II° UN MEDICO LEGGE LA BIBBIA SECONDA PARTE




Giuseppe Tradigo
Un medico legge la bibbia



curiosità ricerche riflessioni occasionate dall'incontro
con ammalati e medicine nella bibbia




Vedi la prima parte  nella pagina: I° UN MEDICO LEGGE LA BIBBIA PRIMA PARTE
Vedi il sommario fondo di questa pagina



8° cap. il Rapporto medico malato


Il rapporto medico - malato alle volte è improntato da sentimenti misti di diffidenza e di stima, nello stesso tempo, di odio e di amore istintivi.
(Spese farmaceutiche, placebo, stregoneria, rimedi naturali, guarigione).

Quando una medicina non è efficace, non è nemmeno utile se non ai creduloni, e i medici non la prescrivono ulteriormente, senza pensare che la maggior parte di esse cade presto di moda e ancora che non è sempre vero che siano le più costose ad essere le più efficaci.
Con queste considerazioni i farmacisti perderebbero parte dei loro guadagni, se non trovassero tuttavia il modo di vendere tante erbe e altrettanti intrugli che godono di un credito non sempre meritato.
A ragione quindi quello della commedia di Goldoni si lamentava che il medico non prescrivesse dei rimedi costosi, magari solo per l’aggiunta nella ricetta di un poco di polvere di lapislazzuli e, a ragione, il medico dettava una prescrizione sconcertante per lo speziale, ma efficace per una malata immaginaria, come questa:
"Recipe:
 Acqua putei gutta tres.
 Acqua maris gutta tres.
 Acqua fontis gutta tres.
 Acqua pluviae gutta tres.
 Fac miscelam opportunam."
Che tradotta in parole povere risulta una povera cosa fatta solamente con poverissima acqua. (Per ciascun'acqua di pozzo, mare, fonte e pioggia tre gocce, insieme mescolate opportunamente). Perché talvolta tra i vari rimedi i più salutari sono proprio quelli che aiutano la psicologia del paziente, anche se non possono essere mai risolutivi, ma solo di efficacia transitoria e complementare alla cura principale.
Si tratta dei ‹placebo›. Quando un ammalato crede nella cura che sta facendo, e magari non gli è costata nemmeno troppo né in soldi né in sacrifici, sta quasi sempre subito meglio, anche se questa di per sé non ha alcuna attività farmacologica.
Numerosa è la letteratura medica sull’argomento che riferisce come un un dolore può trarre giovamento da un trattamento del genere: il paziente risponde ai placebo, anche se questo fatto non dimostra se si tratta di un dolore reale oppure psicogeno, tuttavia è stato dimostrato che i placebo diminuiscono il dolore sia di origine psicologica che fisiologica.
Tanto tempo fa, quando ero ancora studente, un mio collega mi raccontava di aver varcato la prima volta la soglia di una clinica, per lui nuovo posto di lavoro, con un certo timore reverenziale, ma, perché aveva una barba nera e folta ed un aspetto imponente, era riuscito a far paura ai malati ancor più di quanta ne avesse avuto lui stesso come medico alle prime armi.
Il direttore del reparto lo incaricò di controllare la pressione arteriosa di un paziente al quale era stata prescritta una nuova medicina antiipertensiva. Perché, poi, il mio collega insieme ad un aspetto terrificante possedeva anche un buon cuore ed un carattere gioviale, passati pochi giorni quel malato non fece fatica a ritrovar subito la pace e la sua pressione che, per l’agitazione, all’inizio era salita alle stelle, ritornò subito ai valori quasi normali. Così, mentre qualcuno tirava troppo in fretta la conclusione che la medicina era stata efficace, l’infermiera scoprì, quasi per caso, che il paziente non la aveva nemmeno presa, ma la aveva invece sempre buttata di nascosto per una certa qual sua diffidenza nei suoi riguardi.
Tutto questo per dire che una inevitabile dose di messinscena in medicina non è certo di danno, tanto che anche il camice bianco può assumere il ruolo quasi di ‹paramento sacro› e che un dottore venerato dai suoi pazienti otterrà maggior successo di un suo collega che è da loro disistimato.
Si spiega così anche come un medico riesca a curare meno bene proprio i familiari che si sono abituati a vederlo come è, nei suoi panni abituali, con i suoi pregi, ma non senza i suoi limiti, tanto che ormai da tempo ha perso presso di loro la fama di poter far miracoli.
Insomma il bisogno e la debolezza di chi sta male hanno sovente il potere di mettere il curante su di un piedestallo.
Gli antichi dicevano che l’arte di sedare il dolore è divina. E se il medico è un sacerdote degli dei, oltre alla sua capacità scientifica ed alle sue possibilità tecniche, possiede , se non qualcosa di divino, forse un alcunché di magico che lo fa oggetto di venerazione e perfino di timore presso il popolo, che può addirittura sospettarlo di usare poteri occulti, e crederlo capace di stregoneria.
Nessuna meraviglia se nella bibbia tra l’arte sanitaria e la magia i confini non erano ben distinti.
A quei tempi ne risentiva la sua valutazione: da una parte era guardata quasi con diffidenza e sospetto, dall’altra con riconoscimento e stima.
 Onora il medico, come è doveroso, se non altro perché ne hai bisogno: anch’egli è stato creato dal Signore.
Egli stesso accetta i doni dei suoi pazienti, perfino dai re, anche se nessuno come lui conosce i limiti della sua arte. Egli sa benissimo che la salute e la guarigione delle malattie sono un dono dell’Altissimo. Proprio per questo coltiva lo studio e il lavoro: è uno scienziato e non uno stregone, e procede anche tra i grandi a testa alta, stimato da tutti e non umiliato per i suoi insuccessi.
Non disprezza la natura e conosce l'arte di comprenderla e favorirla, tanto che non fa fatica ad accorgersi dei doni del Signore e a rimettersi alla sua bontà.
L'arte del medico ha meritato il titolo di ‹divina› perché, come Dio cava un bene da ogni male, il medico vuole mutare il dolore in una consolazione.
Non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti darà la forza per affrontarla; sopportando il dolore, eseguendo le cure necessarie che il medico ti ha prescritto, con pazienza. In moltissimi casi il successo è nelle mani non solo del malato, ma anche del medico. D'altra parte né tu, né il tuo medico siete onnipotenti, al punto che la malattia finge da richiamo a meditare la potenza di Dio e un incitamento a chiedere le sue grazie (Siracide. 38, 1-15). 
Se questo testo sembra tener in considerazione i medici, nemmeno quest’altro, di per sé, suona disistima.
 Nell’anno trentanovesimo del suo regno, Asa si ammalò gravemente ai piedi, ma neppure nell’infermità egli ricercò il Signore, ricorrendo solamente ai medici. (2 Cronache. 16, 12). 
La bibbia non condanna la medicina, e quindi non nega la possibilità per l’uomo di indagare la natura, molto più semplicemente faceva presente che, proprio come la mancanza a quei tempi di rimedi efficaci lo metteva in evidenza, bisogna pur sempre aspettarsi e chiedere tutto dal Signore, anche la salute. Come condannava la magia e gl'incantesimi al punto di punirli con la morte, altrettanto realisticamente non riponeva troppe speranze in una scienza, specialmente a quei tempi, illusoria, senza però condannarla a priori.
