un giorno nelle sue stesse condizioni, che non dalla pietà per il loro amico. Essi fanno uso di quegli argomenti messi su apposta da loro stessi per cercare un rifugio morale e una sicurezza fisica in quella onestà e in quella saggezza che essi presumono di possedere, delle quali si avvalgono come di un diritto acquisito. Se da una parte dicono che non si possono discutere i piani di Dio, dall’altra pensano di poterlo costringere a soddisfare questo loro diritto con la pretesa di chi si attende da lui un riconoscimento e una remunerazione.
A differenza di loro la gente comune, quella che conosce facilmente, sia il proprio patire, sia le proprie debolezze, se non le proprie mancanze, non è mai sicura nell’emettere teorie, non è mai dura nel proclamare giudizi.
Nella piazza principale di St.Veit in Austria un magnifico obelisco del millesettecento quindici, in onore della Trinità e della Vergine Immacolata, si erge ad implorare che il popolo sia salvato dalla lue, in perpetuum gratiarum actiones anathema ob effugatum in plebem luis contagiosae periculum, ac futuram contra huius modi moestissimos infestae pestis incursus protectionem...
In un tempo come il nostro, alle cui porte si affaccia come uno spettro l’AIDS, la peste del duemila, questo monumento, senza togliere a nessuno il dovere di un impegno e di un comportamento responsabile, supera ogni giudizio sui limiti umani e su tutte le problematiche al riguardo dell’insufficienza attuale della medicina verso questa malattia. (1995).
Come questo monumento di marmo, anche Giobbe, scolpito nella poesia della bibbia, figura di tutti i tempi dell’uomo che soffre, sembra additarci orizzonti più vasti, altre possibilità, un’intelligenza sovrumana delle cose. A lui anche noi medici ci rivolgiamo come a un santo e per lui non perdiamo la speranza davanti ai nostri pazienti più gravi che ci sembrano riflettere la sua inestimabile figura.

C’e’ un altro modo di trattare con il malato, di considerare la sua malattia?
Certamente! E’ quello del Diavolo!
Questi fa il male, è contento di farlo, lo provoca apposta, per portare gli uomini al limite della sopportazione, far loro perdere la pace e il controllo di se stessi, farli diventare quasi delle cose, inutili per loro stessi e per gli altri.
Certamente non ogni dolore viene dal Demonio. Se il male è mancanza di bene, molte volte dipende solamente dai nostri limiti, anche quando il Diavolo li sa sfruttare; tuttavia si può capire facilmente perché egli cerchi di procurare tanti danni agli uomini.
Se una giovane vuol bene ad un ragazzo è pronta a far qualsiasi cosa per lui, pur di renderlo felice, se invece il Diavolo vuole legare a sé qualcuno, non avendo niente da dare, se non restituire appena quello che è riuscito a togliere, non potrà far altro che far finta di restituirgli la roba e la salute che gli ha rubato. Perché è proprio dell’amore sacrificarsi per l’amato ed è tipico dell’egoismo solleticare le necessità altrui per farsi vedere poi generosi solo con dei compromessi.
Naturalmente se il Diavolo vuol conquistare qualcuno non gli dirà: "Se non vieni con me, dalla mia parte, allora ti procurerò tanti danni", ma piuttosto si preoccuperà di convincerlo con le belle maniere: "Se mi prendi come consigliere ti insegnerò come evitare pene e tormenti per riservarliiinvece ai nostri nemici", ma alla fin fine il risultato è uguale. Una volta poi che si è fatto un compagno non lo tratterà certo come un amico, ma solo come un connivente associato alla sua guerra.
Questo è tutto quello che avviene nei gruppi dominati dalla droga, oppure dalla mafia o da quegli altri poteri che si possono sospettare presenti nei vari livelli della nostra società.
Mi diceva un ammalato, che eravamo riusciti a salvare da una grave sindrome addominale acuta, che lo aveva portato sull’orlo della tomba, come nel momento più drammatico della sua sofferenza, da una parte si sentiva consolato nel chiedere aiuto al Signore, dall’altra avvertiva quasi una suggestione disperante, assurda, eppure pressante, che sembrava rimproverarlo ripetendogli: "Se avessi goduto la vita, ora non ti rincrescerebbe troppo di perderla e forse non saresti nemmeno ridotto a questo modo!".
Certamente quel nostro paziente non sapeva se quella fosse la voce del Diavolo, ma era sicuro che non era quella di un angelo. Si trattava di una tentazione vera e propria per trasferirlo all’inferno ancor prima di esser morto.
Ebbene, anche il Diavolo può fare solo quello che Dio tollera per cavarne un maggior bene.
La bibbia ce lo fa presente anche oggi con una messa in scena immaginaria ma eloquente: 
 nella reggia del Signore, ai piedi del suo trono, si presenta l'intera corte riunita; l'immensità del creato con tutti gli esseri della terra e del cielo e, tra loro, anche il Diavolo. Il Signore dice a Satana: "Ti sei accorto almeno di Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo retto, senza pecca né malvolere. Egli è sempre saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza un motivo, per rovinarlo". Satana risponde: "L’uomo è pronto a perdere tutto, ma non la vita. Chiunque, davanti alla morte, nella disperazione,  si dimentica di Dio!". (Giobbe. 5, 1-5).
Giobbe quando era sano e ricco non solo badava a sé, ma provvedeva anche agli altri. Egli stesso ci dice:
 Mi ero rivestito di giustizia per abitudine come se fosse il mio stesso abito di tutti i giorni.
Io ero gli occhi per il cieco, i piedi per lo zoppo, la ricchezza del povero.
Perfino gli sconosciuti venivano da me per chiedermi un consiglio. Nessuno mi aveva mai contraddetto o messo in forse il mio giudizio. Il bene dato e la gratitudine in risposta costruivano l'armonia e la sicurezza di ogni incontro. Nella mia casa regnava la pace e non sbiadiva mai la vita. Avevo scelto una via sicura e una meta certa, (Giobbe. 29, 14-25).
Il capitale di Giobbe serviva a incrementare l’occupazione, addirittura a prestare una assistenza sociale disinteressata. Nei suoi programmi economici poteva prevedere di lasciare una eredità cospicua e un nome illustre. Quando i suoi figli tornavano dalle feste, diremmo oggi dalla discoteca, si sentiva in dovere di controllare che non fossero andati fuori strada o che non fossero incappati nella droga.
Per sé era arrivato a questo punto: aveva stretto con i suoi occhi un patto per non guardare una donna.
Nessuna meraviglia che si sentisse onesto.
Noi certamente non siamo come il Diavolo che fa di tutto per rovinare e perdere la proprietà spirituale e l'integrità fisica dell’uomo per indurlo a ribellarsi all’idea di un Dio buono e amorevole. Per questo non siamo contenti di vedere gli altri soffrire. Anzi la nostra società provvede con tanti sistemi assicurativi ed altrettanti presidi sanitari a ridare efficienza a chi l’abbia perduta con la malattia, in modo che non rimanga a pesare inutilmente sulla comunità, ma una volta reintrodotto nel ciclo produttivo, possa invece contribuire ad incrementare il prodotto lordo nazionale, ma se il nostro buon cuore e la nostra assistenza sociale sono mosse solamente dall’interesse, se noi non riusciamo a credere che l’uomo proprio nella inattività e nel dolore possa dare un suo apporto specifico al bene di tutti, allora questo modo di pensare e di comportarci non è privo di qualcosa di diabolico.
Le conseguenze sono subito evidenti davanti agli incurabili; si può arrivare a considerare la loro morte come l’unica soluzione possibile e concedere un certo assenso alla tentazione dell’eutanasia. Se questo tipo di morte, che non è mai dolce, permettesse alla società di evitare tante spese e ai familiari tanti crucci, non lascerebbe però mai la possibilità a chi soffre di essere più grande del suo stesso dolore, mostrandoci quelle riserve insospettate di chi, come Giobbe conosce il valore della sofferenza.
A quel grande ammalato per meritare la guarigione mancava solamente questo: da una parte l’esperienza dell’estrema sua impotenza e dall’altra la capacità di cercare e trovare in sé una forza per essere superiore a questa sua stessa nullità, che superando ogni limite umano, sapeva pregare e intercedere presso Dio quasi più per gli altri, che per se stesso: per quelli addirittura che lo avevano già condannato come colpevole e meritevole dei castighi dell’Onnipotente.
E il Signore, dopo aver dato a Giobbe la possibilità di fare questa esperienza,
 Disse a Elifaz il Temanita: "La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete la prova e il compito che io ho riservato al mio servo Giobbe. Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per imüetrare la mia grazia; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza.
Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe.(Giobbe. 42, 7-9).
Quando quest’ultimo prega per i suoi amici che sono venuti da lui in veste di giudici critici e non come compartecipi nella prova, allora, anche il Signore lo ristabilisce nella sua fortuna.
Quando un medico incontra un malato che accetta le sue sofferenze come un dono dalle mani di Chi più ama e, superando se stesso e le sue necessità, le usa e le sfrutta ad amor del prossimo suo, non ha più parole e vede tanto misera, anche se utile, tutta la sua arte ed il suo sapere.
E’ una fortuna per lui trovare simili ammalati.
Egli non può spiegarsi il loro comportamento se non ammettendo la possibilità che esistano ancor oggi i miracoli.

