UN LAICO LEGGE LA BIBBIA





Giuseppe Tradigo
Un laico legge la bibbia


qual'è e come è il mondo della bibbia di 20 secoli fa?

I capitoli che seguono comprendono dapprima una descrizione dell’ambiente storico dei primi cristiani, 
seguita da la lettura dei testi che parlano della novità per i contemporanei della loro cultura e della loro vita.

Vedi il sommario al fondo di questa pagina


La società nel tempo
dei primi cristiani

Il mondo dell’economia 
Il mondo della finanza e dell’economia dell’antica Roma ha la sua storia che accompagna di pari passo quella della sua espansione politica e, come questa, non sempre senza problemi e difficoltà.
Ai tempi di Nerone si può dire che la sua potenza non aveva rivali. Basta pensare che il cittadino di Roma trovava sui banchi del suo mercato perfino la seta cinese.

Il benessere economico dipende dal rapporto equilibrato tra produzione e consumo, tra investimenti e sfruttamento delle risorse. 
I più avanti tra noi di età ricordano l’estrema miseria, durante la guerra, per mancanza di beni che erano inutilmente sacrificati sui campi di battaglia. Allora un pezzo di pane era un tesoro ed il giorno dopo valeva molto di più di quanto fosse già costato troppo il giorno prima. Come conseguenza, l’inflazione era diventata una regola.
Quando invece non sembrano esserci più limiti alla disponibilità di beni, quando insomma non manca niente e quando maestranze e tecnici offrono una produzione superiore per quantità e qualità a quel che viene richiesto, i prodotti stessi sembrano aver quasi perso il loro valore, i mercati ristagnano, la disoccupazione dilaga. Eppure a ben vedere ricchezza e povertà non dipendono tanto da un equilibrio tra produzione e consumo, quanto piuttosto da una sufficiente larga partecipazione alla proprietà dei beni, considerati come uno dei mezzi principali per esplicare le doti e le capacita dei singoli. Tuttavia chi ne possiede troppi, ne rimane quasi ingolfato, come se essi fossero più importanti delle sue doti creative, mentre chi non ne ha a sufficienza si trova nell’impossibilità di metterle a frutto. Il primo, perché ha, non può aver di più ed il secondo non ha nemmeno qualcosa da dare. Per questo il ricco si annoia e si ottunde ed il povero si arrabatta e si dispera. L’uno dà la colpa della sua infelicità all’altro, ed ognuno si fa avanti per imporre la sua ricetta che egli crede adatta a guarire questi malanni. Chi ha troppi beni propone di consumarli del tutto ed in fretta, sperando cosi di forzare un incremento della loro produzione. Chi non ne ha vuol rimediare dilapidando i capitali o perlomeno le risorse destinate agli investimenti, anche rubandoli, se lo crede necessario. La stessa guerra, alla fin fine, sembra esser quasi solamente una occasione per consumare, senza motivo, e per rubare, senza ragione.

La Roma dei tempi di Nerone si presentava potente di mezzi, ricca di prodotti. Da tutte le province dell’impero affluivano i migliori ingegni, le maestranze più esperte, le merci più care e più rare. I palazzi, i templi, gli edifici pubblici sfavillavano d’oro, risplendevano di arte sopraffina, le sale dei tribunali e delle accademie mettevano in mostra personaggi togati di fama illustre, le botteghe le merci più esotiche e i prodotti della più perfetta tecnologia. Stadi, anfiteatri, teatri celebravano personalità note che erano diventate gli idoli delle folle e della moda del tempo. Ovunque la pubblicità più sfacciata, espressa perfino nelle statue dorate dei professionisti dello sport, celebrava quella gloria, alla quale credevano di partecipare, come in un sogno, per il solo fatto di esserne tifosi, quelli che di gloria non ne avrebbero mai potuta avere in altro modo. E nel medesimo tempo, al di là di questa realtà fastosa, dovunque 1’esercito della gente comune, senza la possibilità di godere appieno di questo benessere, anzi con la prospettiva di vedersi sempre più emarginato. Uno dei più bei templi dell’antichità, a detta di Plinio, quello di Marte Vendicatore, costruito da Augusto, era separato dalle dimore, caoticamente affastellate della gente comune, da un grande muro, eretto, come si diceva, per difendere la costruzione dagli eventuali incendi, di fatto, per separare e nascondere lo sciatto dal fastoso. A questa situazione economica fatta di ricchi e di poveri, insoddisfacente per gli uni, precaria per gli altri, chi comandava, l’imperatore del tempo, Nerone, propose la ricetta tipica dei ricchi, quella di aumentare la produzione, con il rifare completamente i quartieri vecchi e malandati della sua capitale. Ma, perché per fare il nuovo bisogna pur distruggere il vecchio e, perché chi ha tante possibilità ha sempre poco tempo e nessuna pazienza, la rimozione della Roma superata, fu affidata all’opera devastatrice di un incendio, forse provocato a bella posta, e comunque non domato a tempo, che dalla notte del 18 di luglio del 64 imperversò per ben nove giorni, distruggendo quasi completamente l’intera città. Siccome poi i ricchi ci tengono ad esser considerati generosi ed i poveri non possono preoccuparsi troppo di esser fastidiosi con le loro proteste, per combinare le due cose, anche Nerone aperse i suoi giardini e quasi le sue stesse abitazioni, per accogliere i senza tetto in alloggiamenti di fortuna, fatti costruire in fretta per l’occasione. E ancora, perché chi comanda giudica secondo la sua giustizia e il popolo talvolta senza la prudenza necessaria, si trovarono anche facilmente i colpevoli, scaricando sui cristiani l’indignazione dei primi e la rabbia dei secondi. 
Ma chi erano i cristiani?
A quel tempo i più non si erano ancora interessati molto di loro, se li erano invece trovati tra i piedi, quasi per caso. Erano gente modesta, che lavoravano, si trovavano insieme per celebrare l’eucaristia, per ascoltare i loro maestri, gli apostoli, e per aiutarsi a vicenda; non solo, ma anche per mandare il loro superfluo ai confratelli, fino ai margini dell’impero, che avevano più bisogno di quanto ne avessero loro stessi. Gente quindi che non aveva ricette patentate ed approvate per risolvere le crisi economiche, ma che si volevano bene e cercavano di aumentare il benessere gli uni degli altri che non è quasi mai solamente un aumento di ricchezza, almeno nel senso che allora si credeva. Gente alla buona, quindi, gente comune, che pero predicavano con la loro vita da una parte una maggior modestia ed un maggior amore per la povertà, dall’altra un maggior impegno nel produrre a giovamento anche di chi era meno fortunato. Si trattava insomma di persone che a quel tempo erano fuori moda, quasi stranieri in patria, e che, quindi, avrebbero potuto dare, o anche di fatto davano, fastidio. E siccome i fastidi possono risultare un danno a chi non li sa affrontare e, perché chi fa danni e sempre colpevole, la conclusione logica anche se non ragionata servì ulteriormente come argomento per dar allora inizio alla più furibonda, feroce, sanguinosa loro repressione, simbolo ed esempio di tutte quelle che susseguirono successivamente fino ai nostri giorni. 

Allora l’impero romano non risolse i suoi problemi economici, ma, avendone trovato i presunti colpevoli, poteva ancora tirare avanti in pace con la coscienza tranquilla di chi lo reggeva e di quelli che si trovavano a casa loro nei suoi confini. 

Il mondo dello spettacolo
Cesare, nominato pretore della Spagna nel 62a.C., se non fosse intervenuto Licinio Crasso in suo aiuto, non sarebbe mai riuscito a partire da Roma per raggiungere la sua sede, per l’ostilità dei creditori che esigevano da lui, prima di lasciarlo andare, il pagamento dei debiti che raggiungevano la cifra di ottocentotrenta talenti, pari con molta approssimazione, a quindici miliardi di lire attuali (nel 1995). La carriera politica allora costava e Cesare non aveva lesinato nello spendere per la propaganda personale, usando l’arma degli spettacoli per costruire la sua notorietà e per conquistarsi il favore popolare. L’episodio può dare un'idea di come i mass media fossero così importanti presso i Romani. 