Ma anche oggi che i rimedi danno una certa sicurezza escluder l’operato divino vuol dire essere superstiziosi e credere a una scienza che non esiste, se avesse il compito di dare sempre qualsiasi risposta, anche quelle che non le competono perché appartengono al regno della fede. 
Comunque i rimedi a quei tempi erano talmente pochi ed insicuri che poteva parer più saggio affidarsi persino alla magia che non ad una scienza così poco scientifica.
Il re Ezechia quando cade ammalato viene aiutato con un pasticcio di fichi, ma la guarigione deve esser attribuita più all’intervento del profeta, per ordine di Dio, che non al tipo di cure praticategli (2Re. 20, 1-7). 
Anche Tobia, del quale abbiamo già parlato, sembra riflettere i suoi dubbi personali e le opinioni correnti di quei tempi sulle diverse medicine che forse erano allora in voga:
Egli si rivolge  all’angelo: "Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?". E l'angelo, come se fosse un medico di quei tempi risponde con un elenco d'istruzioni sull'uso  dei suffumigi contro gli influssi, o come si dice oggi, le influenze e su quello degli unguenti contro le macchie, forse provocate dallo sporco. In pratica si tratta di una cura dei sintomi con cose simili per mali simili, che non sono mai un vero rimedio, perché le cause del male rimangono sconosciute: "Con il cuore e il fegato, si possono fare dei suffumigi per allontanare da una persona, uomo o donna che sia, gl'influssi del Demonio; Il fiele invece spalmato sugli occhi oscurati dall'albugine, sciolgono queste macchie e l'ammalato riacquista la possibilità di vedere" (Tobia. 6, 7-9). 
Se queste erano le medicine di quei tempi, ben diversa la situazione attuale, dove la tecnica e l’arte sanitaria hanno raggiunto una perfezione scientifica. Per averne un'idea basta entrare in una sala di rianimazione, trovarsi davanti ad un malato in condizioni critiche, tenuto in vita artificialmente.
Pochi giorni fa il telegiornale riferiva il caso di una bambina il cui cuore era rimasto fermo per dieci giorni ed era stato sostituito da uno artificiale fino alla ripresa del suo battito naturale. Si è trattato di un caso eccezionale, ma ogni giorno vi sono ammalati che vivono con un cuore artificiale almeno per qualche ora, perché il loro non funziona, oppure sottoposti alla dialisi in sostituzione dei loro reni e in attesa di riceverne uno da un donatore, o che vengono nutriti con infusioni per via venosa, perché non possono ingerire alcun alimento, altre volte nella impossibilità di respirare se non per mezzo di una macchina.
Anzi proprio quest’ultimo tipo di cura è quello che ha dato l’avvio alla costituzione dei reparti di rianimazione. La loro data di nascita risale al 1952, quando furono istituiti in Danimarca, in occasione di una grave forma epidemica di paralisi infantile. Allora la respirazione artificiale, impiegata con successo per la prima volta su larga scala, riuscì a salvare la vita di numerosi pazienti, facendo loro superare la fase acuta della malattia che aveva temporaneamente paralizzato i muscoli del torace.
Da quella data questo mezzo di cura ha avuto gli sviluppi più impensati.
Negli anni sessanta un numero considerevole di buoni anestesisti aveva inventato il proprio respiratore azionato dalle più disparate fonti di energia. Tra gli utili e i curiosi, ricordo quello di un collega mosso dalla pressione di erogazione dell’acqua del rubinetto da usarsi in casi di emergenza. Oggi l’industria offre le possibilità più sofisticate e queste macchine sono comandate automaticamente da piccoli cervelli elettronici che sostituiscono tutti i calcoli necessari per farle funzionare che prima erano a carico del personale sanitario.
D’altra parte è proprio questa sicurezza tecnica che sembra allontanare maggiormente il paziente dal medico.
Questi ammalati gravi, una volta dimessi, ricorderanno sempre di aver fatto l’esperienza che la loro vita era completamente dipesa da una macchina. Da una parte avevano paura di lasciarla, dall’altra sono ora felici di poterne fare finalmente a meno.
Per le stesse ragioni si commiatano allora dal personale sanitario con sentimenti misti di attaccamento e di liberazione, quasi di amore e di odio. In ogni caso, quando lasciano il reparto non si voltano più facilmente indietro. Forse qualche infermiera che ha speso le sue notti o qualche medico che ha messo tutto il suo impegno nell’assisterlo può rimaner al momento un po’ deluso, ma egli non ritorna a ringraziare. Ma tutto questo trova una sua spiegazione nella psicologia ferita dell’ammalato che non può rivivere il tempo d’ospedale senza sentire una stretta al cuore. Essa è valida quindi nel mondo della medicina davanti al male fisico.
Una situazione completamente diversa è riferita dai vangeli.
 Gesù sulla strada che lo porta a Gerusalemme, incontra dieci lebbrosi i quali, come voleva la legge sanitaria di quei tempi, fermatisi a distanza, gli gridano la loro disperazione: "Gesù maestro, abbi pietà di noi!". Appena li vede, Gesù ne prova compassione e senza indugi, né rituali, né medicine dice: "Andate a presentarvi ai sacerdoti". I sacerdoti erano incaricati di controllare le infezioni dei lebbrosi e di interdire il contagio, andar da loro significava sperare nella guarigione e, di fatto, mentre vanno si accorgono di essere sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, torna subito dal Signore per ringraziarlo, gettandosi ai suoi ai piedi.  egli è un Samaritano, per quei tempi un miscredente. Ma Gesù osserva: "Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?". E gli dice, rassicurandolo: "Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!" (Lc. 17, 11-17). 
In questo caso, si tratta di un rapporto del tutto personale, non inficiato dalla mediazione macchinosa della tecnica. 
Certamente tutti e dieci i lebbrosi sono stati riconoscenti per la guarigione ottenuta e in qualche modo forse lo avranno pur manifestato, ma nove di essi avuta la salute non avevano bisogno d’altro, non cercarono altro e non ottennero niente di più.
Uno solo invece si accorse che gli mancava qualche cosa di più importante, sentì il bisogno di avere l’amicizia di chi lo aveva salvato.
Egli era mosso dall’amore, gli altri dal proprio interesse, per questo il primo era contento di aver ottenuto la salute, perché era stata per lui l’occasione fortunata che gli aveva dato la possibilità di conoscere il Messia. Per questo ritornò per stabilire con lui un rapporto personale e aggregarsi alla schiera dei suoi amici. Non ha ritrovato allora solamente chi lo ha guarito, ma anche colui che lo ha accolto nella sua chiesa nella quale ha potuto rifare l’esperienza di esser sicuro della sua salvezza.