Ero a questo punto con il mio scritto e le mie considerazioni, quando mi giunse la notizia inaspettata della morte per incidente di un mio carissimo nipote, un giovane di sedici anni, bello, bravo, buono, uno dei primi della classe.
Immaginatevi il dolore di mio fratello.
Corsi subito da lui. Lo trovai attorniato da amici e parenti, sconsolato.
Ogni spiegazione del dolore si infrangeva contro la realtà del mistero. Ogni pacata considerazione, peggio la razionalità fredda che ci può fare intuire che il morto non soffre più, mentre il dolore è solamente nostro, sembravano un insulto verso chi pativa.
Se presso gli Ebrei e anche talvolta nella bibbia ricchezza e salute erano considerati segno dell’approvazione divina, mentre dolore e povertà come un suo castigo, il libro di Giobbe insegna che la giustizia di Dio è più misteriosa e difficile per noi da essere capita e che comunque non dipende dall’uomo, nemmeno dai suoi meriti.
Questo insegnamento è stato preso giustamente in rilievo da molti commentatori che hanno insistito sul concetto che l’amore di Dio supera il nostro modo di vedere mercantile del valore presunto o preteso dei nostri meriti.
Ma la bibbia propone alla nostra considerazione un altro insegnamento, forse molto più importante e molto più evidente, anche se racchiuso in poche righe.
Se è per le preghiere di Giobbe che i suoi amici sono risparmiati dal castigo di Dio è anche per quelle di un uomo che ha superato la prova e che proprio per questo viene ascoltato.
Il dolore e il male, anche quello fisico, non solo ci danno la possibilità di essere ascoltati dal Signore, ma hanno anche presso di lui la capacità di svolgere una qualche funzione vicaria e complementare da parte di ciascuno di noi nei riguardi del suo prossimo.
Come è ben diversa la posizione degli amici di Giobbe che sentendosi a posto, nel giudicarlo, in effetti si distanziano dalla sua condizione e si dividono da lui e quanto è vera la sua che lo mostra unito alle loro esigenze, perché membro della famiglia umana, partecipe della vita del creato, coinvolto nella storia, corresponsabile nei progetti del Signore!
(Vedi anche: ‹Un filosofo legge la bibbia›).



5° cap. l’Epilettico del vangelo

I rimedi che influiscono sulla salute dello spirito possono essere efficaci anche per guarire le malattie e altrettanto forse si può dire che le medicine possono aiutare lo spirito ad essere più recettivo nei riguardi del bene.
(Depressione, ossessione, epilessia, contagio, colpa, eziologia).