L’uomo rappresenta se stesso sulla scena del teatro. In essa si muove, in un mondo che egli stesso ha costruito, si esalta, si applaude, riconosce ed ammira il lato positivo di sé e ancora può permettersi in questo modo di giudicare, disprezzare e condannare quella parte di sé che egli odia. E tutto questo mentre se ne sta comodo, seduto in platea ad ammirare la sua storia. Finita la rappresentazione si alza soddisfatto: ha scaricato le sue tensioni e ritorna ad affrontare i problemi di prima con la sensazione di esser stato il migliore, di aver vinto e castigato quel se stesso peggiore, che egli voleva condannare e che ora ha già dimenticato. Il teatro potrebbe in questo modo dare all’uomo la possibilità di vivere in un mondo immaginario, liberandolo dall’obbligo di rimediare ai suoi errori e di impegnarsi nell’affrontare la dura realtà. Se si aggiunge poi che sulla scena si possono rivivere, insieme agli attori, tutti i vizi possibili e impossibili, con l’apparente intenzione di esecrarli, non si farà troppa fatica a capire perché, a Roma, la legge non permettesse simili costruzioni stabili in muratura. 
Pompeo fu il primo che riusci a raggirarla, edificando un teatro sotto Ie apparenze di un edificio di culto e di convegno. Da quel momento nel giro di pochi anni con una accelerazione da cinematografo, con un impiego di capitali da capogiro, si arrivò alla costruzione di numerosi edifici adatti per lo spettacolo. Il più bello rimane sempre il Colosseo. Fu costruito a tempo di record. Sotto l’impero di Vespasiano, nel 77 d.C., dopo due anni di lavoro, con l’impiego di migliaia di maestranze, arrivava al terzo piano e, ancor prima di esser finito, completato in fretta con una sovrastruttura in legno, era subito pronto per essere usato. Il figlio Tito aggiunse un altro piano e dopo di lui Domiziano lo aveva già portato definitivamente a termine. L’anfiteatro e una tipica invenzione romana. Non esisteva nelle altre culture. Comparve per la prima volta quando si pensò di mettere insieme due teatri, che di per sé sono a forma semicircolare, costruiti in legno, sulla base di un congegno meccanico strabiliante, anche per i nostri tempi, che permetteva di ruotarli su se stessi per rimanere distinti presentando due platee e due scene diverse, oppure venire accostati a formare un cerchio completo, dove la scena erano ad un tempo stesso gli spettatori che si guardavano di fronte: e lo spazio racchiuso dove si svolgevano i giochi. Probabilmente tutta questa meccanica fu messa in moto solo poche volte, se doveva spostare delle costruzioni di tanta mole, per di più gremite da una folla di spettatori e si preferì lasciarlo, ben presto, nella forma di anello chiuso. Cesare ne fece costruire uno apposta, ma anche questo in legno. I suoi spettacoli erano di una fastosità sempre più ricercata. Basta dire che in una sola rappresentazione giostrarono trecentoventi copie di gladiatori rivestiti di corazze d’argento. Anche questa costruzione non ebbe una vita troppo lunga se, dopo soli venti anni, era sostituita da una stabile in muratura, eppure già insufficiente, prima ancora di esser costruita. Talvolta si era anche provveduto a sostituire sia la platea che l’arena con dei scenari naturali, ricavati in piccoli avvallamenti del terreno, preparati per la bisogna. Finché appunto non fu costruito l’anfiteatro Flavio: il Colosseo con 45.000 posti a sedere. Gli spettatori erano i cittadini della capitale dell’impero destinato ad essere forse uno dei più importanti della storia e, almeno in principio, gente semplice, rude, non raffinata come i Greci che erano stati gli inventori di grandi rappresentazioni teatrali, le famose tragedie. Dopo una delle battaglie contro i Cartaginesi, a Palermo, il vincitore, Cecilio Metello, si ritrovò con un bottino di guerra che tra l’altro comprendeva 142 elefanti. E, perché non si aveva né l’attrezzatura, né i capitali per poter mantenere simili pachidermi e, neppure, se ne vedeva la loro utilità, si penso di sopprimerli. Ma i romani, per quanto persone rudi, erano anche gente pratica è, perché dopo ogni vittoria celebravano un trionfo, pensarono di usarli per l’occasione, per uno spettacolo, una finta battaglia dove essi avrebbero dovuto soccombere davanti a tutto il popolo riunito in platea. Era una specie di esposizione di forza. I cittadini potevano ammirare bestie di cui avevano tanto sentito parlare, ma che non conoscevano direttamente, di imponente grandezza, di spaventoso barrire, che i loro soldati avevano saputo affrontare coraggiosamente e vincere. Sulla immensa scena del combattimento avevano modo di esaltare se stessi, rivivere la potenza dell’impero, disprezzare la forza dei nemici, ritrovare l’emozione dello scampato pericolo, compiacersi del trionfo e della vittoria. Erano così nate le tipiche rappresentazioni dell’anfiteatro romano: le ‹venationes›, fatte di animazione reale e di imponenza scenica, con la partecipazione entusiasta di tutto il popolo. Per lo più erano scene di caccia o anche solamente dimostrazioni di forza o di abilità nell’ammaestrare le fiere, simili, anche se non uguali, a quelle dei circhi dei nostri giorni. Ma la folla preferiva 1’esaltazione di una violenza che celebrasse la vittoria contro i nemici, il successo su chi era ritenuto degno di disprezzo. Cosi si arrivò ben presto non solo a colpire le bestie feroci, ma anche altri animali, agli occhi della gente, ben più meritevoli di essere domati e soppressi: i condannati di gravi crimini. Il popolo poteva allora sfogare la sua rabbia contro la povertà ed il bisogno, infierendo contro chi era ritenuto nemico della giustizia o anche solamente contro il delinquente comune, al quale, per una sorta di clemenza depravata, oppure per una riconferma della giusta condanna, veniva concesso di difendersi, di provare il suo valore, di guadagnarsi un po’ di vita, in attesa comunque di una esecuzione senza scampo. Essi stessi poi, i falliti della vita, i violenti, i condannati, i prigionieri di guerra, molte volte volontariamente, altre ancora perché costretti, prendevano il posto delle fiere e diventavano dei gladiatori esperti, capaci di far spettacolo. Nei combattimenti a corpo a corpo, chi veniva ferito, meritava di essere subito curato, chi era seriamente colpito, di essere abbattuto sul campo, chi sopravviveva otteneva la palma della vittoria ed il plauso popolare. 
Tra di essi, come comuni delinquenti, comparvero presto i cristiani, colpevoli se non altro di aver condannato i giochi e i loro spettatori. Si mostrarono subito comparse disposte a far solo brutta figura, persino odiosi. Non prendevano parte alla lotta, non sapevano difendersi e non volevano offendere, erano destinati al macello. Eppure non si trattava di persone ammalate di vittimismo, ma impegnate nella redenzione. Il loro Dio era morto per tutti gli uomini ed essi erano pronti a morire per la loro gente. Non avrebbero mai ottenuto la palma della vittoria. Ottennero quella del martirio. Tutti noi, ancora oggi, li consideriamo i vincitori di quell’epoca e di tutte le epoche e di quei tempi fatti di violenza e di oppressione. 

L’autorità
In un mondo, dove il diritto internazionale è basato sulla legge del più forte, si capisce come l’autorità del governo sia facilmente nelle mani dei militari. Forse per questo la maggior parte degli imperatori romani erano dei generali, condottieri di eserciti. Se tanto valeva nei rapporti con l’estero, non si può pensare che nell’amministrazione interna si mostrassero dei remissivi. Anche se poi, nella pratica, sia con gli stranieri sia con i sudditi dovevano pur trovare qualche accomodamento. 
Le leggi sono come i paracarri della strada. Ci evitano il rischio di deragliare. Eppure chi va all’impazzata, anche se si mantiene nei loro limiti, conseguirà persino più danni di chi li ha superati. D’altra parte con il ridurre la sezione della carreggiata, avvicinando i bordi al centro, con il far cioè delle leggi oppressive, si ottiene solamente il risultato di ostacolare il flusso di ogni progresso. Se non altro per questo e già difficile sostenere che la legge è uguale per tutti. Ogni giudizio, poi, è emesso da uomini, che non possono essere assolutamente imparziali, con tutti quei limiti che essi stessi condividono con i loro simili.
Ma c’è di più. Ciascuno di noi si aspetta inconsciamente dalla giustizia di essere riconosciuto. In seno alla nostra società ci aspettiamo di essere stimati. Non possiamo accontentarci di una legge fredda che ci metta a posto, incasellandoci nei nostri doveri. Il bambino, se abbandona la propria casa, si ritrova improvvisamente senza affetto, chiunque, quando lascia il posto d’origine, si sente spaesato, se si allontana dalla patria, straniero. Ognuno di noi cerca il rapporto, si trova bene solo tra amici. Le leggi prima ancora dell’ordine e della giustizia, stabiliscono, costituiscono un ambiente sicuro dove ciascuno di noi possa abitare. Al di là della ricerca delle proprie soddisfazioni, dei propri desideri, delle passioni e delle necessita di ognuno, al di la del disordine e della lotta esse riconoscono a ciascuno la propria esistenza e il suo modo di vivere. 