9° cap. una Pazzia atavica

Salute, vitalità, socialità sono per l’uomo limitate. Il loro esaurirsi è fonte di malattia.
(Salute, esaurimento, vecchiaia, pazzia, colpa, responsabilità, divisione, guerra).

L’uomo è una macchina perfetta, ma come tutte le cose fisiche soffre almeno tre limiti strutturali insormontabili. Il primo riguarda la sua potenzialità, il secondo la durata, e il terzo la connettività nell’ambiente in cui opera. La richiesta di prestazione al di là di queste restrizioni si chiama malattia, che è fisica, ma che ha ripercussioni frequentemente sulla psiche.
La bibbia riporta degli esempi di ammalati famosi.
Ne ricordiamo alcuni.
Il primo, Sansone, è la persona a cui viene richiesto più delle sue possibilità. Il risultato è l’impotenza che si rivela nella incapacità di agire. L’acconsentire a queste pretese esorbitanti è il lato psichico della malattia e anche questo ha il suo nome: presunzione. Se è inavvertita è certamente senza colpa, altrimenti: ‹chi è causa del suo mal...›, e Sansone ebbe a pianger se stesso
Chi si sente forte non si permetta delle rilassatezze e, soprattutto, non si abbandoni ad una donna qualsiasi che non gli vuol bene.
Rischierebbe di perdere la vista, cioè di non sapere e non poter fare quel che dovrebbe e che sarebbe meglio, fino al punto di procurar danni a sé e agli altri.
 Quando Sansone si innamora di Dalila, una donna della valle di Sorek, i capi dei Filistei vanno da lei e le chiedono di sedurlo per capire da dove viene la sua enorme forza e per sapere come riuscire a legarlo e a domarlo, in compenso le promettono ciascuno mille e cento sicli d’argento.... (Giudici. 16, 4-5). 
Alle domande insistenti di Dalila, Sansone baldanzoso, quasi prendendola in giro...
 risponde: "Se tu intrecciassi le sette trecce della mia testa nell’ordito e le fissassi con il pettine del telaio, io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque". Allora lei lo culla e lo addormenta nelle sue braccia, intreccia i suoi capelli nel telaio e, improvvisamente grida: "Sansone, i Filistei ti sono addosso!", ma egli, come se non fosse successo niente si sveglia e si libera con uno strappo da pettine, telaio e ordito senza nessuna difficoltà. Così per tre volte e sempre deludenti per Dalila, che non riesce a condividere ‹la buona e la cattiva sorte con il marito›!
Allora lei comincia con le lamentele: "Non mi vuoi bene!, Tieni per te i tuoi problemi, Non ti confidi con me. Mi tieni nascosto qualcosa...". 
Ebbene Sansone può vincere qualsiasi violenza, ma non sopporta la lagna e le lamentele e alla fine si confida: "Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un consacrato a Dio ancor prima di nascere; se fossi rasato, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque". Questa volta Dalila capisce che egli le ha aperto il cuore... lo addormenta sulle sue ginocchia, chiama un barbiere per radere le sette trecce del capo di Sansone e egli, a poco a poco, perde la sua forza, senza nemmeno accorgersi di come si è ridotto. Dalila, ancora una volta, grida e mette in guardia il marito: "Sansone, i Filistei ti sono addosso!". Egli, si risveglia del tutto dal sonno, pensa sempre di essere l'uomo di prima, ma ormai è cambiato: i Filistei non fanno fatica a incatenarlo, gli cavano gli occhi per prudenza e lo portano prigioniero a Gaza a Gaza a girare la macina di un mulino.
Intanto la sua capigliatura comincia a crescere di nuovo, senza che nessuno se ne curi. I Filistei ormai non temono nemici, in un giorno di festa si radunano per offrire un sacrificio a Dagon loro dio proclamando a gran voce: "Il nostro dio ci ha messo nelle mani Sansone nostro nemico"...
Sansone con la nuova capigliatura si sente sicuro della sua vocazione. Si rivolge di nuovo al suo Dio e grida: "Signore, ricordati di me! Dammi forza per quest'ultima volta! Si appoggia alle due colonne che sorreggono la sala della festa e grida di nuovo: "Muoia Sansone con i Filistei!". Si curva con tutte le sue forze, abbatte le colonne, l'intera casa rovina addosso ai capi e al popolo radunato con loro, seppellendoli insieme allo stesso Sansone nella rovina. (Giudici. 16, 13-30). 
Il caso di Sansone riguarda la sua salute fisica, ma estrapolando vi si può leggere un avvertimento per coloro che si credono dei sansoni nel campo della logica o della psiche.
Alle volte la richiesta di prestazioni superiori alle nostre forze non è così acuta, si trascina nel tempo, con il risultato di certi esaurimenti nervosi che sembrano in un primo momento senza cura, ma che poi si rivelano fortunatamente transitori, anzi nemmeno di lunga durata.
Se posso, ecco un consiglio di medico alle persone stanche che può esser più prezioso di quanto non sembri, ovviamente a prescindere dalle cure che devono fare: non fermarsi per strada e non perder tempo con le quisquiglie, tener sempre presente lo scopo principale.
E ancora una cosa: non contare troppo sull’aiuto degli altri.
Gedeone non si ferma a far fuori le liti che ha con quelli che non vogliono soccorrere lui e i suoi uomini stanchi ed esausti per la fame e la fatica. Non se la prende con quelli di Succot e di Penuel, dà tempo al tempo, prima conduce a termine l’impresa nella quale si trova impegnato. E una volta fatto il suo dovere, ha anche il tempo per mettere a posto le pendenze in sospeso.
 Gedeone arrivato al Giordano, lo attraversa, ma egli e i suoi trecento uomini sono stanchi e affamati. Entra nella città di Succot e prega la popolazione di aiutarlo: "Date focacce di pane ai miei soldati, perché sono stanchi e io sto inseguendo Zebach e Zalmunna, re di Madian". Ma i capi di Succot rispondono: "Tieni forse già nelle tue mani i polsi di Zebach e di Zalmunna, perché dobbiamo dare il pane al tuo esercito?". Gedeone li avvisa: "Ebbene, quando il Signore mi avrà messo nelle mani Zebach e Zalmunna, vi farò pagar caro questo rifiuto". La stessa storia si ripete con gli uomini di Penuel  e, nello stesso modo, Gedeone li avvisa: "Ebbene, quando il Signore mi avrà messo nelle mani Zebach e Zalmunna, abbatterò la vostra superbia".
Gedeone rprende l'inseguimento per la via dei nomadi a oriente di Nobach e di Iogbea e infine mette in rotta l’esercito di Zebach e Zalmunna che si credeva sicuro. 
Completata la sua campagna militare, torna dalla battaglia per la salita di Cheres e viene a Succot per portare a termine quel che aveva promesso... (Giudici. 8, 4-16). 