Qualsiasi medico rimane male nell’ascoltare certi discorsi di persone, per così dire, troppo religiose, che sembrano voler relegare esclusivamente nella sfera spirituale alcune perturbazioni della salute dell’uomo che posso essere benissimo spiegabili come conseguenza del suo fisico.
Certi stati di depressione non hanno niente a che fare con il pentimento dei propri peccati e, in un altro campo, la maggior parte dei suicidi non sono delle infrazioni del quinto comandamento, ma semplicemente l’episodio terminale di una malattia psichica.
Il problema diventa più complicato quando certe affezioni vengono imputate all’azione diretta del Diavolo.
Nei libri scientifici di medicina non ci sono capitoli sull’argomento ed il dottore si trova in questo caso davanti ad una situazione che è va oltre la sua arte e le sue cognizioni; in altre parole, per un problema del genere le sue risposte possono essere del tutto comparabili con quelle di un contadino o di un politico qualsiasi che non abbiano mai letto un trattato di terapia.
D’altra parte certe descrizioni, come quella riferita da Marco considerate da un medico moderno sembrano essere delle vere e proprie crisi epilettiche delle quali vengono descritti non solo i sintomi dell’attacco, ma anche con sufficiente precisione quelli dello stato post-critico che ne segue.
 Uno sconosciuto si rivolge a Gesù: "Maestro, ho portato da te mio figlio che è posseduto da uno spirito che lo ammutolisce. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli perde la saliva, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho pregato i tuoi discepoli di scacciare lo spirito, ma non sono riusciti". Gesù allora risüonde a lui e ai presenti in ascolto: "O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? 
Fino a quando dovrò sopportarvi? 
Portatelo da me".
Il padre dell'indemoniato non perde tempo e glielo porta subito. Davanti a Gesù il ragazzo ricade in un accesso di convulsioni, stramazza al suolo e perde il controllo delle sue azioni. Gesù interroga il padre: "Da quanto tempo gli accade questo?". Ed egli rispode: "Fin dall’infanzia; lo spirito lo ha buttato spesso persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo; ma se tu puoi aiutaci!". E Gesù: "Tutto è possibile per chi crede".
Il padre angosciato grida: "Voglio credere!, aiutami a credere!". Intanto il capannello si allarga, vengono i curiosi, si ammassa la folla; Gesù, allora, taglia corto, minaccia lo spirito immondo: "Spirito muto e sordo, io te lo ordino, esci da lui e non vi rientrare più". Lo spirito emette grida, scuote il fanciullo, ma si allontana per sempre lasciandolo esausto, come se fosse senza vita, sicché gl'increduli commentano: "È morto!". Gesù, lo prende per mano, lo solleva e lo restituisce al padre. (Mc. 9, 17-27).  
Dopo questa lettura la domanda più spontanea che potremmo farci sarebbe di chiederci se si tratta di malattia o di possessione diabolica, ma senza altri elementi difficilmente avremmo una risposta soddisfacente.
Domande di un altro tipo sarebbero più contestuali: lo stesso processo morboso può avere origini diverse? Oltre ad una genesi patologica può essere innescato anche da un altro motivo?
L’indagine così formulata risulta più aderente ai fatti e più precisa. Le risposte non possono essere esclusivamente di natura medica.
Del resto quale medico si sentirebbe di mettere la sua firma su un certificato di malattia di un paziente che non ha né visto, né visitato e di cui ha letto solo notizie riferite da chi non conosceva la medicina moderna e che aveva intenzione di illustrare un contesto estraneo alla medicina stessa?
Il problema è reso più complicato da due considerazioni.
La prima riguarda una eventuale colpa del malato, più facile da attribuirgli se si trattasse di un ossesso.
La seconda se manifestazioni morbose uguali abbiano bisogno di cure diverse, talvolta estranee alla medicina.
Vediamo un problema alla volta.
Come oggi si tende a decolpevolizzare tutti per poter così assolvere almeno se stessi, gli antichi facilmente imputavano di peccato gli ammalati per l’inavvertito desiderio di trovare nella purità legale un rimedio per se stessi contro quei mali che allora rimanevano senza una cura efficace. Del resto la necessità o l’opportunità di isolare il malato, specialmente quando era contagioso, richiedeva una scusa plausibile; non si può infatti allontanare chi si trova nel bisogno senza sentirsi un po’ colpevole e, perché nelle discussioni, anche con la propria coscienza, la colpa è sempre dell’altro sconosciuto, era più facile liberarsi delle proprie responsabilità addossandole all'ammalato stesso: se la malattia lo rendeva impuro, lo faceva in qualche modo anche colpevole. Infatti, a quei tempi era difficile distinguere la bruttezza dell’aspetto fisico – si pensi alla lebbra – da quella causata da un vizio morale. Insomma non sapendo come aiutare il malato tutto questo riusciva almeno a tranquillizzare chi non poteva e non voleva farlo.
Ma il vero problema rimane aperto anche ai giorni nostri.
Le cause delle malattie sono sempre solamente fisiche, oppure se ne devono ammettere anche altre? E queste dipendono dall’uomo o sono inevitabili? E se dipendono almeno in parte da lui, egli è colpevole se non le sa controllare?
Non sono queste domande assurde e nemmeno voglio sfuggire al problema medico, infatti, qualsiasi dottore raccomanda ai suoi malati di non lasciarsi soverchiare dallo stress, come se fosse la causa di tutti i malanni, sebbene non specifica di nessuno.
Quell’ossesso sembra alla nostra considerazione essere solamente un malato di epilessia, ma alla lettura del vangelo rimane pur sempre il dubbio che ci possano esser state altre cause concomitanti.