Per i Romani, Giove, il più grande degli dei, aveva originato il mondo traendolo fuori del caos primitivo 
Alla plebe di Roma attonita ed incolore, l’imperatore appariva come un altro dio. La folla uscendo dalla confusione della città disordinata, lasciando lo sporco e l’affollamento dei caseggiati caserma, al di là dei vicoli e delle tortuose misere strade, si riversava nel foro per vederlo passare sotto l’arco del trionfo che era stato eretto apposta per lui. Tornato dalla guerra e dalla vittoria, preceduto dalla fama e dai suoi donativi alla cittadinanza, sulle ali del trionfo decretato dal senato, incedeva sulla via Sacra, preceduto dalle prede di guerra, dai prigionieri incatenati, dalle milizie vittoriose. Non senza ragione Ottaviano si era fatto chiamare Augusto. Per Nerone era stata proposta l’erezione di un tempio.
Lo stesso Vespasiano, cosi sobrio, aveva capito l’importanza propagandistica del culto imperiale e lo aveva favorito. La casa natale dei Flavi diventerà un tempio e un museo dedicato a questa famiglia. Traiano che ricusò onori divini acconsentì a che fossero poste due statue in suo onore nel tempio di Giove capitolino. Insomma, l’imperatore era diventato un termine assoluto. Incarnava l’autorità. Rappresentava l’ordine. Era superiore ai partiti ed alle classi che si contendevano un posto al suo servizio. In senato i nobili ed i cavalieri si scontravano e tramavano, i tribuni attenti a imporre veti e controlli, i ricchi brigavano, i poveri nella necessità egli, invece, incedeva superiore a tutti, senza rivali. Se Cesare aveva lasciato per testamento 300 sesterzi ad ogni cittadino romano, gli imperatori dopo di lui distribuivano elargizioni ai cittadini ed ai soldati all’atto della loro nomina. Traiano anche se pagherà il donativo ai soldati solo a rate, si curerà che arrivino subito 75 denari ai poveri di Roma. Tito concorrerà con le sue sostanze alla riparazione della catastrofe dell’eruzione del Vesuvio e del terremoto successivo che distrusse Pompei ed Ercolano. Provvederà anche alla ricostruzione dei quartieri di Roma intorno al Panteon ed al Campidoglio distrutti da un incendio. Egli stesso in modo particolare, ma anche nessun altro imperatore, si dimenticherà dell’approvvigionamento del grano. Nei periodi di carestia, cosi facili in una città sovraffollata come Roma, dipendente dalle importazioni d’oltre mare, era 1’unico nella possibilità di procurare gli approvvigionamenti di grano, di assicurare la manutenzione del porto di Ostia, di garantire, con un servizio assicurativo sufficientemente sicuro, che arrivassero le forniture trasportate via mare, anche durante la stagione invernale, quando la navigazione diventava tanto più necessaria, quanto ancor più avventurosa. Per finire, poi, riusciva persino ad alleviare la disoccupazione sovvenzionando anche quelle imprese legate all’industria dello spettacolo. La plebe allora non aveva libertà da difendere, ma necessità da soddisfare. Era pronta a riconoscere un nume tutelare che poteva far comodo e, d’altra parte, egli aveva bisogno del favore popolare per contrastare l’autorità dei nobili e dei cavalieri, ricchi imprenditori. Compariva in senato e nelle adunanze pubbliche, come faceva Augusto e molti suoi successori, pronto a prendere la parola, con delle declamazioni che egli stesso aveva preparate e che sapeva recitare con convinzione. Non tralasciava gli studi. Scriveva le sue autobiografie, i libri di storia e non si può dire che evitasse di esporli secondo i propri intenti, se non addirittura a soli fini prpagandistici. Alcuni composero opere letterarie. Nerone recitava in teatro i suoi carmi e si lasciava applaudire dal popolo e dai cortigiani. L’adulazione, se era necessaria, non era nemmeno difficile. Non raramente si diceva dei discorsi di chi comandava: “Parole di un dio, non di un uomo”. A maggior ragione l’imperatore non solo si lasciava paragonare ad un dio, ma pretendeva che gli si erigessero dei templi in suo onore. Caligola, più prematuramente nel corso dei tempi, che non del tutto per vanagloria maniacale, pretendeva cerimonie di adorazione verso la propria persona e avrebbe voluto che la sua effigie fosse onorata persino nel tempio di Gerusalemme, con il pericolo di scatenare una guerra con i giudei che non lo avrebbero potuto mai tollerare. Si capisce bene che una simile autorità, con tanta pretesa di assolutismo, potesse incontrare facilmente l’odio nelle classi delle persone nobili e dei nuovi arricchiti. Per scovare i possibili avversari, l’imperatore aveva bisogno di delatori e viveva sempre sul chi vive. Chi non partecipava alle sue feste rischiava la vita, chi non si mostrava sorridente al suo seguito perdeva la carriera. Il successore di Caligola non si peritò di arrivare ai più odiosi controlli e alle perquisizioni personali, per paura dei congiurati, persino nei riguardi dei senatori, quando egli presenziava le loro sedute. Da una parte quindi l’ordine costituito, le classi definite, la legge come punto di riferimento, dall’altra il reale timore di un’insubordinazione dei soldati e della polizia, l’eventuale congiura delle persone influenti, i tumulti della plebe e persino le lotte interne tra i membri della stessa famiglia imperiale, che, si dice, non recedessero nemmeno dall’idea d’usare veleni, pur di potersi imporre. A questo proposito il successore di Caligola ereditò, suo malgrado, una cassa intera di veleni, che fece gettare nel mezzo del Tirreno per ovviare ad un inevitabile inquinamento del suolo. Quindi il ripetersi dell’eterno conflitto, mai isolato, nemmeno troppo assurdo, sempre crudele, insidioso e senza remore, tra potenti e persino dei potenti contro il popolo inerme. 
All’infuori di questa dialettica senza risparmio di colpi, considerata l’unica possibile, tanto da esser basata su un presunto realismo dalle inevitabili conseguenze, i cristiani si lasciavano riconoscere come una razza del tutto particolare. Essi non si lasciavano coinvolgere nelle lotte di potere, non si sentivano di solidarizzare con quegli oppressi che preparavano la reazione o le congiure, non erano nemmeno dalla parte dei potenti e non potevano riconoscere come dio un imperatore qualsiasi: erano veramente al di fuori della realtà. Perché i primi cristiani sentivano di appartenere non ad una nazione, non ad una classe, non si preoccupavano di difendere interessi di associazione o di partito; non si sentivano nemmeno del tutto legati alla legge comune, comunque da essa certamente non tutelati. Dalle persone di buon senso erano considerate una specie di tribù al di la di ogni legge e di ogni morale costituita e riconosciuta. Nella letteratura corrente, caso mai quando sono ricordati, a cominciare da Tacito, lo sono solo con disprezzo e sdegno. Perché essi si riconoscevano non solamente cittadini dell’impero, ma soprattutto membra di un corpo, legate al loro capo: a Cristo. Si sentivano, inconsciamente, antesignani di un’epoca nuova, cittadini di quel regno dove tutti sono fratelli, perché ciascuno figlio di un unico Padre. 

Il mondo della cultura
Tra le tante ricchezze di Roma imperiale non mancava certamente quella della cultura. Scuole private e pubbliche, frequentate anche dai principi dei paesi vinti, residenti a Roma in ostaggio; alcune biblioteche e persino una vera e propria casa editrice, fondata già ai tempi di Cicerone da Tito Pomponio Attico, sono le testimonianze famose il cui ricordo e pervenuto fino a noi. 

Il computer ci ha abituato a distinguere due attività peculiari della mente dell’uomo. Una più propriamente relativa all’archiviazione di nozioni e di informazioni, con la conseguente loro selezione e rielaborazione in successive indagini di pensiero e di ricerca. L’altra più creativa, legata prevalentemente ai sentimenti e alle intuizioni che, anche se devono poi trovare una espressione su basi tecniche, sembrano presentarsi con tutte le caratteristiche della novità e dell’inventiva. Con l’intelletto degli uomini avviene qualcosa di simile. Per alcuni viene in maggior risalto lo studio delle notizie immagazzinate negli archivi delle passate esperienze, mentre altri sembrano fatti apposta per creare nuovi dati ed elementi che verranno sviluppati poi nelle generazioni successive, nei primi predomina quindi lo sfruttamento dei capitali impiegati, per gli altri invece il loro investimento, senza che forse vi sia nemmeno una loro scelta del tutto consapevole. Il mondo culturale romano era, in quel tempo, per cosi dire, ingolfato da notizie che gli arrivano da ogni dove e, quindi, portato in maggior misura ad archiviare e a selezionare: ecco nascere gli scrittori scientifici e quelli della letteratura specializzata ed ancora gli enciclopedisti. Tra i primi Lucio Giulio Columella scrive il trattato più importante dell’antichità sull’agricoltura, il ’De re rustica’; Pomponio Mela un trattato di geografia, il ’Chorographia’; Celso e rimasto per noi famoso per il suo trattato sulla medicina, Trivulzio per quello sull’architettura; mentre per i secondi basta per tutti ricordare, oltre allo stesso Celso, Plinio il Vecchio con la sua ’Storia naturale’. 
Ma in questo periodo si verifica forse quel fenomeno che lo caratterizza in modo principale. Se Roma era il centro del mondo conosciuto dove confluivano le più diverse produzioni dell’attività umana, per organizzare questi scambi non bastava più un governo cittadino nelle mani di persone, pur influenti, ma sempre legate agli interessi locali o a quelli delle diverse famiglie o dei casati nobiliari. E neppure potevano aspirare ad avere un predominio i nuovi ricchi, che avevano costruito la loro fortuna con le aumentate possibilità imprenditoriali e commerciali offerte da un mercato ormai quasi senza confini, anch’essi invischiati negli interessi di settore e di categoria. S’imponeva da sé, come inevitabile, una autorità centrale che potesse intervenire a tutti i livelli e per tutta l’estensione del dominio romano, anche se organizzata in un regime più complesso, malauguratamente più burocratico, ma con persone responsabili nelle varie branche amministrative, con uffici più competenti nei riguardi di tutto l’impero, con una polizia ed una forza militare più continua e regolare, assicurata da professionisti in attività permanente. 
Quindi la carica imperiale, ricoperta da un solo uomo, era diventata una necessita prima ancora di essere una scelta popolare o una conquista violenta da parte di qualche generale. Anche la cultura non poteva sfuggire a questa forza accentratrice e a questo potere di controllo unitario. L’attività dei poeti e degli scrittori dipendeva quindi più spesso dalla generosità del principe, che era portato facilmente a considerarli collaboratori nella propaganda dei suoi programmi politici che, se nella maggior parte dei casi, assicurava loro una maggiore sicurezza economica, in altri momenti poteva invece, per i motivi più diversi, lasciarli nella più trascurata delle dimenticanze. Già, ai tempi di Augusto, Mecenate era stato un modello per le epoche successive. Egli, quasi ministro della cultura riconosciuto, anche se non designato, si sentiva incaricato di appoggiare e selezionare i genii migliori del tempo: Emilio Macro, Virgilio, Orazio, Properzio... 
Tuttavia non tutti riuscivano ad entrare nella cerchia della cultura ufficiale che rimaneva sempre ancorata ad una élite di intenditori e di appassionati. Gli esclusi si rivolgevano alla gente comune che non guardava tanto alla purezza del linguaggio e dello stile, ma alle notizie di colore, alle informazioni strabilianti, alla descrizione delle scene d’orrore. Ecco la diffusione delle operette e delle riviste. Purtroppo i libretti di autori famosi, come Stazio o come Lucano, che facevano andare in visibilio i loro fans, sono andati perduti e noi non siamo nemmeno in grado di apprezzare la musica, che non ci è stata tramandata, non essendo stata ancora inventata la sua scrittura, ne possiamo immaginare le danze e la messa in scena che li accompagnavano, ma la loro fama è pervenuta fino a noi nel ricordo lasciatoci dai loro contemporanei. Ancora si diffonde in questo tempo il romanzo d’avventura. Apuleio pubblica le metamorfosi o come San Agostino le intitola, con un nome azzeccato, ‹l’asino d’oro›, per un lettore curioso dell’immaginifico, se non del fantascientifico, disposto a rifugiarsi con lui quasi nell’irreale di un mondo pseudo filosofico. Con acume altrettanto irriverente, Giovenale scrive le sue satire, più amare che ironiche, e per le persone più semplici, compaiono le favole di Fedro che trovano però una minor fortuna rispetto alle pubblicazioni citate. Insomma chi voleva leggere a Roma, in quel tempo, trovava facilmente opere che potevano soddisfare i suoi gusti. Eppure i libri non raggiungevano la maggioranza della gente. Alcuni si sentivano lontani dal contenuto e dagli intenti di queste pubblicazioni. Altri ancora non sapevano nemmeno leggere o non potevano procurarsele, perché i libri anche allora erano troppo cari. Erano queste le persone il più delle volte relegate a condurre una vita faticosa, abitudinaria, forse più concreta, ma senza troppi sogni, priva della possibilità, o della facilità, di comunicare e di sentirsi alla pari di quelle colte che, a loro volta, non trovavano un rapporto con loro in questo campo. Erano due mondi separati, il primo nella condizione di esternare e trovare riflessi nei libri i propri pensieri ed i propri sentimenti, il secondo, che non lo poteva o non lo voleva fare in quel modo. Questi ultimi considerati meno uomini degli altri, almeno agli occhi delle persone istruite. 