E già che si è parlato di salute e di esaurimento, accenniamo a uno stato che non è ancora malattia, ma che già si trova al di là dei limiti della durata del benessere.
Quando si va avanti con gli anni non bisogna abbattersi, perché non si riesce più a concludere tutto quello che si faceva prima. Non dobbiamo offenderci se qualcuno ci viene in aiuto come se non fossimo più capaci, non dico di essere utili agli altri, ma nemmeno di badare a noi stessi. Non stiamo decadendo. Anzi!
Davide in battaglia non regge alla fatica e viene salvato all’ultimo minuto da un suo ufficiale che è intervenuto per soccorrerlo.
I Filistei mossero di nuovo guerra ad Israele e Davide scese con i suoi soldati a combattere contro i Filistei. Davide era stanco e Isbi-Benòb, uno dei Filistei, che aveva una lancia del peso di trecento sicli di rame ed era cinto di una spada nuova, si mosse contro Davide e stava per averne il sopravvento; ma Abisài, figlio di Zeruià, venne in aiuto al re, colpì il Filisteo e lo uccise. Allora i ministri di Davide gli giurarono: "Tu non uscirai più con noi a combattere e non spegnerai la lampada d’Israele".. (2Samuele. 21, 15-17). 
Davide aveva avuto in dono una natura felice e un bell’aspetto. Era stato sempre coraggioso, non si era tirato indietro davanti al gigante Golia ed ai pericoli della guerra. Non si era lasciato abbattere dalla persecuzione politica, preparandosi invece, nella clandestinità dell'esilio, alla riscossa, senza però conservare odio o acrimonia verso l’oppressore.
Possedeva un raro talento artistico, compose le più belle poesie della bibbia e quando suonava la cetra lasciava incantati gli uditori ed ammansiva la pazzia degli arrabbiati.
Però anche Davide diventò vecchio e si accorse amaramente di non poter più affrontare le fatiche di prima.
E, quel che è peggio, se ne accorsero gli altri quasi prima di lui.
Ma egli, alla sua età, ha una altra funzione da svolgere deve consolidare un regno, unire un popolo, amministrare la giustizia.
Nelle dovute proporzioni, anche noi ad un certo punto dobbiamo cambiar lavoro, non si tratterà di promuovere ordine e giustizia, come il re Davide, eppure potremmo avere un compito, che anche gli altri si aspettano da noi, tipico della nostra età e delle nostre possibilità, che in un certo senso è del tipo di quello davidico. Si tratterà, forse, di dare un consiglio o anche di dire una sola parola, portare un esempio di pace, alle volte risulterà più efficace una preghiera recitata in silenzio.
Comunque bisogna essere attenti a parlare quando si è anziani, ancor più di quando si era giovani. Lo dico io che sono vecchio. Piuttosto che mettersi ad insegnare è sempre meglio imparare le novità incombenti. 
In fondo cosa è nuovo per un bambino?
Quello che impara a scuola! Per esempio il latino, che invece è vecchio di duemila anni.
E che cosa è nuovo per la persona avanti nell’età?
Quello che sta succedendo al di là delle sue abitudini: ciò che sta per affermarsi.
Per il bambino la novità è il passato, per il vecchio è il futuro.
Ma tutte queste sagge considerazioni potrebbero parere dei buoni consigli di igiene mentale, più o meno discutibili, la vera novità sorpassa invece il tempo ed il contingente. Non si tratta di imparare il passato o il futuro ma, nelle varie espressioni dei tempi, possiamo arrivare a conoscere l’eterno.
Davide non era grande perché aveva vinto la sua vecchiaia, né saggio per aver fatto tesoro dei buoni consigli, ma perché si era sempre rivolto al suo Dio ed aveva vissuto solo per lui.
Un quadro ben diverso presenta l’avanzarsi degli anni per Saul: egli va incontro ad una alterazione mentale. Se sia stata la gelosia a farlo parer forsennato, oppure primariamente la malattia a renderlo geloso, il risultato è lo stesso. Si tratta di intolleranza al punto di voler togliere agli altri quella vita che egli stesso ormai sente di perdere.
La pretesa di conservare o di avere una supremazia che non compete è molto diffusa; si traduce in una paura che colpisce sia vecchi che giovani; si manifesta anche nelle piccole cose e in certe forme di comportamento persecutorio, tuttavia non così facile da scoprire a prima vista.
Un carissimo mio amico mi diceva che da piccolo era la disperazione di casa sua, per cui la mamma, non sapendo più cosa fare, andò in cerca di un buon prete per vedere se fosse possibile impartirgli una benedizione speciale. Effettivamente, anche da grande, alle volte, si lasciava prendere da una tal preoccupazione di non perdere un posto rilevante o dall’assillo di ottenere un riconoscimento dagli altri, da arrivare, se non ad opprimere, almeno ad infastidire parecchi suoi colleghi.
Ai tempi della bibbia, la gente si trovava come i genitori di quel bambino: mancava qualsiasi rimedio efficace non solo per l’orgoglio e la gelosia, ma anche per tutte le altre malattie conosciute o presunte, per cui come unica possibilità rimaneva quella di cercare qualche benedizione, la più speciale e la più adatta possibile. E perché le medicine si devono pur pagare, si credeva che anche l’intervento dei sacerdoti di quel tempo costasse qualche cosa o almeno qualche sacrificio. Siccome poi i sacrifici erano più a danno delle bestie che non del proprio borsellino e quindi nemmeno troppo dolorosi a paragone delle malattie che si dovevano sopportare, non ci furono mai limiti a questa pratica, al punto che si arrivò persino a credere necessaria l’offerta cruenta dei propri figli.
Evidentemente in questa materia influirono altri elementi e gli psicologi moderni si sono arrabbattati a trovar le più diverse spiegazioni, meno semplici di questa, che però non può essere esclusa del tutto. Non si deve nemmeno pensare che l’immolazione dei figli fosse un atto di una crudeltà impossibile. Anche oggi ci sono dei padri così psicolabili al punto di seviziare i propri bambini. A quei tempi, se l’offerta non era frutto di esaltazione maniacale, bastava quasi sempre dare una buona mancia a persone del tipo di quei padri crudeli, per trovar materia per il macabro rito. Non credo comunque che si arrivasse ad eliminare migliaia di esemplari in una volta come si propongono di fare i miei colleghi inglesi con i loro embrioni congelati. Eppure Diodoro Siculo riferisce una immolazione in massa di duecento piccoli, effettuato dai Fenici di Cartagine per scongiurare i pericoli dell’assedio di Agatocle, che sono sempre un bel numero, anche se si deve pensare che gli stenti e la fame della guerra li avrebbero eliminati non troppo tempo dopo, in modo naturale.
Anche il Dio di Abramo mise alla prova il suo fedele su questo punto,
 e gli disse: "Abramo, Abramo!". Rispose: "Eccomi!".Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Abramo si alza di buon mattino, sella l’asino, prende con sé due servi e il figlio Isacco, prepara la legna per l’olocausto e si mette in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno Abramo vede da lontano il monte della sua offerta. dice ai suoi servi di fermarsi e di aspettarlo di ritorno, mentre egli e il ragazzo raggiungeranno la meta, compiranno il sacrificio, per ritornare infine da loro. Poi Abramo prende la legna dell’olocausto e la mette sulle spalle del figlio, prende ancora il fuoco e il coltello, e, insieme, proseguono il cammino. 
Isacco, intanto, si rivolge al padre Per dirgli: "Papà! Abbiamo con noi il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello da immolare?". Abramo risponde: "Dio stesso provvederà, figlio mio!". Proseguono, avanti, insieme e arrivano al luogo che Dio aveva indicato; qui Abramo costruisce l’altare, vi pone sopra la legna, poi lega Isacco e lo pone sull’altare. Ormai a questo punto, prende il coltello in mano per immolare suo figlio. Ma qui, l’angelo del Signore lo chiama dal cielo e gli dice: "Abramo, Abramo!". Il padre di Isacco risponde subito: "Eccomi!". E, l’angelo: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio!". 
Abramo si ferma subito, alza di nuovo il capo, e vede un ariete impigliato con le corna in un cespuglio; lo prende e lo offre in olocausto invece del figlio. 
Abramo chiamò quel luogo: "Il Signore provvede", perciò anche oggi si dice: "Sul monte, al culmine della prova, il Signore provvede". E, l'angelo chiama ancora una volta dal cielo Abramo per promettere solennemente: "Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu con i fatti, e non con le parole, non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia del mare". (Genesi. 22, 1-17) 
Ebbene, quando Isacco, una volta adulto, porterà avanti la sua tribù e l’eredità lasciatagli dal padre, in mezzo agli idolatri che sacrificavano i loro figli, non avrà di certo più potuto dimenticare quella mano che aveva fermato il coltello del padre come un monito e un comando di Dio.
La bibbia condannava decisamente ogni forma di infanticidio.
 Non si trovi in mezzo a voi chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o l’augurio o la magia... (Deuteronomio. 18, 10). 
e, in un altro luogo, ammonisce:
 Forse voi non siete figli del peccato, prole bastarda?
Voi, che spasimate fra i terebinti, per consumare il vostro erotismo perfino in campagna, sotto ogni albero verde, per poi sacrificare i bambini nelle valli, gettandoli nei burroni tra i crepacci delle rocce. (Isaia. 57, 4-5). 