La risposta è complessa e non può essere limitata al solo campo della medicina, essa non può venire se non da un approccio scientifico, libero cioè da preconcetti e quindi da emotività irrazionali.
Prendere in giro chi ha paura del contagio, perché lo crede causato da una colpa morale, facendosi vedere alla televisione, come accadde anni addietro, mentre bacia una paziente di AIDS, non è una risposta basata su studi e statistiche, ma solo su incompetenza, presunzione, superficialità, anche se solamente di natura giornalistica, magari dettata da un bagatellizzare acquiescente. Purtroppo bisogna invece dire che certi contagi sono conseguenza di un comportamento irresponsabile e non basta dar la colpa alla debolezza della natura umana per toglierla a chi sbaglia.
E così abbiamo accennato, senza volerlo, ad una causa, o meglio ad una concausa di malattia non solo fisica, ma anche morale. E, se questa è la causa, anche il rimedio è analogo: certi comportamenti morali la possono evitare, come e meglio delle stesse medicine, quindi almeno in questi casi due modi completamente diversi di operare, l’uno qualche volta colpevole e l’altro mai, possono portare salute o viceversa infermità. Se noi ammettiamo che la malattia possa avere, almeno alcune volte, queste due cause così diverse, non possiamo allora nemmeno escluderne una terza, che non fa parte né del campo morale né tantomeno di quello medico, pur avendo lo stesso effetto deleterio sul fisico.
Come infatti essere sicuri che una forma epilettica vera e propria possa essere esclusivamente di sola pertinenza sanitaria?
Perché escludere a priori che non possa aver avuto, almeno nei casi descritti dal vangelo, anche, e non solamente, una causa diabolica?
Se si deve ammettere questa evenienza, si deve anche ammettere che quella infermità poteva essere guarita sia con le medicine, sia anche e indipendentemente con l’allontanamento dello spirito maligno che dominava il quadro clinico.
Concludere che le epilessie oggigiorno devono essere curate da chi è capace di fare miracoli ed esorcismi è come pretendere di essere sicuri di trovare sempre un santo disposto alla bisogna. Mentre è più facile pensare che addirittura la guarigione, ottenuta con le medicine, possa in un certo modo indurre nel fisico uno stato di minor recettività allo stesso spirito del male. Si tratterebbe in questo caso di un rimedio materiale che ha effetto nell’ambito spirituale, come prima era accaduto che l’influenza maligna lo aveva avuto su quello fisico. In altre parole, chi non s'arrabbia, non bestemmia e non è soggetto a crisi ipertensive.
È un tentativo per cercare di capire da un punto di vista medico un vero e proprio miracolo che rimane sempre di per sé inspiegabile, ma se noi accettiamo l’attività dei farmaci basandoci solo sulla loro efficacia positiva, non possiamo di per sé nemmeno negare l’esperienza della guarigione operata dai miracoli.
E’ vero quell’ossesso sembra un epilettico, ma senza una constatazione diretta il dubbio rimane.
Eppure la scrittura ci vien data da leggere non di certo per farci nascere dei dubbi e per crearci dei problemi.
Essa propone alla nostra attenzione qualcosa di diverso dal solo lato fisico di un uomo. Ci mette a contatto con la sua realtà che non si limita al solo funzionamento del suo complesso materiale.
Se la medicina non ci spiega del tutto lo stato di questo paziente, la religione ce ne fa intuire un altro e, come la sua realtà può essere da noi compresa sul piano materiale, altrettanto la possiamo considerare dal punto di vista morale e spirituale.
La verità è complessa e si presenta a noi sempre sotto diversi aspetti, ognuno dei quali è nel suo campo esauriente e comprensibile.
Un medico al giorno d’oggi visitando quel paziente avrebbe detto che si trattava di un epilettico, ma non avrebbe nemmeno sbagliato chi lo avesse tacciato di ossessione. Ambedue le diagnosi sono valide e vere nel loro ambito e noi le possiamo prendere in considerazione analiticamente, ad una ad una, cercando di evitare un giudizio sommario e confuso.
Probabilmente la medicina moderna avrebbe potuto guarire quel malato e forse influendo su un corpo recettivo all’ossessione avrebbe contrastato anche quest’ultima, mentre il Signore, allontanando il demonio, impediva anche le sue conseguenze negative sulla salute.
Dopo tutti questi lunghi discorsi un'altra considerazione è più importante.
Oggi il demonio non se la prende più con questi ammalati, almeno così evidentemente, ma non per questo ha smesso di tormentare gli uomini.
Se il lettore ha avuto la fortuna di conoscere un qualche gruppo di persone unite nell’armonia e nella pace, che a loro dona la presenza del Signore, non farà nemmeno fatica ad accorgersi come, al contrario, altre compagnie sembrano dar l’impressione di essere ancora oggi sotto l’influsso di una ossessione collettiva.
Nel primo caso gli sarà sembrato di aver toccato un po’ di paradiso, di aver fatto l’esperienza gioiosa dell’essere accolto fratello tra fratelli, d’aver provato la consolazione ed il conforto dell’aiuto vicendevole; mentre nel secondo caso, si sarà trovato di fronte al dissidio, l’irritazione, la gioia acida che nasce dalla provocazione, dall’infastidire, dall’umiliare, avrà provato l’amarezza di esser quasi arrivato alle soglie dell’inferno, alle mura della città di Satana.
Sono queste le ossessioni moderne, che non sembrano con evidenza toccare la salute fisica dell’uomo, senza poterlo escludere, ma che purtroppo influiscono ben più negativamente sulla sua salute psichica e morale.
E qui la medicina e la psicologia possono fare ben poco.
Ancora una volta abbiamo bisogno dei miracoli del Signore e della penitenza delle persone buone che sono costrette a sopportare simili situazioni.