Eppure, forse, proprio loro, che risultavano meno legate alla moda del tempo ed ai gusti mutevoli delle opinioni comuni, si trovavano in qualche modo insieme a quelle colte che ormai si erano accorte della povertà della cultura autorizzata ed ufficiale. Erano insieme tutte queste, ormai preparate ed aperte ad un sapere nuovo, ad una conoscenza ed ad una dottrina senza precedenti, quella cristiana, che appena nata ed ancora in fasce, andava tuttavia affermandosi ogni giorno sempre più. Essa, pur nella sua semplicità, non si presentava solamente o esclusivamente come una rielaborazione di vecchi elementi archiviati, anche se si rifaceva ad una tradizione consolidata e di antichità illustre. Non era nemmeno prevalentemente qualcosa di nuovo solo nel senso di solleticare l’inventiva o promuovere ulteriori studi puramente tecnici. Si trattava invece di un compendio di notizie, fatti, insegnamenti, di un uomo che essi sentivano vicino e con il quale si sentivano chiamati a condividere, non solo idee e sentimenti, ma anche la sua stessa vita. Il suo libro, il Vangelo, era un testo affascinante, destinato ad essere il best seller di tutti i tempi e di tutte le generazioni, il libro dei libri, scritto apposta da Dio per tutta l’umanità. 

La condizione della donna 
Una lapide sulle mura di Ardea ricorda l’arrivo dei primi parrucchieri dalla Sicilia, nel 54 dalla fondazione di Roma. Prima di allora i Romani non avevano avuto molto tempo per farsi belli. Se lo sono cercato dopo, sempre di più, come lo attestano le numerose statue che ci hanno lasciato, barbute prima e poi perfino leziose, soprattutto quelle femminili, con una cura dei capelli che farebbe invidia a tante pettinatrici dei giorni nostri. Ai tempi della prima repubblica, la madre dei Gracchi, presentando i suoi figli, si vantava di mostrare i suoi gioielli, nel secondo secolo d.C., le donne non si facevano troppo scrupolo di mostrare se stesse, adorne di ben altri preziosi ed agghindate di tutt’altri ornamenti. E, se è una dote della donna curar la bellezza, alle volte, se non ha tempo di mostrar la sua virtù, fa vedere allora prevalentemente la sua figura. 

Quando si pone troppo l’accento su una vita comoda e fatta di soddisfazioni, non si capisce proprio perché l’uomo debba privarsi dei piaceri derivanti dal sesso. Allora, a questo proposito, nessuna regola riesce a comandare comportamenti che si mantengano almeno nell’ordine naturale. Perfino alla corte di Augusto, Virgilio, lodato ed ammirato per la sua arte, davanti all’imperatore, ai cortigiani ed alle donne di casa, nelle sue composizioni poetiche, cantava, per esempio, il cosiddetto amore tra Titiro ed un suo compagno, facendolo passare come un fatto vicino alla natura, forse perché avveniva in campagna, in un ‹luogo ameno›, se non altro per la gioia degli ecologisti di quel tempo. Perché, quindi, la donna dovrebbe avere delle reticenze al riguardo? L’unica remora possibile potrebbe essere quella connessa con il problema di una maternità fortuita o indesiderata, ma per questo si potevano trovare rimedi e, semmai, l’aborto o – perche no? – l’infanticidio e, per le classi povere, l’esposizione del neonato, in extremis, offrivano pur sempre una sufficiente soluzione. Lo stesso imperatore Domiziano costrinse la nipote ad abortire con conseguenze, purtroppo, per lei funeste.
Questa era la mentalità del mondo pagano del secondo secolo. Non si può proprio dire che rispettasse la sensibilità delle donne ed il loro libero potere decisionale. Del resto gli stessi matrimoni erano per lo più combinati senza badare troppo al loro consenso. A quei tempi l’amore presentava troppi caratteri di precarietà, perché i genitori non si preoccupassero di predisporre il matrimonio dei loro figli, ancora bambini, sulle basi più solide e ragionate della convenienza. Ma gli stessi interessati, una volta maturi avrebbero preferito, piuttosto che affidarsi al caso, consultare una delle agenzie che allora esistevano numerose, competenti in materia. Non deve destare meraviglia se, in queste condizioni, le donne cercassero talvolta una rivalsa nei confronti degli uomini, magari con il tradire lo stesso marito, oppure nel conseguire successi, fuori casa, in altri campi. Nerone stesso, che non era certo un plebeo, si esaltava nel calcare la scena di un teatro in veste di atto- re. Immaginarsi le donne nel ruolo di attrici! E se non potevano comparire in pubblico, non rinunciavano certo alla loro influenza con il tramare in privato. Già al tempo di Tiberio la madre Drusilla e Agrippina, la maggiore si erano dimostrate a dir poco terribili con i loro intrighi di corte. Un’altra Agrippina, la minore, non meno terribile, riuscirà a scavalcare i discendenti legittimi dell’imperatore Claudio, imponendo la successione del proprio figlio. Neppure ebbero più tardi troppe esitazioni nell’usare i veleni per i loro scopi, come abbiamo già detto a proposito di Caligola. Ma proprio queste forzature denunciano una situazione ben lontana dal rispetto della donna, soprattutto tradiscono una certa quale abitudine nella società di comportarsi senza attenzione verso la delicata ricchezza dei suoi sentimenti e de1 suo possibile apporto spirituale. 
Proprio per questo le donne di quell’epoca non potevano non avvertire nei contenuti dottrinali del cristianesimo e nel comportamento pratico delle persone che formavano le prime comunità cristiane una stima ed una attenzione nei loro riguardi che non aveva precedenti nella storia fino a quel tempo. Se ne accorse perfino Flavia Domitilla, la sorella dell’imperatore Domiziano del primo secolo e non ultima Marcia, già concubina di un altro imperatore, Commodo, ma anche Agnese martire perché vergine, che avevano abbracciato la nuova religione. Alle origini del cristianesimo, una loro collega, una donna sconosciuta di un paese poco importante, di una normale famiglia di quel mondo, era stata scelta dall’Onnipotente per diventare la madre di Dio. Anzi a lei egli si era rivolto, con un evento eccezionale, per chiedere il suo consenso e, non solo, l’aveva fatta, poi, socia dei suoi piani per salvare l’intera umanità. Perché Vergine, la madre del Salvatore, non aveva avuto bisogno di appoggiarsi ad un uomo per realizzare quel disegno che del resto andava al di là di ogni possibilità umana. Ancora oggi la donna sente di doversi riferire al suo esempio come ad un modello ineguagliabile. Ella non con le teorie, nemmeno propugnando nuove tesi sociali, ma con i fatti storici della sua vita, aveva definito nuovi criteri di valutazione delle donne che superavano ogni problematica di quel tempo e di qualsiasi tempo, per quanto lo si potesse giudicare allora o, persino, anche ai nostri giorni. 

Il pensiero di un filosofo 
Si è detto altre volte, anche senza nessuna conseguenza pratica, che il processo fatto a Gesù presenta così tanti errori procedurali, da farlo ritenere del tutto invalido. Non molto diversamente si devono giudicare quelli che hanno condannato i martiri dei primi tempi della chiesa. A questo proposito famoso è l’imbarazzo di Plinio che se li era trovati in tribunale, senza accuse fondate, e la risposta evasiva dell’imperatore Traiano alla sua richiesta di istruzioni, poi facilmente censurate dagli apologisti cristiani. Eppure le repressioni tanto furono ingiuste, altrettanto non mancarono di brutalità. Basta un esempio: davanti alla cattedrale di Terracina c’è una vasca da bagno di quel tempo, enorme rispetto alle nostre. Era servita per raccogliere il sangue dei cristiani che venivano sgozzati sulla piazza della città in gran numero. Ci si può allora chiedere, come mai la giustizia ha infierito cosi crudelmente contro di loro per tanto tempo? Lo si capisce meglio con un paragone fin troppo semplice. Quando un bambino in casa da fastidio si prende un ceffone, anche se non ha torto. E i cristiani davano fin troppo fastidio e a troppa gente. Intanto non appartenevano a nessun gruppo, né ad un partito, nemmeno ad una classe particolare, per cui tra i contendenti erano sospetti di esser traditori; poi lavoravano, guadagnavano anche, ma a star con loro non c’era il pericolo di diventare ricchi, erano anche persone a modo, ma che a rischiare di compromettersi con loro non si aveva la minima certezza di ottenere qualche probabile successo; insomma erano gente, con la quale a star amici, non si poteva guadagnare niente. E, invece, con il loro modo di fare sembravano condannare la società loro contemporanea, come se la tacciassero di immoralità, pur non essendo loro stessi esenti da quei difetti che i loro giudici ritenevano magari essere dei pregi. Per di più erano degli ignoranti che dicevano di possedere una sapienza nuova. Ma soprattutto si facevano notare per essere degli intransigenti, dei radicali, che non accettavano il minimo compromesso, che rifiutavano un parlare più accomodante, adatto alle varie necessità ed alle diverse occasioni, e che tenesse almeno conto delle persone influenti. Si trattava di persone disprezzabili, senza muscoli e senza grinta, e che credevano con le idee di convincere la gente, senza usare la lotta e, se necessario, la violenza. Dei poveretti, fuori del tempo e della società! Insomma ragioni per dar fastidio ce n’erano. Eppure il vero motivo del disprezzo stava forse solamente nella presunzione di chi li giudicava e nella superbia di chi si credeva giusto condannandoli. Inutile quindi perdere tempo con loro in discussioni. Per quanti giuristi, persone colte, filosofi ci fossero a Roma, nessuno si mise seriamente a confutarli, senza convertirsi come Giustino o disprezzarli come Celso. Anche quest’ultimo, che si voleva mostrare obbiettivo al riguardo, non poteva sfuggire a questo trend. Ma al di là dei suoi giudizi e, in campo avverso, è forse ancora l’unico che si ferma a discutere i loro argomenti. 
Per noi basta qui riportare quello che egli dice a proposito della venuta di Gesù: 
Che senso può avene’ per un dio un simile viaggio?
Lo compie forse per rendersi conto di ciò che succede tra gli uomini?
Ma non è forse onnisciente?
È dunque incapace, nonostante la sua onnipotenza divina, di migliorare gli uomini senza inviare qualcuno con questo scopo? 
Fu accusato di superficialità, per non aver capito 1’incarnazione. Tuttavia l’osservazione, dal suo punto di vista, non è senza fondamento. Infatti, se Dio è onnipotente, non avrebbe dovuto certo finire in croce. Nell’ambiente romano, dove all’imperatore si tributavano onori divini ed il successo era l’unico destino che meritava stima, era difficile immaginare un Dio onnipotente nell’amore, fino al punto di far diventare gli uomini fratelli suoi, uguali a sé, com’egli si era fatto uguale a loro nel patire estremo. Ebbene i martiri contemporanei di Celso, non lo hanno confutato con discorsi o con ragionamenti; loro stessi, morendo come Gesù, per diffondere l’amore tra la loro gente, senza compromessi e senza remore, sono stati, di fatto, l’argomento più valido che ci sia mai stato, e che regge ancora fino ai giorni nostri contro la sua e qualsiasi altra opinione contraria. 