Presso i popoli antichi, anche per gli Ebrei, era radicato il concetto che la malattia fosse un segno della punizione divina.
 Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano, per i miei peccati persino le mie ossa si sono infiacchite.
Le mie iniquità superano la mia tracotanza e ora come un carico pesante mi opprimono.
Putride e fetide sono le mie piaghe, per ricordarmi della vergogna a causa della mia stoltezza. (Salmo. 38, 4-6). 
È il caso tipico di Giezi, il servo di Eliseo. Egli rimane colpito dalla lebbra in punizione del suo egoismo. 
Ma altre volte la punizione è così dura che si estende ai discendenti. Davide maledice Ioab che ha ucciso a tradimento un prode che si era consegnato nelle sue mani e gli promette che il castigo di Dio non si allontanerà dalla sua famiglia. A proposito di un altro argomento abbiamo già ricordato la punizione del re Acab che si estenderà al suo casato per aver abusato del potere. 
Se la bibbia in altre occasioni ribadisce che la responsabilità degli atti umani è della persona che li compie e quindi ne commina il conseguente castigo a lei sola, per altri versi denuncia una certa unità tra tutti gli uomini, nel bene e nel male, al punto che l’uno può pagare i delitti dell’altro.
Si tratta di una constatazione di una realtà di fatto che alle volte la ragione non prende sufficientemente in considerazione.
Esiste nel cosmo, tra tutte le creature una stretta unità, per cui, in qualche modo, l’agire di una creatura influisce, e alle volte vicaria, quello dell’altra.
I sacrifici si basano su questa considerazione; possono essere offerti a favore dell’altro e in sostituzione dei propri doveri.
Quando il profeta annunzia a Ninive il castigo di Dio, per cercare di allontanarlo, il re comanda la penitenza non solo agli uomini, ma anche alle bestie, che, pur irragionevoli, condividevano la dimora e, in un certo senso, il vivere stesso con la popolazione colpevole del suo regno.
 Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: "Alzati, và a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò". Giona va a Ninive secondo la parola del Signore. Percorre le sue vie, si ferma nelle piazze, per ben tre giorni perché Ninive era una città molto grande, per annunciare a tutti: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". I cittadini non discutono, conoscono le loro pecche, si pentono e, persino con riti esteriori promettono di rimediare alle loro malefatte. Lo stesso re lascia il trono, depone le insegne del comando, si copre di sacco e siede sulla cenere. Poi annuncia un proclama ufficiale: Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua...". 
Dio vede si impietosisce e non mette in esecuzione il suo castigo Giona. 3, 1-10). 
Così, se il rimedio era la penitenza di tutti, persino degli animali, almeno questi ultimi potevano essere offerti per pagare il castigo che avrebbero dovuto sopportare gli uomini stessi.
Ma è proprio vero che la malattia rappresenta una punizione del cielo?
Cosa pensa a proposito un medico che visita tutti i giorni molti pazienti ed è a contatto con il loro dolore?
Che colpa ne hanno?
Il racconto della cacciata dal paradiso terrestre sta inequivocabilmente all’inizio dei libri sacri e agli albori della storia umana.
Fondamentalmente, anche nel paradiso terrestre la colpa ed il peccato consistono nel preferire un frutto della natura al posto dell'amicizia  e della fiducia nei riguardi di chi ha dato questo frutto. Alle volte questa decisione è del tutto inavvertita, ma comunque ci divide da lui, ci allontana dalla onnipotenza del Signore e ci lascia inesorabilmente nella nostra impotenza e nel nostro limite.
La malattia è la traduzione fisica di questa nostra scelta fondamentale – abbiamo scelto il meno e, non possiamo evitarlo – è quindi una situazione di fatto che ci avverte quanto noi siamo lontani dal Signore, non sarebbe quindi una colpa, ma una constatazione, almeno fino a quando deliberatamente non si voglia scegliere i propri limiti al posto dell’onnipotenza di Dio.
Tutto questo non è un ragionamento o una riflessione. Rispecchia la realtà delle cose.
I sacrifici sono l’espressione della ricerca di un rimedio, di rimettere cioè le cose nel loro ordine logico: un segno della restituzione a Dio della materia di cui l’uomo si era appropriato.
L’espressione è fisica, l’intento vero rimane però l’offerta della propria volontà affettiva o, come si dice, quello di un sacrificio spirituale. La bibbia non ha dubbi a proposito, basta una citazione per tutte:
 Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?"
dice il Signore: "Sono sazio degli olocausti di montoni, del grasso di giovenchi, del sangue versato degli animali...
Se invece sarete docili e ascolterete le mie raccomandazioni, solo allora, potrete godere dei frutti della terra, ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete voi stessi colpiti dalla spada".. (Isaia.1, 11-20). 
Se l’obbedienza a Dio, e quindi l’accordo con lui, vanno di pari passo con l’unità di tutto il creato, bisogna anche dire che la vera malattia ed il vero castigo stanno, non solo nell’allontanarsi da lui, ma, come conseguenza, anche nella divisione e nella disunità tra gli uomini.
Siamo venuti così a parlare di una delle cause più gravi che ci siano di infermità e di morte.
Si tratta della guerra.
Qualsiasi buon medico si preoccupa più delle cause che non dei sintomi della malattia, prescrive l’aspirina per la febbre, ma sceglie con maggior cura quell’antibiotico che sia il più efficace contro i germi che l’hanno provocata. La medicina militare sembra invece preoccuparsi solo dei sintomi della malattia. Fascia la ferita, ma si dimentica di fermar la spada che la procura. I medici militari sotto il camice bianco portano la divisa del soldato. Nel curare i commilitoni sembrano approvare la guerra, nel guarirli li mettono in sesto per esporli di nuovo al macello.
Io non dico con ciò che non ci si debba mai difendere, tuttavia con questi argomenti vorrei denunciare l’incongruenza scientifica della cura degli affetti da ferite belliche. Quindi, se alle volte l’uso delle armi fosse un dovere, non lo è mai meno il cercare altri mezzi per salvare la pace e la giustizia, come per esempio hanno fatto oggi le stesse nazioni della nostra Europa che da secoli vivevano tra loro come cani e gatti.
Negli anni in cui sedevo sui banchi dell’università, sentii dire da Cazzanigga, uno dei miei docenti più famosi: "Si fa così fatica a salvare una persona e poi se ne ammazzano tante sui campi di battaglia...".
La ragione della guerra e la sua giustificazione sta nel fatto che gli uomini che la muovono non si sentono di contrapporsi ad altri uomini. Essi si sono già divisi prima e vanno a combattere non degli uomini come loro, ma altre confessioni, classi diverse, popoli stranieri.
Se si vuole curare la causa per guarire il male e sanare l’istituto della guerra, prima, ci si deve preoccupare della divisione che è la fonte di tutte le contrapposizioni.
Questo è l’unico approccio scientifico al problema.
E nemmeno si può dire che si fa la guerra in vista della pace: non si cerca di ammalarsi per poter poi godere quando si dovesse guarire!
La divisione è sempre un male, anche quando viene usata come un mezzo per arrivare ad una certa unità che si dovesse ritenere superiore alla lotta che l’ha provocata.
Se il suo risultato è un’altra modalità di stare insieme, per quanto si ritenga superiore, si raggiunge però a seguito dell’eliminazione di una parte. Questo cancellare la divisione è, invece, quasi un sancirla e perpetuarla con il salvare solo ‹un resto› e rinunciare a ‹un tutto›. Si riesce allora a far tacere per sempre l’unità, non certamente a realizzarla.
All’insieme non può mancare mai una parte e non si può realizzare l’unità della famiglia umana eliminando di proposito anche un solo uomo.
"Va bene," mi direte voi, "ma come si fa per arrivarci? Come poterla raggiungere."
"Ecco!", vi rispondo: "Questo è l’argomento del prossimo capitolo."