6° cap. Infortuni sul lavoro

Gli infortuni sul lavoro rimandavano alle responsabilità penali e civile degli addetti.
(Aggressioni di animali, casistica, manovalanza, rapporti sociali, giudizi sugli infortuni).

Agli inizi degli anni ottanta ebbi la fortuna di frequentare per qualche tempo la clinica della kiferchirurgie (chirurgia mascellare) dell’università di Zurigo.
Il direttore era un medico di fama internazionale.
Precedentemente si era impegnato nella cura dei soldati feriti al viso nella guerra del Vietnam, ottenendo il riconoscimento delle autorità americane per la sua opera altamente specializzata, ora alla sua clinica venivano i casi più difficili da tutto il mondo. Tra questi quello di un paziente del Sudafrica, sorpreso nella notte da un orso che lo aveva aggredito strappandogli il naso, la mandibola, gli occhi, sfigurandogli il volto. Operazione dopo operazione, pazienza dopo tanto patire, gli rifecero la faccia non gli poterono ridar la vista.
Probabilmente gli infortuni più frequenti sul lavoro ai tempi della bibbia erano proprio di questo tipo.
Se l’agricoltura e ancor più la pastorizia erano i lavori più comuni, la necessità del rapporto con le bestie e la facilità degli incidenti con esse andavano insieme di pari passo.
Lo stesso Davide, ancora inesperto nell’arte della guerra, non aveva paura del gigante Golia, perché si era abituato ad affrontare i leoni per difendere il suo gregge.
Val la pena di rileggerne il racconto.
 Davide si presenta al re Saul e si offre di andare contro il gigante che aveva paralizzato con il terrore le schiere Ebree: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo scenderà a duello con questo Filisteo". Saul fa presente a Davide a quale rischio si espone: "Tu non puoi vincerlo: sei un ragazzo e costui è un uomo d’armi fin dalla sua giovinezza". 
Ma Davide aggiunge: "Il tuo servo è un pastore; quando custodiva il gregge di suo padre, veniva qualche volta un leone o un orso per rubare una pecora. Allora lo inseguivo, lo affrontavo, lo abbattevo. Codesto Filisteo incirconciso farà la stessa fine di quegli animali, perché ha insultato le schiere del Dio vivente”. Davide aggiunse: “Il Signore che mi ha salvato con le bestie feroci, farà altrettanto con questo Filisteo”. 
A questo punto lo stesso re Saul è conquistato dal coraggio del giovane Davide e lo riveste della sua armatura, ma subito, sia il re, sia Davide si accorgono della stranezza di un pastore inesperto, addobbato con gli attrezzi professionali di un guerriero; per vincere il gigante basteranno i ciottoli della sua fionda e l'aiuto del Signore e così, davanti ai due eserciti l'uno di fronte all'altro si avvia al combattimento, solo, eppur sicuro. Il Filisteo quasi non lo scorge nemmeno, si avvicina passo dopo passo e, quando finalmente lo vede bene scoppia a ridere per la sua ingenuità. Davide gli risponde: “Tu vieni a me con la spada. Io nel nome del Signore"; poi non perde altro tempo, mette un ciottolo nella fionda, corre incontro al nemico, tira il colpo e lo abbatte. Le schiere, le une esaltate, le altre avvilite si muovono, gli Ebrei per inseguire, i Filistei per fuggire... (1 Samuele 17, 32-50). 
Se questo episodio è una occasione per parlare del rapporto dei pastori e dei contadini con le bestie, ben più completamente veniamo informati su questo argomento dalla stessa legislazione ebraica che, fin dalla sua promulgazione, riporta tutta una casistica dettagliata dei vari infortuni con gli animali e prende in considerazione, sia i danni, sia le responsabilità.
Qui trascriviamo solo un esempio.
 Quando un bue con le sue cornate provoca la morte d'un uomo o di una donna deve essere lapidato, non deve essere venduto al macello, però il proprietario del bue è innocente. Se, invece, il bue era solito cozzare e i padrone ne era a conoscenza, ma non l'aveva custodito, allora anche il suo padrone deve essere messo a morte; a meno che paghi un riscatto della propria vita, secondo quanto gli verrà imposto. 
Quando il bue cozza contro dei minorenni...
Quando il bue di un uomo cozza contro il bue del suo prossimo...  (Esodo. 21, 28- 32. 35-36). 
La stessa legislazione contemplando il caso di un omicidio preterintenzionale accenna anche agli infortuni sul lavoro manuale.
 Chiunque avrà ucciso il suo prossimo involontariamente, senza averlo mai odiato, come negli infortuni sul lavoro, per esempio quando la scure sfugge dal manico e colpisce per caso qualcuno, allora l'ömicida può salvarsi nelle città rifugio... (Deuteronomio.19, 3-6).
Se la morte era l’evento più temuto, non mancavano certamente gli incidenti meno gravi, ma con le cure di allora non meno drammatici.
Una quantità di malcapitati, sfigurati, sciancati, rabberciati alla meglio più dalla stessa natura che non dal medico, veniva così ad aggiungersi ai poveri del paese.
Del resto rappresentazioni non meno orripilanti le troviamo persino in tempi più recenti, come in un quadro di Bruegel al Louvre di Parigi, con un titolo che è tutto un programma: ‹gli storpi o i mendicanti o i lebbrosi›. La cruda realtà del raffigurato sembra paradossale, rasenta il grottesco.
Come si è già accennato gli incidenti sul lavoro non erano tanto infrequenti.
A quei tempi qualsiasi cosa era fatta a mano. Le macchine erano solo degli attrezzi e anche questi erano mossi dall’energia dell’uomo, qualche volta dell’animale da soma.
Non per questo il personale era meno qualificato.
Salomone per costruire il tempio e la reggia dovette far venire dall’estero artigiani e artisti, perhé in patria mancavano e per questo strinse alleanza con i Fenici di Tiro. Ma accanto a questi specialisti quelle opere colossali avevano bisogno per esser portate a termine di una imponente manovalanza. Il lavoro di corvée era d’obbligo: ogni tribù ebraica doveva mandare a turno un mese all’anno un certo contingente di operai a Gerusalemme. In queste condizioni, tra tanta gente inesperta, si deve ammettere che, malgrado tutti gli accorgimenti possibili, non mancassero tanto facilmente gli incidenti. Alle volte si trattava di vere disgrazie che facevano notizia e comparivano a grossi titoli sulle pagine dei mass media di allora che, pur limitandosi al passaparola, non erano per questo meno tempestivi e di minor diffusione.
Gesù a proposito di un caso del genere, nell’associare la notizia di un grave infortunio a quella di una operazione di polizia cruenta da parte dell’autorità romana, risponde alla domanda che la gente non aveva avuto il coraggio di porgli direttamente: "Di chi è la colpa?". È stata del personale che non ha rispettato le norme di sicurezza sul lavoro, oppure della società che li ha costretti ad un’opera troppo pericolosa?
Forse, in altri termini nella domanda riecheggiava l’antica dialettica tra oppressori e oppressi, tra padroni e operai. Allora non c’era la lotta di classe, ma tutti sarebbero stati pronti a scagliarsi contro i colpevoli.

 Alcuni sconosciuti vanno da Gesù per dirgli che il pretore Romano, aveva soffocato nel sangue una riunione religiosa di Galilei.
Gesù risponde: "Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti gli altri, per aver meritato una punizione simile? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo".. (Lc.13, 1-5). 
Si tratta in un certo senso di una risposta che riflette tutto il suo modo di pensare, essa fa parte della sua politica sociale. Egli non punta il dito contro i paria della società, incolpandoli della loro sfortuna, anzi li pone come esempio e come avvertimento di una condanna che colpirà sudditi e governati, incapaci ed esperti, che non hanno imparato niente dalla storia e dai suoi insegnamenti. 
A proposito di colpe e di giudizi egli aveva già detto:
 Non giudicate, per non essere giudicati;perché con la stessa severità con cui condannate, sarete indagati. La pagliuzza che osservi nell’occhio del tuo fratello non è un alibi per esonerarti dall'osservare la trave che è nel tuo occhio? Sebbene armato di tutte le buone intenzioni, come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è ancora la trave?
Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello. (Mt. 7, 1-5). 



7° cap. Giuda

Giuda, per certi versi sembra un infiltrato. Il paragone con una medicina molto usata in anestesia ne mette in evidenza alcune sue caratteristiche.
(Curaro, farmacodinamica, infiltrato, sabotaggio, mediatore chimico, anestesia, respiratore, acetilcolina, penicillina, schemi di pensiero, farisei, ipocrisia).