La novità
dei primi cristiani

Una religione semplice 
I primi cristiani avevano una religione che non era complicata. Per mantenersi fedeli alla chiesa non avevano bisogno di leggi artificiali, di disposizioni forzate. Perché essi volevano e sapevano possedere lo Spirito di Dio. 
Quali erano le note e le caratteristiche che davano a loro questa certezza?
Essi si sentivano amati da Dio in un modo particolare, perché aveva loro manifestato la missione di Gesù associandoli al suo destino. In conformità a quest’assunto sapevano quindi distinguere sé dagli altri, che non avevano avuto questa rivelazione, e, come con molta semplicità essi stessi si sentivano coinvolti nella vita di Dio e pervasi del suo Spirito, così con altrettanta sicurezza riconoscevano in chi aveva rifiutato questo dono delle persone invase dallo spirito del demonio. Per quanto possa apparire troppo semplice, addirittura sconcertante, questa loro presa di posizione, essi vedevano tutti gli uomini sotto questa luce o almeno li consideravano come dei candidati ad appartenere all’una o all’altra categoria. Se nei tempi a loro precedenti gli indemoniati si erano fatti riconoscere con delle manifestazioni fisiche ributtanti, che avevano tradito la presenza in loro di uno spirito nemico dell’uomo, ora con la venuta di Gesù essi si manifestavano più immediatamente come coloro che trovavano nell’odio e nel contrasto uno stimolo ed un motivo di vita, mentre invece i cristiani volevano solo diventare e manifestarsi come coloro nei cui cuori era stato infuso lo Spirito dell’Amore. 
 Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello…
Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello…
Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato. (1Giov. 3, 10 ss.). 
 Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore…
Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. (1Giov. 4, 1-6. 16). 

Una religione impegnativa
I bambini sono inesperti, combinano facilmente dei danni, ma sono anche pieni di vita e sanno imparare tante cose, per questo, quando sono bravi, sanno accogliere i rimproveri e le correzioni. Rabbia, protesta, contestazione, sono di cui non sono capaci e di cui non sanno cosa farsene.
In un certo senso come loro, i primi cristiani erano poco esperti, ma avevano tanta vita e tanta voglia di crescere e di migliorare. Per questo, come erano attenti alle istruzioni, erano anche arrendevoli alle correzioni. Infatti, il loro ideale – 1’esser figli di Dio – li metteva nella disposizione di voler arrivare a somigliargli in qualche modo e quindi nella ricerca di un traguardo di perfezione sempre da conquistare, mai raggiunto. Per questo, nel sopportare le persecuzioni, sapevano e si sentivano in obbligo addirittura di essere lieti, pronti a riceverle dalle mani di Dio, come il padre che punisce il figlio che ama. Nello stesso modo erano attenti ai richiami degli apostoli, preparandosi cosi a realizzare una società dove tutto era aperto e l’ipocrisia bandita, quasi per iniziare a costruire, qui sulla terra, quel paradiso che avrebbero poi abitato in cielo. Nessuno di loro si sentiva una autorità indipendente, ma, perché sapevano ascoltare, potevano anche distinguere i buoni dai falsi profeti, gli inviati di Dio dai primi eretici che, in quel tempo, cominciavano a nascere qua e là. Essi, pur con tanti difetti, si mostravano già persone sagge, come chi, al posto dell’impazienza e della ribellione verso gli altri, preferisce esigere da se stesso il dovere di rimediare e di impegnarsi per contribuire a realizzare la chiesa, a formare la famiglia dei figli di Dio. 
 All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi:
Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova - quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. (Apoc. 2, 1-5). 

Una religione nuova
Immaginatevi di essere in cerca di una strada, magari anche con una buona mappa tra le mani, ma in una città caotica, senza la possibilità di trovare un parcheggio, girando nello stesso rione senza esservi ancora orientati: c’è da disperarsi, il tempo passa, l’appuntamento è scaduto...
E invece, d’improvviso, uno vi dice che la strada e lì di fronte, il numero della casa e quello dove c’è il bar accanto, il posteggio libero e appena girato l’angolo: sembra troppo bello per crederci! Ebbene l’annuncio del cristianesimo al suo nascere faceva l’effetto di una lieta sorpresa, che appagava l’aspettativa di chi non aveva ancora perso la speranza di un perché della vita. Era un annuncio con contenuti anche di mistero, ma non complicato, sembrava quasi una favola tanto era bello, si rifaceva ad un uomo reale, morto da poco, i cui testimoni erano dei contemporanei ed alcuni anche lo avevano conosciuto di persona. Egli mettendosi al centro della storia e del creato portava una visione globale della realtà, tanto che ciascuno che aderiva alla sua dottrina avvertiva di aver trovato il suo posto ed il suo valore, perché si sentiva unito alla sua persona, diventato egli stesso, in lui e per lui figlio di Dio, amico con lui tra tanti fratelli.
 …così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi… amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda… Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri. (Rom. 12, 5-16).

Menage e religione
L’ospitalità
Nei primi secoli della nostra epoca, l’impero romano era costituito da una congerie di popoli diversi, tra i quali non esistevano barriere. I frequenti scambi e le facili comunicazioni, il dovere legale di riferirsi sempre a Roma, dove pure confluivano interessi e culture diverse, rendevano l’idea di un mondo unito, dove ognuno sapeva di tutti e tutti si ritrovavano in una casa comune quasi naturalmente. Eppure, mai forse come allora, le differenze tra i singoli e tra le diverse etnie era così evidente, quanto difficile la loro reale integrazione. In questo contesto chi apparteneva alla medesima classe o al medesimo popolo si trovava subito facilitato a rimanere nel suo ambiente, dove si sentiva ben accolto e dove poteva trovare il posto suo, mentre purtroppo altrettanto facilmente veniva discriminato chi apparteneva ad un rango sociale o a un popolo diverso. In questo mondo il cristianesimo irrompe con una vita che supera i residui di ogni barriera; non per una imposizione esterna dovuta ad una legge arbitraria o ad una ideologia cervellotica, ma più efficacemente come una realtà che si stava affermando tra persone che si volevano conoscere maggiormente, perché in modo ancora maggiore sapevano di appartenersi l’un l’altro come fratelli. Il motivo non era per puro entusiasmo e senza buon senso: intere famiglie si trovavano insieme, i bambini crescevano in un ambiente più aperto, ma sempre sicuro, le relazioni comuni avevano delle prospettive superiori agli abituali confini domestici o di paese. Nascevano nuove comunità sede di incontro, visitate da gente di nuova esperienza, incaricata di portare una istruzione ed un modo di fare che sempre si doveva aggiornare perché aveva di mira ideali di perfezione... Già si sarebbe potuto intravedere che la legge romana, cosi utile come culla per un ordinamento nuovo, sarebbe stata superata da tutto un nuovo modo di vivere che si stava a poco a poco strutturando tra persone che, se anche di poco conto, avrebbero presto portato uno stile diverso nelle relazioni sociali rinnovate. 
 Io, il presbitero, al carissimo Gaio, che amo nella verità. Carissimo, faccio voti che tutto vada bene e che tu sia in buona salute, come va bene per la tua anima.
Molto infatti mi sono rallegrato quando sono giunti alcuni fratelli e hanno reso testimonianza che tu sei verace in quanto tu cammini nella verità. Non ho gioia più grande di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità.
Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità. (3Giov. 1, 1-8). 