10° cap. il Sangue

La perdita del sangue equivaleva, per gli Ebrei, alla perdita della vita. L’annuncio della comunione con il sangue di Cristo risultava orripilante alle loro orecchie.
(Ferite, emorragia, trasfusione, motivazioni primarie e istintive, morte, vita).

Non si era ancora asciugato del tutto l’inchiostro del certificato di laurea e mi trovai improvvisamente a sostituire un collega in un ospedale di provincia vicino alla mia città.
Erano i primi anni dopo la guerra e ognuno di noi si era lanciato nella ricostruzione, carico di energia e di ottimismo. Forse solo per questo, tutto il mio ardore riuscì a soverchiare lo spavento che avrei potuto provare nel varcare le soglie del tempio alla dea della salute, del resto il lavoro senza soste non me lo avrebbe nemmeno permesso. Oltre al primario, eravamo tre assistenti e ogni tre giorni uno di noi era di guardia.
Una notte mi portano un uomo ubriaco fradicio che, non reggendosi in piedi, era caduto nella vetrina di un negozio, procurandosi con le schegge dei cristalli rotti un centinaio di ferite da taglio. Era sporco di sangue, lui e i suoi vestiti a brandelli. Ridusse il pronto soccorso in un pantano di sangue, non ci si poteva muovere senza sporcarsi. Ci volle del bello e del buono e più di una ora per cucire tutte quelle ferite. Alla fine cucito, incerottato, pulito, aveva ancora un aspetto umano. Eppure, malgrado la grave emorragia subita se la cavò senza che ci fosse stata la necessità di una trasfusione. Tante ferite in una volta non le rividi più nella mia pratica di lunghi anni e non credo nemmeno ne abbiano viste i miei colleghi.
Le armi da taglio non sono più di moda. Coltelli e spade son cadute in disuso. La morte violenta oggi è più pulita, anche se più tragica. Se non è il veleno che non lascia tracce, le armi da fuoco uccidono subito, con una lesione esterna di dimensioni modeste. Quasi non si vede l’ingresso di un proiettile che ha sbriciolato il cervello, o arrestato il cuore, oppure provocato una perdita di sangue all’interno del corpo, in quantità mortale, quasi all’istante. 
In altri tempi per morire erano necessarie delle ferite più vistose e più evidentemente sanguinanti. Allora perdere il sangue e perdere la vita erano sinonimi e, perché non esistevano le trasfusioni, tra l’una e l’altra cosa non c’era differenza.
Se quel paziente se la cavò senza troppi problemi, ben diversamente un altro caso che ritorna qui alla mia memoria.
Ero più avanti negli anni della mia professione, come anestesista in un grande ospedale. Nel pieno di una notte mi chiamano di urgenza. Mi trovo davanti ad una paziente operata il mattino con il quadro conclamato di una grave emorragia.
Bisogna riaprire e legare i vasi.
In fretta la mia opera, subito di seguito, più in fretta quella del chirurgo, ma la perdita di sangue non cessa. Comincio a sostituirlo prima con un flacone di liquidi, poi di un succedaneo, poi di sangue.
Il chirurgo non riesce a chiudere i vasi, ha a che fare con un campo operatorio già infestato da una precedente radioterapia. Infondo altri liquidi, altri surrogati, altro sangue, altro plasma. 
Il tempo passa. Il chirurgo guarda l’assistente con una espressione drammatica. L’infermiera gli passa un ferro dopo un’altro.
La croce rossa, a sirene spiegate, porta altri flaconi di sangue.
Nella notte sono solo come anestesista, ma ho l’assistenza di un buon respiratore che accompagna il mio lavoro con il suo ritmico sbuffare. Ho in mano il polso della paziente, sempre valido, la pressione arteriosa è buona. Pur conscio della gravità del caso, sono, tra tutti i presenti, la persona più tranquilla dopo l’ammalata che, ignara del dramma, dorme per effetto della narcosi.
A quel tempo il sangue si conservava in recipienti di vetro. Quell’emorragia richiedeva una rapida sostituzione. In quella situazione non avevo altra possibilità per aumentare la pressione di spinta del liquido e accelerarne il deflusso nelle vene che pompare dell’aria all’interno del flacone. Prima che si svuotasse del tutto, interrompevo con due pinze l’infusione e lasciavo sfiatare l’aria in eccesso.
Durante tutte queste manovre, malgrado fatte a regola d’arte, un paio di centimetri cubi di aria finiscono nelle vene come una saettata. Interrompo in fretta la trasfusione, ma il danno è ormai fatto.
Controllo con lo stetoscopio il cuore e sento il tipico rumore da macina di mulino. 
Non c’è tempo da perdere. Se l’aria imbocca le arterie del cervello ne segue una paralisi , se non peggio.
Chiedo al chirurgo una punzione cardiaca per dar sfogo ai gas.
Si rifiuta di intervenire.
Perché?
Non vuole affrontare altri problemi oltre a quelli che ha?
Vuole addossare all’anestesista, almeno in parte, la responsabilità di un incombente decesso?
Non c’è tempo per pensare o per discutere. Tutto avviene in pochi secondi, anche la punzione che effettuo subito. Dalla cannula esce sibilando un po’ di schiuma rossa, poi un po’ di sangue. Tolgo l’ago. Controllo con lo stetoscopio il cuore. Il rumore è scomparso. Il battito è regolare.
Poco dopo anche il chirurgo termina il suo lavoro finalmente con successo.
Ho infuso dodici litri di liquidi in poche ore che sono passate come un lampo.
La paziente si sveglia subito, come se le infusioni avessero lavato il suo corpo dai narcotici, e mi guarda senza intelligenza con una smorfia che forse indica un sorriso.
Deve la sua vita al sangue che ha ricevuto da persone che non conosce e che nemmeno conoscerà e che quasi certamente ha sostituito del tutto il suo. Se era stata sul punto di perderla solo esso gliela aveva potuta ridonare.
Un mio collega mi raccontava di aver visto un paziente morire, piuttosto di ricevere una trasfusione: è stata per lui una esperienza traumatica.
L’arresto del cuore dovuto ad emorragia non si può curare con la rianimazione. Nella letteratura medica non esiste un caso (1992) recuperato dopo una simile evenienza.
Tutto questo ci fa capire ancora meglio come presso gli Ebrei il sangue era sinonimo di vita. Costituiva l’essenza della persona stessa, alla quale non si sarebbe dovuto mai rinunciare con il barattarla con quella di un altro, per esempio, se fosse stato possibile, con la pratica trasfusionale.
La bibbia arriva al puntodi proibire il sangue come cibo.
 Ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in Israele, non mangi qualsiasi cibo preparato con il sangue, perché è come se volesse impadronirsi dell'altrui vita, in cambio della propria. La vita è un dono personale di Dio e non può andar persa, ma deve essere restituita a chi la ha creata... (confronta: Levitico. 17, 10-14). 