Considerando la personalità di Giuda, mi son venute in mente, quasi senza volerlo, a paragone, le caratteristiche di un veleno che è stato poi l’origine di tutta una serie di nuove medicine.
Si tratta del curaro.
È difficile pensare che un composto chimico capace di paralizzare una persona possa diventare una medicina, ma forse proprio per questo val la pena di capire un po’ la sua azione e per mezzo suo quella di molte altri farmaci.
Come agisce il curaro?
Figuratevi di voler organizzare un complesso industriale e, perché non c’è limite alla nostra immaginazione, pensiamo a uno di grandi proporzioni, che richiede una organizzazione perfetta, con un numero enorme di impiegati e di addetti alla lavorazione, tutti alle dipendenze di un unico dirigente. Non potendo costui impartire ordini a ciascuno dei suoi dipendenti deve pure aver bisogno di un capo personale che possa far da punto di contatto per trasmettere le sue disposizioni.
Cercherà, allora, una persona qualificata che sia efficiente, pronta, attenta, disponibile, ma tanto prudente e delicata da scomparire quando fosse necessario o solo opportuno.
Insomma un angelo.
Se ora si presenta da lui un diavolo mimetizzato da angelo ed egli lo assume, credendo di avere la persona adatta, anche il suo personale non si accorgerà dell’intruso che si è infiltrato nel processo produttivo. Però, quando egli darà un ordine, l’infiltrato non lo trasmetterà e l’organizzazione di quel lavoro resterà bloccata.
In pratica si tratta di una specie di sabotatore con la tipica caratteristica, propria dei sabotatori, di imitare alla perfezione il bene e di fare invece il male.
Il curaro naturale funziona alla stessa maniera.
Si mette tra la terminazione nervosa e i muscoli e fa finta di essere uguale al mediatore naturale che si chiama acetilcolina, quella specie di angelo che porta i comandi necessari per metterli in contrazione. Essi non sanno di aver a che fare con un infiltrato, perché assomiglia del tutto all’acetilcolina, ma non possono ricevere lo stimolo che egli ha bloccato e quindi rimangono immobili.
Il curaro è un veleno ricavato dal succo di alcune specie di stricnee, usato primitivamente per la caccia dagli indios dell’Amazzonia. Gli animali colpiti dalle frecce intrise di questa sostanza rimangono ancora vivi per qualche tempo, ma non potendo muoversi e quindi respirare o muoiono o comunque cadono senza forza nelle mani del cacciatore.
Il curaro quindi è un veleno, non è una medicina, eppure si è rivelato utilissimo nella pratica anestesiologica.
Un ammalato sottoposto ad un intervento come prima cosa non deve sentire dolore, poi essere trasferito quasi in uno stato di assopimento e di insensibilità e..., proprio così, come state pensando, di rilassamento fisico.
Se contraesse i muscoli ostacolerebbe le manovre del chirurgo. Nel suo stato di sonno e di incoscienza potrebbe muoversi. Ne verrebbe fuori una situazione più vicina ad una lotta che non ad una operazione, come di fatto succedeva nei secoli scorsi, senza contare che le moderne tecniche chirurgiche di interventi sui polmoni o sul cuore hanno bisogno di un malato che quasi non respira.
Ecco l’utilità del curaro che paralizza i muscoli, ma non le altre attività vitali dell’organismo come quella del cuore e delle ghiandole.
Il paziente diventa così facilmente operabile e anche se gli interventi hanno perso il loro vecchio alone di prodigio eroico e il chirurgo la sua fama di destrezza audace, in compenso si svolgono nella tranquillità di una tecnica raffinata e controllata.
È vero: il paziente per continuare a vivere ha bisogno che qualcuno sostituisca la sua attività respiratoria, ridotta alla paralisi, ma questo oggi è possibile, senza troppe difficoltà, anche per lunghi periodi di tempo con i respiratori artificiali e con il controllo dei gas nel sangue.
Ma il curaro è altrettanto importante dal punto di vista teorico oltre che pratico.
Per mezzo suo si è venuti a conoscere un diavoletto, una specie di infiltrato nell’organismo umano che imita in tutto e per tutto il suo angelo corrispondente, salvo nella bontà.
Si potrebbe dire che ha le ali come lui, l’aureola in testa e magari un vestito immacolato, ma rimane pur sempre quel diavolo che è, quindi senza lavorare mai.
Si è visto poi con certe medicine, che questo diavoletto può addirittura far di peggio, combinare con il suo lavoro più danni che se restasse inattivo.
Mai fidarsi dei diavoli vestiti da angeli!
Ma ritorniamo alla nostra storia.
Se si vuole avere il curaro basta cercarlo in natura, oppure, e qui si è già fatto un passo avanti, si può costruire un composto simile in laboratorio.
A questo punto si è fatto un passo successivo, anche più importante.
Ci si è accorti che se il diavolo aveva copiato l’angelo, sarebbe bastato copiare tutti gli angeli necessari ai processi vitali per arrivare a costruire tanti diavoletti, e ad avere così tante medicine inventate di bel nuovo.
Quindi se l’acetilcolina è il trasmettitore fisiologico dell’impulso nervoso a livello dei muscoli, sarebbe bastato costruire in laboratorio una molecola simile ad essa, capace di essere riconosciuta dai muscoli come se fosse quella naturale, ma abbastanza diversa da non aver alcun effetto su di loro.
Ecco i curari sintetici.
Ne sono stati fatti a non finire.
Il più famoso quello di un ricercatore francese, premio Nobel, che lavorava in Italia.
L’azione del curaro ha una durata di circa mezz’ora. Si voleva averne uno che durasse solo pochissimi minuti ed egli lo ha inventato. Per altri motivi ce ne voleva uno che durasse più a lungo e altri ricercatori lo hanno inventato, oppure che fosse facilmente rimosso ed anche questo è stato trovato e così via.
Sono stati tutti fabbricati in laboratorio eseguendo una copia alterata del trasmettitore naturale della contrazione dei muscoli.
Se per un verso questa falsificazione è servita a fabbricare molte medicine, dall’altra è stata una riprova di come avvengono determinate funzioni nei vari organi dell’apparato umano.
Ovviamente lo studio del curaro è andato avanti insieme con tante altre ricerche ed ha avuto bisogno di molte spiegazioni precedenti e pur essendo interessante la sua scoperta, non rappresenta l’unico modo di agire dei farmaci.
Tuttavia anche la penicillina che è stata scoperta per caso, anche i sulfamidici che già erano conosciuti ed usati con successo, presentano una farmacodinamica analoga anche se su substrati diversi. Sono infatti degli antibiotici con una attività si può dire antivitaminica a livello dei germi.
Questi ultimi credono di vedere l’antibiotico come se fosse un componente di cui hanno bisogno per vivere, una specie di amico della loro esistenza ed invece si trovano a che fare con dei diavoletti mimetizzati da amici, pronti, per così dire, a dar fiducia ai germi, ma a negar loro quell’aiuto che invece sarebbe necessario.
Così essi assumendo l’antibiotico lo confondono con un mattone fondamentale della loro auto-moltiplicazione, ma si trovano di fatto con una molecola chimica che non serve allo scopo, per cui muoiono senza potersi riprodurre.
La scoperta di questo modo di agire delle medicine ha portato ad una serie di sviluppi farmacologici impensati.
Da una parte anche se il curaro e la penicillina esistono in natura, quelli sintetici o semisintetici si possono ottenere più a buon mercato, dall’altra moltissimi altri composti chimici attivi sono stati del tutto inventati ex novo senza che siano mai esistiti prima.
In alcuni casi purtroppo lo sviluppo ha preso una direzione nefasta. Basta pensare alle armi chimiche, composti tremendamente, ma deleteriamente efficaci anche a dosi infinitesimali.
Comunque si tratta proprio di un meccanismo curioso e drammaticamente raffinato con riscontri e analogie nel nostro modo di comportarci, possibile anche ai nostri giorni.
La nostra immaginazione va a certe notizie propalate con insistenza dai mass media che sembrano così vere e realistiche da soddisfare il nostro desiderio di essere informati su argomenti che ci toccano da vicino e che sentiamo tanto importanti per il nostro viver quotidiano, ma che contengono qualcosa di sufficientemente falso da fuorviare la coscienza dei più.
Non possiamo sapere se il subcosciente dei ricercatori è stato influenzato nei loro studi da simili paragoni che vengono dalla farmacologia e che possono aver funzionato come ‹schemi di pensiero›. i0È più facile pensare che la falsità è uno dei modi di pensare e con queste considerazioni possiamo riuscire a far fare alle medicine la figura di angeli o di diavoli, ma ovviamente non è così.
Esse non hanno una morale; sono gli uomini che le usano ad averla e quindi ad esser buoni o delinquenti.
In questo campo non tutti i mali vengono per nuocere, anzi proprio questi veleni, sotto certi aspetti, possono essere usati per far del bene, tanto che si può tranquillamente dire che viceversa tutte le cose buone diventano dannose nelle mani di chi le vuole usare solamente male.