L’istruzione e la cultura
La religione era anche scuola, una sorta di università itinerante. S. Paolo si muove e visita le varie comunità, accompagnato talvolta anche da otto assistenti, e gli uditori non si stancano di ascoltarlo continuamente, senza limiti di tempo, con un desiderio di sapere che sembrava annullare in loro la fatica dell’apprendere. La religione dei primi cristiani non era un’infarinatura culturale, non era nemmeno uno studio affidato alle sole forze dell’intelletto, era soprattutto ricerca della sapienza di Dio, e Dio stesso confermava con fatti che hanno del prodigioso gli insegna menti degli apostoli.
Quando Paolo si trova a Troade, un bambino assonnato, Eutico, cade dalla finestra della sala dove stavano riuniti i credenti e perde la vita, ma egli lo risuscita. È evidente il turbamento di tutti per quella disgrazia, eppure ognuno vede più importante mantenere quella serenità necessaria per continuare ad ascoltare il discorso del loro maestro e per assistere allo ‹spezzare del pane›. Quindi non solo ascoltatori, non solo istruiti, ma partecipi di quella vita che diventava Eucaristia, cioè ringraziamento al Signore. I primi cristiani amavano i loro vescovi e potevano così facilmente accogliere da loro un insegnamento permanente, come era permanente la vita che Dio aveva suscitato in loro. 
 Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo conversava con loro; e poiché doveva partire il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti; un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse: “Non vi turbate; è ancora in vita!”. Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò e dopo aver parlato ancora molto fino all’alba, partì. (Atti 20, 7-11).

La conversione
Nei primi tempi, diventare cristiani voleva dire, per molti, lasciare il partito dominante e la culla ambientale della propria sicurezza, mettersi contro gli amici, per qualcuno addirittura rischiare di perdere il lavoro se non la stessa vita. E questo prima ancora di essere accolti del tutto nelle prime comunioni ecclesiali. Tuttavia l’accorgersi che chi dettava legge falsava anche le notizie e manipolava l’opinione comune distribuendo favori e lavoro a proprio arbitrio, poteva già essere un incoraggiamento a lasciare le vecchie posizioni per acquistarne delle nuove, tuttavia non poteva essere certamente sufficiente. Ci voleva una grazia in più, per riuscire a convertirsi ed arrivare ad essere accolti dai nuovi fratelli di religione e dalla provvidenza del loro amore. S. Paolo ne è un esempio tipico, anche se unico nel suo genere. Egli ebbe la grazia di cadere dal suo cavallo, di trovarsi smarrito e cieco sul suo cammino, di accorgersi quanto fossero false le sue precedenti certezze. Ci voleva una grazia per arrivare a capire che Gesù, il Figlio di Dio, si nascondeva in quelli da lui stesso prima perseguitati che ora lo avrebbero accolto nella sua chiesa come un fratello. 
 Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. 
Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: “Anania!”. Rispose: “Eccomi, Signore!”. E il Signore a lui: “Su, và sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista”. Rispose Anania: “Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. Ma il Signore disse: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”. Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo”. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono. (Atti 9, 1-19). 

Strutture nuove
Man mano che i primi cristiani si affermavano si consolidava  pure la loro organizzazione. S. Pietro, il primo papa, il capo della chiesa, si muove dalla sua sede per visitare le varie comunità, rimane con i credenti, insegna loro, fa anche miracoli. Eppure il protagonista non è lui. Lo Spirito Santo lo chiama e lo manda là dove egli non sarebbe mai andato, egli che non si era mai ‹contaminato›, entrando nelle case dei pagani, mangiando i cibi proibiti dalla legge giudaica, si rende responsabile di innovazioni che vanno contro l’opinione comune e la tradizione consolidata, perché chi forma i cristiani creando la loro vita e la loro organizzazione è lo Spirito che scende sui fedeli. Dio stesso, infatti, voleva offrire loro la possibilità di convertirsi, perché potessero partecipare alla sua stessa vita. 
 E avvenne che mentre Pietro andava a far visita a tutti, si recò anche dai fedeli che dimoravano a Lidda. Qui trovò un uomo di nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico. Pietro gli disse: “Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto”. E subito si alzò. Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore. (Atti 9, 32-35). 
C’era in Cesarea un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: “Cornelio!”. Egli lo guardò e preso da timore disse: “Che c’è, Signore?”. Gli rispose: “Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio. E ora manda degli uomini a Giaffa e fà venire un certo Simone detto anche Pietro. Egli è ospite presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare”. Quando l’angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, spiegata loro ogni cosa, li mandò a Giaffa.
Il giorno dopo, mentre essi erano per via e si avvicinavano alla città, Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: “Alzati, Pietro, uccidi e mangia!”. Ma Pietro rispose: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano”. Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato al cielo. Mentre Pietro si domandava perplesso tra sé e sé che cosa significasse ciò che aveva visto, gli uomini inviati da Cornelio, dopo aver domandato della casa di Simone, si fermarono all’ingresso. Chiamarono e chiesero se Simone, detto anche Pietro, alloggiava colà. Pietro stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: “Ecco, tre uomini ti cercano; alzati, scendi e và con loro senza esitazione, perché io li ho mandati”. Pietro scese incontro agli uomini e disse: “Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti?”. Risposero: “Il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei, è stato avvertito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli”. Pietro allora li fece entrare e li ospitò.
Il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarea. Cornelio stava ad aspettarli ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: “Alzati: anch’io sono un uomo!”. Poi, continuando a conversare con lui, entrò e trovate riunite molte persone disse loro: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone”. (Atti 10, 1-27). 

Una dialettica diversa
In un mondo fatto di gente che cerca la propria affermazione, la figura di colui che si mette al primo posto, malgrado qualche volta desti invidia ed irritazione, riesce a riscuotere quasi sempre ammirazione e compiacenza. Tutto diverso il quadro che offre chi è nell’umiliazione e nella sofferenza, magari proprio perché, dimentico di sé, cerca invece la realizzazione di ideali superiori anche a se stesso. 
Eppure, purtroppo, i motivi che dettano i comportamenti sono sempre difficili da scoprire, qualche volta la ricerca di se stesso può nascondersi dietro l’affermazione ostentata di idealità, anche nel campo della religione, tanto da indurre qualche confusione. I primi cristiani non avevano questo problema, perché amavano più Gesù che i propri interessi o la propria immagine ed erano pronti per lui a patire sofferenza purché egli e la sua dottrina si potessero affermare. Per questo anche non cedevano nemmeno a sentimenti di rivalsa, o peggio di rivincita, contro le incomprensioni e le offese ricevute, ma lasciavano al giusto Giudice la difesa della loro causa. Erode e presentato negli atti degli apostoli come chi viene punito da Dio e non dagli uomini, perché ha bestemmiato e non perché ha perseguitato i cristiani che già gli avevano perdonato. La cronaca del fatto non è minimamente sfiorata da sentimenti di vendetta da parte loro: l’attivita dei primi cristiani non era animata dall’odio, nemmeno solamente dalla conflittualità, ma bensì, pur nella verità, da propositi di amore, da desideri di colloquio e di pace. 
 In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro… Erode… poi scese dalla Giudea e soggiornò a Cesarea.
Egli era infuriato contro i cittadini di Tiro e Sidone. Questi però si presentarono a lui di comune accordo e, dopo aver tratto alla loro causa Blasto, ciambellano del re, chiedevano pace, perché il loro paese riceveva i viveri dal paese del re. Nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: “Parola di un dio e non di un uomo!”. Ma improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a Dio; e roso, dai vermi, spirò. (Atti 12, 1 ss.). 

La verità
La religione dei primi cristiani non si fondava tanto su delle convinzioni logiche quanto sulla certezza che essi avevano di essere nella verità annunciata da Gesù, testimoniata dagli apostoli. Molte delle credenze umane possono derivare da un modo di pensare e di considerare la realtà sotto il peso della necessità o del bisogno, non sempre determinato da una ricerca della verità non contaminata dal desiderio dell’utile. Lo stesso concetto di amore per alcuni è solamente una risposta alla necessità di appagare un sentimento se non addirittura un istinto, tanto da arrivare all’assurdo di catalogare l’amore tra le soddisfazioni del proprio egoismo, anche se vestite di nobiltà ed arte. Se invece la verità viene da Dio ed ha un valore assoluto, allora l’uomo trova la forza di liberarsi persino dalla falsità, cresciuta sulle radici dei propri bisogni.
Essere testimoni di Dio-verità diventava per i primi cristiani il loro modo di vivere ed il loro parlare era: “Sì, sì; e no, no” e non: “Sì e no”, anche a costo dei più gravi sacrifici: In questo modo essi si preparavano ad essere perseguitati e martiri, piuttosto che falsi e traditori. 
 Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no” no, per non incorrere nella condanna. (Gia. 5, 12). 
Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria. (2Cor. 1, 19-20). 
Il Signore, un uomo vero
Il Dio dei primi cristiani aveva reso la sua divinità al Padre, come uomo; egli è morto ed è stato sepolto. Se non si fosse offerto non sarebbe stato amore, se non fosse stato amore, non sarebbe stato Dio. Tutti i suoi seguaci, molti contemporanei, lo avevano visto morto, Dio Padre lo aveva visto Amore. Gesù uomo compie il sacrificio, Gesù uomo-Dio e glorificato in esso, perché il suo sacrificio e degno e gradito. Gli altri sacrifici lo prefiguravano. Essi non avevano valore, come non avrebbero avuto valore nemmeno quello dei martiri, sempre inadeguati ad esprimere un amore degno di Dio, quando non fossero stati uniti al suo. 
 Avendo, infatti, la legge solo un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha il potere di condurre alla perfezione, per mezzo di quei sacrifici che si offrono continuamente di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che i fedeli, purificati una volta per tutte, non avrebbero ormai più alcuna coscienza dei peccati? Invece per mezzo di quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati, poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà.
Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. (Ebr. 10, 1-10). 
La fede
Quando uno ha fiducia in una persona la ascolta e prende in considerazione le sue proposte. Se ne ha poca si lascia consigliare poco, se ne ha tanta arriva ad obbedirlo in tutto. Se poi ha una fiducia senza limiti lo elegge come modello, si sforza di somigliargli, non ascolta più gli altri. La fede dei primi cristiani non poteva rimanere un ascolto superficiale di Gesù, né un aspettarsi da lui dei comandi e degli insegnamenti con una efficacia miracolistica, era piuttosto un morire in lui ed un risorgere altri lui stesso. 
 O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato.
Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. (Rom. 6, 3-11). 