L’accenno all’inconveniente dell’embolia di aria non è qui a caso o solamente perché difficile da dimenticare. Mi serve come occasione per ricordare la lunga strada di studi tecnologici e scientifici per arrivare alla sicurezza delle odierne trasfusioni. Anche il semplice sacchetto di plastica che oggi sostituisce il flacone di vetro ne rappresenta una tappa importante: attualmente per iniettare del sangue velocemente basta gonfiare un semplice manicotto per misurare la pressione arteriosa disposto attorno alla borsa del sangue senza immettere aria, all'interno del sacchetto, esludendo ogni pericolo di embolie gassose.
Un altro non insignificante problema a cui i primi studiosi si sono dedicati è quello della coagulabilità. In tempi ormai passati, bisognava trasfondere il sangue prima che si trasformasse in grumi insolubili. Io stesso nei primi anni della mia professione ho usato la famosa siringa a due vie, che con un sitema semplice di costruzione di ‹va e vieni›, ma scomodo d'esecuzione di ‹aspira e inietta›,permetteva una trasfusione simultanea dal donatore al ricevente, prima che fosse già raggrumato, con tutti i pericoli e i disagi connessi; a questi disagi se non inconvenienti si è rimediato poi, per esempio, con lgli anticoagulanti, come la famosa ACD.
Ma il problema principale che ne ha frenato agli albori la terapia trasfusionale è stato quello della sua compatibilità per il ricevente che si è potuto superare con gli studi sui gruppi sanguigni.
La moderna chirurgia ci ha abituati ai trapianti di tessuti e di organo come se fossero intercambiabili. Tuttavia questo è possibile solo con molti accorgimenti tecnici e con le medicine che sopprimono la risposta di difesa immunitaria da parte del ricevente contro l’organo impiantato e da parte dello stesso organo contro il ricevente, tanto da mettere in maggior risalto l’individualità di ogni singola persona.
Essa è solo un riflesso della ineguagliabilità di ciascun individuo e della sua peculiarità nel suo insieme.
Quando Gesù annunciava agli Ebrei che non avrebbero avuto la salvezza se non avessero bevuto il suo sangue andava direttamente contro questa loro istintiva posizione di conservare la propria vita e la propria individualità.
Se la comunione può talvolta suscitare incredulità nell’uomo moderno, per loro riusciva semplicemente orripilante.
Malgrado questo Gesù si mostrò irremovibile, né oggi noi possiamo tentare di interpretare in un modo annacquato l’importanza e la straordinarietà di questo annuncio.
Ebbene se la mia lunga digressione sulle trasfusioni mi ha portato a questo punto è per dire che gli uomini non potranno mai essere uniti senza cambiare il loro essere, senza perdere la loro vita e assumere quella nuova unica per tutti, anche se diversa nelle sue varie esplicitazioni, che viene dal bere tutti lo stesso sangue, compartecipare tutti alla sua stessa vita.
Il fine dell’unità non può essere perseguito solo con degli accordi, o peggio dei compromessi, o degli accomodamenti saltuari e nemmeno bastano i contratti di amicizia o solamente quelle tecniche e prassi cosiddette psicologiche inventate per questo scopo.
La comunione rimane l’unica risposta alla domanda che concludeva il precedente capitolo sulla guerra affinché i nostri comportamenti possano trovare le loro ragioni non in un modo di fare, ma nel nostro stesso essere.
In questo senso il miracolo della prima predica degli apostoli il giorno della Pentecoste riveste il carattere di vera profezia.
In quel giorno la chiesa si presenta per la prima volta al mondo con il suo annuncio.
Il messaggio è unico e, pur espresso in modo diverso, è da tutti ugualmente capito, ma in un modo diverso da ognuno, senza esser frainteso, né deformato.
Vi vediamo un primo accenno alla inculturazione della diffusione della fede, ma soprattutto un esempio delle note caratteristiche della comunità nascente, segno della unione dei cuori e delle menti di coloro che la compongono. Infatti, mentre alcuni capiscono e sentono le parole adatte a loro in un modo personale, nella loro lingua, altri pensano che gli apostoli sono degli ubriachi: è l’atteggiamento comune anche oggi, quando c’è chi accoglie il messaggio della chiesa, oppure chi lo giudica come se fosse un programma insensato.

Se avete tempo fate una gita a Bolsena. È la città del miracolo eucaristico. Non voglio qui cominciare una discussione su questo fatto, ho già messo a bollire in pentola troppi problemi che ci manca anche questo nel mio libretto! Eventualmente ne scriverò un altro che lo tratti per esteso. Tuttavia andare a Bolsena ne vale la pena, come occasione per ripensare al dono del Signore, rivisitando i posti che vide a suo tempo quel prete teutonico, più o meno incredulo nei riguardi della presenza eucaristica, in pellegrinaggio verso Roma, che, mentre celebrava la messa, si trovò con l’altare improvvisamente macchiato di sangue.
Venendo dal sud vi ritroverete tra i noccioleti delle colline o tra i castani del Cimino e, prima di arrivare, vi apparirà l’incanto del panorama del lago. Raggiungendo invece Bolsena dal nord, la incontrerete arroccata, con il suo castello da fiaba, su un ripido costone.
Poi vi conviene avviarvi verso Orvieto, ripercorrendo la strada della processione delle reliquie del miracolo eucaristico trasportate in questa città, che si ergerà davanti ai vostri occhi, raccolta nelle sue mura, con le torri, i campanili, i palazzi, la sagoma della famosa cattedrale.
Più che una passeggiata è un continuo sorprendente spettacolo.
L’ho fatta anch’io, quasi per caso, insieme ad un giovane mio amico, quando pensavo di scrivere questo capitolo.
Si parlava di tante cose ed egli insisteva che l’unica motivazione dell’agire umano è la ricerca egoistica della felicità. Io ribattevo che quando si amano i nemici e si offre l’altra guancia a chi ti percuote lo si fa solamente perché il Padre fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e ama tutti indistintamente. In questo caso non ci può essere come unico motivo l’egoismo, nemmeno quello che spera di ottenere la propria soddisfazione nell'eventuale raggiungimento, con l'accordo, di una presunta speranza di futura felicità. Si può essere eroi una volta con lo scopo di essere ammirati, ma continuare a sacrificarsi e non dare a sapere alla mano destra quello che ha fatto la sinistra non vale la pena e soprattutto non regge alla lunga.
Ma quel giovane non accettava altre ragioni che non la soddisfazione personale e l'utilitarismo sociale, senza voler nemmeno discutere che ce ne potessero essere delle altre. Se qualcuno credeva di averne, per lui, era o un illuso o un matto.
In un certo senso mi pareva persino che non avesse torto del tutto, ma nemmeno completamente ragione.
È vero, su questa terra non esiste un amore così genuino che non sia mescolato con un poco di interesse, solo quando saremo del tutto morti a noi stessi potremo vivere completamente di quell’unico Amore che è Dio, ma anche l’oro, perfino quando è sporco ed ha perso il suo splendore, non ha però perso la sua preziosità. Un conto è un amore imperfetto ed un altro un egoismo perfetto al punto da parere ragionevole. Quando un martire muore per testimoniare la fede, lo fa per egoismo? 
Quando Gesù è andato in croce lo ha fatto perché era un ostinato?
Ma il mio amico non ammetteva che potesse esistere l’amore.
Non posso negare anch’io che istintivamente ognuno cerchi il proprio appagamento e la propria soddisfazione, ma bisogna distinguere tra primariamente e istintivamente.
Il primo termine appartiene al regno della ragione e quindi delle motivazioni, il secondo al campo del fisico, appunto di quello che non è ancora passato attraverso la riflessione e non ancora riconosciuto come un incentivo per un valore da perseguire al posto di uno stimolo per un ‹non-valore› che è una scoria da buttare.
Possiamo fare un esempio in un altro campo, pur ad esso correlato.
C’è chi lavora istintivamente per tirarne un guadagno e chi lavora invece primariamente per offrire una prestazione che ovviamente sarà poi anche compensata. Il primo può far le cose male se questo gli frutta di più, ma magari rischia di perdere la stima e rimaner disoccupato. Il secondo troverà tanto lavoro da fare quanto ne abbisogna l’intera umanità e si sforzerà di migliorarlo per venire incontro alle richieste di chi chiede la sua opera, con il risultato magari di ottenere anche un maggior compenso.
Ma il vero motivo del nostro fare, quello che alla fin fine prevale e che ne è causa e scopo insieme, sia che noi lo vogliamo o no, è ben altro.
Ogni nostro agire, ogni azione nel mondo, anzi ogni esistenza nel cosmo ruota intorno alla verità ed alla realtà di un Essere al quale è unito ed al medesimo tempo da lui distinto.
In lui il nostro moto diventa vita, trova la sua gioia e la pace, all’infuori di questa unità c’è l’inesistenza, la negazione e la morte.
Per questo felicità e amore non possono mai escludersi a vicenda e chi sceglie l’una ottiene anche l’altro. Ma il termine amore spiega meglio e chiarisce ogni cosa anche il valore del sacrificio che sembra mal accordarsi con la parola felicità.
Non c’è un altro motivo per rinnegare la propria vita se non questo di credere a quell’amico che è morto per testimoniare l’amore.
Per lui l’amore non è solo un motivo, ma più propriamente è il suo essere, mentre per noi il suo essere è il nostro poter divenire.
Ma perché io pubblico anche delle favole ne trascrivo una qui per completare l’argomento.