Ma dopo tutto questo lungo discorso torniamo al punto dove l’avevamo lasciato.
Gesù per costituire la sua chiesa non poteva far altro che chiamare la gente del suo tempo e del suo luogo, anche se di una mentalità ben diversa dalla sua, coinvolti chi più chi meno con persone di correnti di pensiero ben lontane dalla sua dottrina, forse di partiti che sostenevano programmi addirittura contrari ai suoi progetti.
Si sa che alcuni dei suoi discepoli venivano dall’area riformista di Giovanni Battista, altri da quella rivoluzionaria degli zeloti, probabilmente Giuda da quella dei farisei.
Chi erano i farisei?
E’ troppo semplici definirli persone appartenenti alla destra del paese, forse ci si avvicina di più al vero catalogandoli tra i conservatori.
Comunque al tempo di Gesù, se non detenevano completamente il potere, potevano certamente influenzare in larga misura il sinedrio che era in pratica l’organo parlamentare dei Giudei.
Ma, per dettar legge, avevano bisogno di goder la stima e la considerazione della gente. Per questo amavano farsi propaganda, ambivano i primi posti e, pur di acquistare buon nome, non cercavano di evitar l’ipocrisia, esponendosi al pubblico nel loro più ligio attaccamento ai doveri della legge ed alle formalità della religione, tuttavia non certo senza cavarne un utile, tanto che facilmente erano attaccati al denaro.
Gesù li chiamava sepolcri imbiancati.
E, se Giuda veniva dalla loro parte, molti di quei difetti se li portava con sé, come gli altri apostoli non erano liberi da quelle pecche proprie del loro ambiente, dal quale essi però si allontanarono ben presto e, alla sequela del maestro, ebbero modo di convertirsi, mentre il traditore purtroppo no.
Anzi dobbiamo chiederci se egli non solo sia appartenuto alla cerchia dei farisei, ma addirittura non fosse un loro infiltrato tra i discepoli del Signore.
Gesù sapeva che proveniva dalle file del nemico, ma non poteva rinunciare al tentativo di convertire né lui, né i suoi colleghi, né quella parte di umanità che egli in qualche modo rappresentava.
E’ impossibile che il Signore non abbia fatto tutto quanto stava in suo potere: egli che era venuto a salvare il mondo da tutti i modi di pensare e da tutte le ideologie sbagliate. I suoi discorsi allora contro l’ipocrisia e contro l’attaccamento alla ricchezza non risuonano solamente come parole di condanna per i farisei o avvertimenti per i discepoli, esse risultano anche come esortazioni e insegnamenti indirizzati particolarmente a Giuda che, ascoltandoli, avrebbe dovuto ben capire su quale strada si stava avviando, avrebbe dovuto guardarsi da quei «guai!» proclamati dal Maestro che gli predicevano un futuro di disperazione. Rileggiamoli ancora una volta: essi hanno anche oggi il loro valore.
 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: "Sulla cattedra di Mosé si sono seduti gi scribi e i farisei. Fate quello che vi dicono, ma non quello che loro operano, perché dicono e non fanno. Impongono, infatti, pesanti fardelli sulle spalle della gente, Che loro non vogliono muovere neppure con un dito. Fanno tante cose, ma solamente per interesse e vestono quella divisa che attrae l'ammirazione della gente. Cercano sempre i primi posti e si fanno invitare nelle solennità e nelle feste, presentandosi con tutti i titoli del loro stato, necessari per essere stimati come maestri esperti e competenti. Ma voi non fatevi chiamare con il titolo di ‹dottore›, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‹padre› sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‹maestri›, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; perché chi s'innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che usate tutte le difficoltà per impedire agli sfortunati di migliorare la loro posizione e le loro capacità, per conservare la vostra fama e per riuscire indispensabili ai più semplici. In questo modo, chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che avrebbero voluto.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che usate tutti gli artifici e le suggestioni che promettono senza mantenere per conquistarvi aderenti e conniventi e per renderli falsi e intriganti come voi.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che osservate le esteriorità per acquistare fama tra la gente, ma trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste virtù sono indispensabili, mentre le norme sono opportune. Fariseo cieco, prima di presentarti pulito e ben vestito, prima delle belle maniere, pulisci la tua vita intima che nessuno vede. Altrimenti siete come i sepolcri, belli di fuori, putridi all'interno, infatti, fate la figura di essere giusti agli uomini, ma nell'intimo siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che erigete monumenti agli eroi e ai martiri e celebrate le loro ricorrenze con solennità, perché così facendo date la colpa ai padri di ciò che avete da loro imparato e che voi continuate a fare, ma non a rimediare. (Mt. 23, 1-32). 
Gesù mostrerà più tardi con la crocifissione il valore dei suoi avvertimenti, pagando di persona, ma, al momento, non poteva fare di più.
Se avesse denunciato le mire di Giuda, forse gli altri discepoli lo avrebbero isolato escludendolo dalla loro compagnia e, quindi, dagli insegnamenti di Gesù, impedendogli così definitivamente di ravvedersi e di convertirsi.
Ma il risultato sarebbe stato ancor peggiore se non avessero creduto a Gesù, come forse sembra esser stato anche possibile. Gl'infiltrati, infatti, sono sempre preoccupati di non tradirsi e di mimetizzarsi talmente bene da esser presi per i migliori nella parte che hanno scelto di vestire.  I recettori muscolari dello stimolo nervoso scelgono il curaro, non l’acetilcolina; preferiscono il veleno, non l’ormone fisiologico, sembra quasi che lo trovino persino più naturale e più amico. Allo stesso modo se gli apostoli non anteponevano di certo Giuda al Maestro, avrebbero potuto preferire purtroppo alcune delle sue idee. Lo stesso Pietro almeno una volta ebbe bisogno di un rimprovero solenne e di una correzione decisa nel suo recalcitrare davanti alla croce.
 ...Gesù predice la sua morte ai discepoli prima di ritornare per l'ultima volta a Gerusalemme, certamente per avvisarli e prevenirli, ma sopratutto per assicurare loro che è l'ultima e la suprema offerta di se stesso in testimonianza del suo amore e dei suoi insegnamenti. Molti maestri e molti filosofi sono stati angariati e uccisi, ma Gesú rinuncia alla propria difesa per non offendere, preferisce non essere amato, piuttosto di non amare. Con la sua morte inizia una persecuzione del cristianesimo che dura tutt'oggi. Pietro non sopporta una prospettiva del genere e, tratto in disparte il Signore cerca di dissuaderlo dalle sue previsioni e dai suoi propositi. Così facendo, denuncia invece la sua poca fede nella redenzione. Gesù, voltandosi, gli dice con chiarezza: "Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!" (Mt. 16, 21-23). 
In una altra occasione, Gesù dovette richiamare gli apostoli alle loro responsabilità:
 Gesù dopo aver predetto l'istituzione dell'Eucaristia è abbandonato da molti che lo seguivano più per entusiasmo, che per convinzione e si trova quasi da solo con i Dodici discepoli. Allora li guarda negli occhi e dice loro: "Forse anche voi volete andarvene?". Gli risponde Pietro per tutti: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio". Rispose Gesù: "Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!". Egli parlava di Giuda Iscariota che l'avrebbe poco dopo tradito. (Gv. 6, 67-71). 
Insomma, molti intorno a Gesù erano in pericolo di preferire il veleno mascherato piuttosto che la dura medicina della redenzione.
Del resto anche noi, nell’ascoltare la dottrina della chiesa, siamo talvolta portati a preferire alcune proposizioni contrarie al suo insegnamento, perché più facili, piuttosto che aderire completamente a quelle che ci propone, anche se sono più ardue da seguire.
Insomma, se nella compagnia di Gesù, nella chiesa nascente, c’era un infiltrato, non ci conviene far tanto gli scandalizzati, perché non ci siamo accorti che, forse, proprio nella chiesa dei nostri giorni, ce ne sono parecchi e anche noi, fino a quando non saremo convertiti del tutto, rischiamo sempre di preferire il veleno, al posto di mantenere sempre con lei il nostro indissolubile legame fisiologico.