Il culto
Non appena il cristianesimo nascente aveva superato gli argini del giudaismo, molti dei suoi nuovi aderenti, per motivi se non altro di natura ambientale, erano facilmente esposti ad una mentalità pagana. Avrebbero potuto essere tentati di considerare il culto a Dio in un modo vecchio, dove i riti e le cerimonie erano un’occasione di incontro per rinsaldare la comunità, o che solamente potevano avere il valore di una festa d’occasione. 
Mentre essi avrebbero invece dovuto tributare al Signore un culto vero, fatto di una volontà rinnovata, con una intenzionalità docile ai suoi voleri, liberi da formalità sociali o da rituali magici. Per far questo avevano bisogno di un particolare aiuto del Signore, ma anche, per continuare a mantenersi ‹religiosi›, avevano bisogno di esercitarsi in un modo di vivere analogo alla mentalità del loro Dio. Cosi essi ascoltavano e capivano le raccomandazioni degli apostoli che li esortavano ad una vita austera degna della loro vocazione. 
 Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. (Rom. 12, 1-2). 
Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. (1Pietro 4, 3). 

La correzione
I primi cristiani non erano uomini perfetti, commettevano gli errori comuni della gente comune del loro tempo, anche riprovevoli e grossolani, però aderivano alla chiesa e la loro adesione li salvava e li trasformava a poco a poco. Infatti mentre gli altri non avevano un riferimento ed una ragione per migliorarsi, essi avevano la fede. Gli altri non avevano una struttura che li potesse perdonare e sostenere, essi avevano la chiesa. Ancora, a loro non mancava un controllo ed una correzione, perché essi avevano gli apostoli, i primi vescovi, i sovrintendenti del popolo di Dio. In tutto questo essi avevano e sentivano un Dio vicino, che si era e si interessava di loro ed essi stessi lo potevano toccare con mano nello svolgersi della loro vita. 
 Vi preghiamo poi, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi. Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. (1Tes. 5, 12-18). 
 Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà. (Giac. 5, 19-20). 

Una voce sicura
Oggi noi forse ci meravigliamo leggendo il resoconto di alcune conversioni dove si vede l’intervento diretto di Dio che si manifesta e parla ai suoi credenti. Sentire una voce dipende alle volte dall’attenzione che si pone nell’ascoltarla, in diverse occasioni noi non udiamo nemmeno i rumori se non ci interessano. D’altra parte e anche vero che una voce troppo tenue finisce con l’essere fraintesa o nemmeno avvertita. Così è la voce dello Spirito. I cittadini di Efeso la sentirono, attenti com’erano ad ascoltarla, a distinguerla da altre voci, da altre notizie, che l’avevano preceduta. Non c’è dubbio che agli inizi del cristianesimo essa si facesse sentire in un modo più forte e con una grazia particolare del Signore, per fare in modo che chi la ascoltava non la potesse fraintendere nella sua novità, e non rischiasse di paragonarla o confonderla con altre voci: quelle altre voci che mostrarono ben presto di perdersi successivamente nel corso breve dei tempi. 
 Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell’altopiano, giunse a Efeso. Qui trovò alcuni discepoli e disse loro: “Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?”. Gli risposero: “Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo”. Ed egli disse: “Quale battesimo avete ricevuto?”. “Il battesimo di Giovanni”, risposero. Disse allora Paolo: “Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù”. Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. Erano in tutto circa dodici uomini. (Atti 19, 1-7). 

Magia e miracolo
Tutti sanno che per guarire ci vogliono non solamente le cure del caso, ma anche tanto spirito di sacrificio e altrettanta buona volontà. Eppure alle volte anche oggi noi ci comportiamo verso il medico con quell’atteggiamento reverenziale e con una certa fiducia senza sospetto, come quasi davanti ad uno stregone, un po’ imparentato con gli dei. 
Forse in questi casi noi ci aspettiamo da lui un intervento magico, dove la pozione o la pillola rappresentano l’amuleto che ci darà per incanto la salute. E, se il miracolo non lo fa il medico, non resta che sperare che lo faccia qualche divinità. Come noi andiamo dal medico con la speranza inconfessata di trovare un mago, più facilmente potevano tornare i primi cristiani nelle braccia degli aruspici e degli indovini, che erano i sacerdoti e, in un certo senso, i dottori del tempo, ammantati di stregoneria. Perché la religione cristiana era troppo dura. Il suo Dio era un uomo giustiziato barbaramente, ucciso negli strazi e chiedeva a ciascuno di loro l’adesione ad un’ascetica che metteva da parte inesorabilmente le illusioni e le facilonerie. 
 Attraversata tutta l’isola fino a Pafo, vi trovarono un tale, mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Iesus, al seguito del proconsole Sergio Paolo, persona di senno, che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio. Ma Elimas, il mago, - ciò infatti significa il suo nome - faceva loro opposizione cercando di distogliere il proconsole dalla fede. Allora Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: “O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole”. Di colpo piombò su di lui oscurità e tenebra, e brancolando cercava chi lo guidasse per mano. Quando vide l’accaduto, il proconsole credette, colpito dalla dottrina del Signore. (Atti. 13, 6-12). 
  V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: “Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande”. Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie. Ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo, uomini e donne si facevano battezzare. Anche Simone credette, fu battezzato e non si staccava più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano.
…Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l’imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo: “Date anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo”. Ma Pietro gli rispose: “Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di Dio. Non v’è parte, né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Pentiti dunque di questa tua iniquità e prega il Signore che ti sia perdonato questo pensiero. Ti vedo, infatti, chiuso in fiele amaro e in lacci d’iniquità ”. Rispose Simone: “Pregate voi per me il Signore, perché non mi accada nulla di ciò che avete detto”. Essi poi, dopo aver testimoniato e annunziato la parola di Dio, ritornavano a Gerusalemme ed evangelizzavano molti villaggi della Samaria. (Atti. 8, 9-13. 18-24). 

Il dolore 
Una delle domande che più assillavano i nuovi credenti era la presenza del dolore e del male non solo nel mondo, ma anche tra gli stessi cristiani, che pur si sentivano redenti. Non era un problema teorico. A quel tempo i mali incurabili erano più frequenti di oggi ed il male morale arrivava ad autorizzare la schiavitù e la sopraffazione, come buona regola del vivere comune. In fondo le circostanze sembravano autorizzarli a valutare come bene ciò che era favorevole e come male tutto quello che poteva generare insoddisfazione. Il cristianesimo li strappava da una visione utilitaristica della vita. Presentava invece un Dio giusto giudice sia nei riguardi del male sia del bene, per tutti gli uomini, senza distinzione di razza e di ogni nazionalità. Perché, se Gesù con la sua morte e la sua resurrezione aveva riassunto tutta la creazione in sé, per presentarla rinnovata al Padre, per un altro verso il percorso di ogni convertito, per arrivare ad adeguarsi a questo disegno, era ancora irto di difficoltà e pieno di sacrifici. Eppure dubitare davanti alle prove della vita serviva solamente a mettere a nudo una fede ancora troppo debole verso Gesù, che invece non sarebbe mai venuto meno alle sue promesse. 
 Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. (Giac. 5, 13). 
 Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi.
E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi. A lui la potenza nei secoli. Amen! (1Pie. 5, 6-11). 
 Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi.
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sapppiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio. (Rom. 8, 18-27). 
 …anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa… (1Pie. 1, 6-8). 

Gli idoli
Gli uomini desiderano sempre esser capaci, bravi, buoni. Perché amano se stessi e desiderano realizzarsi in tutti quei valori che sono positivi. Se qualche volta cercano i soldi e perché questo dà loro una certa sicurezza, se si impegnano nel lavoro e per affermare le proprie qualità, perfino gli stoici, che amavano una vita ascetica, in fondo volevano conquistare una dirittura ed una saggezza che poteva aver riscontro anche nella salute fisica. Per questo, forse, l’uomo tende sempre a perfezionarsi e a migliorare; si prefigge allora dei traguardi e si costruisce degli ideali da raggiungere in ogni campo.
Proietta insomma le sue aspirazioni fuori di sé e le personifica negli idoli, che sono, quindi, le immagini di quel dio che e l’uomo, che Dio non è. Sono dei falsi, mentre il Dio vero è ‹al di là› di qualsiasi misura umana per quanto bella e grande essa sia. Egli è così superiore, da sussistere in sé e pervadere, dandole vita, ogni realtà, senza esserne condizionato ne dipendere da essa.
Quando, per l’uomo, l’idolatria è la ricerca di sé stesso al quale tributa la sua adorazione e se, quindi, nasconde poco o molto egoismo, allora ha qualcosa di diabolico, perché riesce a rivestire proprio questo egoismo con gli splendori della divinità. Se invece essa esprime l’umana ricerca delle virtù e delle perfezioni venerate nel feticcio, allora presenta delle doppiature della realtà ed è fonte di errori grossolani; tuttavia arriva a essere di conforto e di speranza, anche se inutile, a chi non si confessa sconfitto nella ricerca del bene e del valore assoluto. Per questo, anche per i primi cristiani, risultava, alle volte, difficile scrollarsela d’attorno; essi la ritrovavano sempre quando, ricadendo nelle abitudini dei contemporanei, si accontentavano di raffigurazioni esteriori e simbolistiche, mentre invece era così vera e tanto più vicina ad ogni uomo l’immagine di un Dio che si manifestava nella cruda realtà della croce e nella gioiosa speranza della sua resurrezione. 
 (2Cor. 6, 14-16). Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele? Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto:
Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò
e sarò il loro Dio,
ed essi saranno il mio popolo.
C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce: “Alzati diritto in piedi!”. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse: “Gli dei sono scesi tra di noi in figura umana!”. E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: “Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori”. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio. (Atti. 14, 8-18). 

 Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio che restiate nell’ignoranza. Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti secondo l’impulso del momento. Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire “Gesù è anàtema”, così nessuno può dire “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo. (1Cor. 12, 1-3). 