Sommario

PRIMA PARTE

INTRODUZIONE

!° CAP IGIENE
Servizi igienici pubblici, protezione dell'ambiente, 
abitudini e tradizioni dei popoli della bibbia.
(Rifiuti e scorie industriali, cloaca, acqua potabile, abluzioni, inquinamento atmosferico, popolazione, escrementi, riscaldamento).

2° CAP ANCORA sull’IGIENE
La religione, idea forza a servizio dell’uomo, anche nel campo dell’igiene, senza nemmeno che egli ne sia pienamente cosciente.
(Morte, sepoltura, prostituzione, carne suina, impurità legale, Tobi).

3° CAP INFESTAZIONI E INFEZIONI
Gli ebrei vivendo in un ambiente più povero e più contaminato ebbero occasione di immunizzarsi verso l’epidemia che colpì a morte anche il primogenito del faraone?
(Topi, peste, Mosè, le piaghe dell’Egitto)

4° CAP l’ASSISTENZA DEL MALATO
Con che disposizione assistere il malato? Gli amici di Giobbe non sanno farsi uno con la sua situazione. Proprio egli, invece, che avrebbe bisogno di aiuto, una volta superata la prova, è ritenuto degno di soccorrerli nel loro bisogno.
(Malattia, assistenza sociale, spese mediche, merito, castigo).

5° CAP l’EPILETTICO DEL VANGELO
I rimedi che influiscono sulla salute dello spirito possono essere efficaci anche per guarire le malattie e altrettanto forse si può dire che le medicine possono aiutare lo spirito ad essere più recettivo nei riguardi del bene.
(Depressione, ossessione, epilessia, contagio, colpa, eziologia).

6° CAP INFORTUNI sul LAVORO
Gli infortuni sul lavoro rimandavano alle responsabilità penali e civile degli addetti.
(Aggressioni di animali, casistica, manovalanza, rapporti sociali, giudizi sugli infortuni).

7° CAP GIUDA
Giuda, per certi versi sembra un infiltrato. Il paragone con una medicina molto usata in anestesia ne mette in evidenza alcune sue caratteristiche.
(Curaro, farmacodinamica, infiltrato, sabotaggio, mediatore chimico, anestesia, respiratore, acetilcolina, penicillina, schemi di pensiero, farisei, ipocrisia).
  
SECONDA PARTE


8° CAP il RAPPORTO MEDICO - MALATO 
il rapporto medico - malato alle volte è improntato a sentimenti misti di diffidenza e di stima, di odio - amore istintivi.
(Spese farmaceutiche, placebo, stregoneria, rimedi naturali, guarigione).

9° CAP una PAZZIA ATAVICA
Salute, vitalità, socialità sono per l’uomo limitate. Il loro esaurirsi è fonte di malattia.
(Salute, esaurimento, vecchiaia, pazzia, colpa, responsabilità, divisione, guerra).

10° CAP il SANGUE 
La perdita del sangue equivaleva, per gli Ebrei, alla perdita della vita. L’annuncio della comunione con il sangue di Cristo risultava orripilante alle loro orecchie.
(Ferite, emorragia, trasfusione, motivazioni primarie e istintive, morte, vita).
l’oro e la cera (favola)

11° CAP un INTERVENTO di CRANIOTOMIA
L’epilessia è uno dei postumi più frequenti dei traumi cranici. Anche un personaggio famoso della bibbia potrebbe aver sofferto una malattia dello genere.
(Contusioni craniche, epilessia post traumatica, lapidazione, soggettivismo, rivelazioni).

12° CAP la RESURREZIONE
Attestare la verità è prima un modo di vivere e poi di parlare. Questo vale soprattutto per il messaggio di Gesù.
(Resurrezione, testimonianza, verità, il ricco epulone).

13° CAP l’ELEZIONEdel POPOLO EBREO
Si può affermare che Dio ha prediletto il popolo Ebreo?
Come mai Egli, che è giusto e quindi imparziale, ama un popolo più di un altro?