I sacrifici
I pagani offrivano sacrifici di tori e di capri ai loro dei, sacrifici materiali per gli dei fatti di materia, come sono tutte le immagini nate dalla fantasia degli uomini. E, perché chi sacrifica ha parte al sacrificio che offre, e mangia le carni dell’animale ucciso, questi riti si risolvevano in una specie di festino familiare o in un’allegra festa locale.
I cristiani offrivano, invece, sacrifici spirituali per un Dio spirituale. Ad un Dio Amore davano il loro amore, rinunciando ai propri interessi e ai propri desideri per fare quello e come egli voleva. Il risultato era per loro ritrovarsi suoi figli e insieme fratelli nella sua famiglia. E, perché loro potevano offrire questi sacrifici sempre ed in ogni dove, avevano anche la possibilità di sentirsi uniti in quella gioia più intima e più vera che non passa col passare delle feste d’occasione. 
 Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. (Rom. 12, 1-9). 

 Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà.
Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. (Ebr. 10, 5-9). 
 Non scordatevi della beneficenza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace. (Ebr. 13, 16). 
 ...anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. (1Piet. 2, 5). 


Le assemblee
Forse qualche volta siamo andati alla messa di una piccola comunità o, all’estero, in un posto dove i fedcli si potevano contare con le dita delle mani. Ci siamo ritrovati in un ambiente familiare, le preghiere della comunità non avevano quella cerimoniosità propria delle cose preparate, erano spontanee, ciascuno diceva quello che aveva in cuore. Le chiese dei primi cristiani erano ancora formate da poca gente. In principio nelle case di chi aveva accolto gli apostoli, poi nelle assemblee dove già era necessario un certo ordine per evitare che qualcuno si mettesse in mostra, con i suoi discorsi o qualcun altro fornisse motivi di dissidio, con le sue lamentele. A questo punto, tenute anche presenti le abitudini del tempo, almeno le donne dovevano tacere. Ben presto, quando il numero dei fedeli crescerà ancora, dovranno tacere tutti e parlerà solo l’anziano sacerdote che presiederà la riunione. Eppure questo tacere aveva un risvolto positivo. Le donne tornando a casa si incaricavano di continuare il discorso nell’ambito della famiglia. Proprio tra loro, che furono le prime a tacere, ci saranno le più grandi apostole e mistiche, che nel silenzio raccolte con il loro Dio, riceveranno spesso da lui un messaggio destinato a tutta la chiesa. Oggi noi, forse disturbati dalle voci dei mass media, abbiamo perso in famiglia l’abitudine di condurre un dialogo, nato dal desiderio di procurarci l’un l’altro del bene. Eppure tra le raccomandazioni che la chiesa ci ricorda per poter eseguire il nostro compito di amare i fratelli, una ancora valida, e quella di ammonire i peccatori. Quando essa viene fatta, non in cattedra, ma nell’ambito familiare, magari a tavola, se è il caso, perde ogni antipatico carattere autoritario, mentre può riacquistare del tutto il suo vero valore originario di servizio ai fratelli. 
 Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l’edificazione.Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine; uno poi faccia da interprete. Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore… (1Co. 14, 26,37). 

Una consolazione sperimentata
Il mondo in cui vivevano i primi cristiani offriva ad ogni uomo l’impressione di poter godere di un certo benessere, di aver raggiunto un discreto progresso tecnico e materiale. I mercati erano pieni di merci, non solo locali, ma anche esotiche, gli artigiani venivano incontro alle esigenze della gente con i prodotti più vari, anche quelli dotati di finezza ed eleganza, le istituzioni pubbliche costruivano splendidi palazzi, teatri e stadi immensi, le strutture sociali provvedevano ad una adeguata amministrazione ed ai normali bisogni igienico sanitari della popolazione. Eppure non tutti potevano dirsi soddisfatti di quel mondo. Molti infatti erano considerati come appartenenti a classi inferiori, molti gli svantaggiati, ma anche a prescindere da tutti questi, ogni uomo, anche al giorno d’oggi e, a maggior ragione allora, era obbligato a scontrarsi con i propri e gli altrui limiti, aveva a che fare con la malattia, la sofferenza, l’ingiustizia. Anche i primi cristiani potevano trovarsi facilmente in situazioni disperate, al limite della sopportazione, quando da nessuno, nemmeno da se stessi, ci si può aspettare un qualsiasi aiuto. Anch’essi avrebbero avuto due vie di uscita da queste situazioni. La prima quella di rinunciare alla lotta, di lasciarsi abbattere dalla sciagura e forse lasciarsi sospingere ai margini dell’esistenza. La seconda quella di reagire alle avversità, pure insuperabili, magari solo con l’arrabbiarsi, addossando alla società e addirittura a Dio la colpa dei propri mali, avrebbero potuto arrivare al punto di far giustizia da sé, per esempio, permettersi di rubare per potere andare avanti. A quel tempo non c’erano molte altre soluzioni. Ma essi, che avevano perso ormai ogni fiducia umana, si rivolgevano al loro Dio, ed affidandosi a lui con confidenza totale, potevano dire di sperimentare il suo aiuto e la sua consolazione. I primi cristiani erano esperti nella preghiera. Essi avevano davanti a sé degli esempi eloquenti: i loro maestri, gli apostoli che avevano mostrato di saper superare situazioni al limite della sopravvivenza. San Paolo poteva scrivere ai Corinzi: “Se molto ci tocca soffrire con Cristo, molto siamo da lui consolati”.
 Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione. Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, per la speranza che abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora, grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi, affinchè per il favore divino ottenutoci da molte persone, siano rese grazie per noi da parte di molti. (2Cor. 1, 3-11). 

Le ricchezze 
I primi cristiani non erano ricchi, anzi tra di loro molti erano poveri: una ragione in più per aiutarsi e sostenersi a vicenda.
Immersi in un mondo dove l’utile e l’interesse dettavano legge e la ricerca degli onori fungeva da stimolo sociale, essi invece si sentono spronati dall’amore della comunità. Per questo memori della prima chiesa di Gerusalemme, dove i beni erano in comune, si sentono partecipi gli uni degli altri ed iniziano una rivoluzione, dove i beni servono alla libertà, quando invece i loro contemporanei non mettevano in dubbio che la schiavitù fosse un elemento necessario al conseguimento della prosperità economica e sociale. 
 Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme. E se converrà che vada anch’io, essi partiranno con me. 
Verrò da voi dopo aver attraversato la Macedonia, poiché la Macedonia intendo solo attraversarla; ma forse mi fermerò da voi o anche passerò l’inverno, perché siate voi a predisporre il necessario per dove andrò. Non voglio vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un pò di tempo con voi, se il Signore lo permetterà. Mi fermerò tuttavia a Efeso fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e propizia, anche se gli avversari sono molti. Quando verrà Timòteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi, giacchè anche lui lavora come me per l’opera del Signore. Nessuno dunque gli manchi di riguardo; al contrario, accomiatatelo in pace, perché ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli. Quanto poi al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia quando gli si presenterà l’occasione.
Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi da uomini, siate forti. Tutto si faccia tra voi nella carità. Una raccomandazione ancora, o fratelli: conoscete la famiglia di Stefana, che è primizia dell’Acaia; hanno dedicato se stessi a servizio dei fedeli; siate anche voi deferenti verso di loro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro. Io mi rallegro della visita di Stefana, di Fortunato e di Acàico, i quali hanno supplito alla vostra assenza; essi hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Sappiate apprezzare siffatte persone.
Le comunità dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa. Vi salutano i fratelli tutti. Salutatevi a vicenda con il bacio santo.
Il saluto è di mia mano, di Paolo. Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema. Maranà tha: vieni, o Signore! La grazia del Signore Gesù sia con voi. Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù! (1Cor. 16, 1-21). 
 Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dá con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera. (1Tim. 6, 17-19). 
 Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d’erba. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese. (Gia. 1, 9-11). 

L’autorità
In un mondo dove si poteva vivere solo trovando appoggio nel potere, minacciati dal rischio eventualmente di perderlo, i primi cristiani riconoscevano l’autorità di un Signore che era un Padre, si sentivano suoi figli e quindi fratelli, uguali tra di loro. 
 Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa. (Gal. 3, 26-29). 
 Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto; ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre. Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. (Gal. 4, 1-7). 
Promesse ed illusioni
Alle volte si sente dire: ”Se io fossi vissuto in altri tempi, quando  la religione era più genuina e le strutture più semplici...”. Anche i primi cristiani, magari per ragioni opposte a quelle nostre, avrebbero preferito vivere con minor preoccupazioni, in tempi più felici. Alcuni di loro cercavano di sfuggire alle difficoltà del presente sognando imminente la fine del mondo, l’avverarsi delle promesse. Eppure dimostravano così di aver più fede nelle loro chimere, che non nel proprio lavoro e nella propria fatica, così necessarie per ottenere il premio promesso dal Cielo. Insomma, a quel tempo, un mondo nuovo non si poteva ottenere gratis, perché il Signore non umilia mai l’uomo con un destino, anche se il migliore, dato in regalo, ed ottenuto senza il suo impegno e la sua collaborazione. 
 Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio…
Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera. E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene. (2Tes. 2, 1-4. 15-17). 
 Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. Sapete infatti come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello. (2Tes. 3, 6-15). 
 Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione. (Giac. 5, 7-11). 
 E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo aver fiducia quando apparirà e non veniamo svergognati da lui alla sua venuta. (1Giov. 2, 28). 





Sommario

La società nel tempo dei primi cristiani
Il mondo dell’economia
Il mondo dello spettacolo
L’autorità
Il mondo della cultura
La condizione della donna
Il pensiero di un filosofi


La novità dei primi cristiani
Una religione semplice
Una religione impegnativa
Una religione nuova
Menage e religione
L’istruzione e la cultura
La conversione
Strutture nuove
Una dialettica diversa
La verità
Il culto
La correzione
Una voce sicura
Magia e miracolo
Il dolore
Gli idoli
I sacrifici
Le assemblee
Una consolazione sperimentata
Le ricchezze
L’autorità
Promesse ed illusioni




IN PREPARAZIONE:
Le donne della bibbia
Come Gesù si comportava con...