l’oro e la cera (favola)
C’erano una volta nella bottega di un famoso scultore ...
C’erano una volta due statuette, una raffigurava un omino e l’altra un altro omino. Tutti e due fatti con la stessa cera, di uguale altezza, di uguale e ottima fattura, anche se tanto diversi per le caratteristiche che davano a ciascuno una bellezza loro propria.
Venne l’artista che li aveva modellati, ne scelse uno, lo mise in una forma, lo rivestì di sabbia, e poi al posto della cera vi versò sopra dell’oro fuso.
Povero omino! In men che non si dica si sciolse tutta la sua cera che andò a perdersi per sempre.
L’altro omino che era appunto l’altra statuetta, lo guardò morire un po’ con disprezzo e un po’ con pietà, perché egli invece aveva salvato se stesso e la sua bellezza.
Ma avrebbe ben presto cambiato parere!
Lo scultore, una volta che l’oro si fu solidificato, aprì la forma, buttò via il rivestimento, e trasse fuori una statuetta, anche se tutta sporca, poi la ripulì, la lucidò e finalmente apparve un omino come quello di prima, ma tutto d’oro pien di splendore.
Quanto si vergognò allora il suo compagno di averlo prima commiserato!
Con che occhi si accorgeva di ammirarlo ora!
Così passava il tempo e l’omino d’oro era sempre più bello e più ammirato, mentre quello di cera andava consumandosi diventando sempre più vecchio e più brutto. Bastava un po’ di caldo e già perdeva quelle caratteristiche delle quali si era tanto vantato, fino al punto che non si capiva più nemmeno bene che figura fosse stata.
Così siamo noi: delle statuette di cera, ma l’oro fuso che è il Signore nostro le rende preziose e senza tramonto. (Estratto da ‹Le chiavi del castello›).

11° cap. un Intervento di craniotomia

L’epilessia è uno dei postumi più frequenti dei traumi cranici. Anche un personaggio famoso della bibbia potrebbe aver sofferto una malattia dello genere.
(Contusioni craniche, epilessia post traumatica, lapidazione,soggettivismo, rivelazioni).

Ritorno volentieri con la memoria ai primi passi della mia attività medica. Non ancora abilitato all’esercizio della professione, vestito con un camice bianco, mi trovai in quell’ospedale di provincia di cui ho già parlato, a scrivere le cartelle cliniche ed ad aiutare in sala operatoria. Ricordo come se fosse ieri uno dei primi interventi chirurgici di quel tempo. Si trattava di un’operazione alla testa di un paziente affetto da epilessia post traumatica, causata da un ematoma sotto durale. Non era un intervento difficile ma, per un novellino come me, emozionante: già il fatto di avere davanti agli occhi, sotto i teli verdi del campo operatorio, la testa rapata di un individuo che, se non è la sede della personalità umana è almeno di quegli organi che ci permettono di essere ragionevoli, mi faceva uno strano effetto. Il primario incise la cute, segò la teca ossea, praticò una finestra nella dura madre che riveste il cervello, e mise a nudo una specie di piastra bruno grigiastra che si lasciò asportare subito senza particolari difficoltà e, sotto, comparve la massa cerebrale intatta.
Quando si mettono allo scoperto i visceri addominali, ci si trova davanti ad un ammasso che sembra quasi disordinato e che si muove da tutte le parti, tanto che per arrivare all’organo ammalato si deve spostare e tenere a freno con dei teli chirurgici; in questo caso il quadro era completamente diverso: non posso dimenticare l’emozione che mi assalì nel trovarmi davanti ad un organo tanto importante che rifletteva nel suo splendore la luce delle lampade, era di un biancore intatto che sembrava assicurare fiducia, promettere posatezza composta, pur nell’estrema sua fragilità. L’intervento era in pratica finito, si trattava solo di chiudere e di ricucire.
Non ricordo se il malato guarì dalla sua epilessia, in ogni caso era stata tolta la spina irritativa che la provocava: quel coagulo di sangue uscito da un piccolo vaso in seguito ad un trauma del quale il paziente magari non conservava nemmeno il ricordo, infatti, come spesso accade, tra la ferita e la sintomatologia epilettica abitualmente decorre un tempo libero da sintomi patologici. Il paziente colpito alla testa perde in questi casi la coscienza, poi si riprende come se non fosse accaduto niente di nuovo e, alle volte, bisogna convincerlo che deve farsi ricontrollare, perché egli non crede che vi possano essere lesioni interne con delle conseguenze tanto disastrose. Si tratta del quadro tipico della commozione. La perdita della conoscenza è sempre di breve durata, più è lunga e maggiore è la gravità del caso, che in un primo tempo si risolve spontaneamente senza strascichi, ma alle volte è seguito da sintomi di malessere anche gravi. Se c’è stata una cicatrice in seno al tessuto nervoso o, più raramente, una lesione vasale, come nel caso di quel paziente operato, allora può insorgere, con una frequenza del cinque percento circa dei traumi chiusi e del cinquanta per cento di quelli aperti una sequela di attacchi epilettici, che oggi, tuttavia, si possono controllare con la terapia.
Un episodio analogo potrebbe benissimo essere accaduto ad un personaggio famoso della nostra bibbia, a quel tempo, ma anche oggi, una persona che non sia un medico forse l’avrebbe dimenticato, ma il cronista che lo riferisce – pur come se fosse un semplice inciso – Luca, lo scrittore degli atti degli apostoli, era appunto un medico e, malgrado la sobria esposizione, tradisce la sua competenza in materia.
Non ci resta che leggere quanto riferisce.
 ...A Icònio Paolo e Barnaba entrarono nella sinagoga dei Giudei e al loro annuncio un gran numero di Giudei e di Greci divennero cristiani. I Giudei, che invece erano rimasti ancora increduli, fomentarono una reazione dei pagani contro di loro. I due apostoli rimasero tuttavia a Iconio per un certo tempo e parlavano fiduciosi nel Signore che, nello stesso tempo, li assisteva con il suo aiuto e avvalorava la loro predicazione con la testimonianza delle loro opere. Il loro comportamento, in quell’ambiente pagano, aveva tutti gli aspetti di una testimonianza dell’intervento stesso di Dio. La popolazione della città si divise, schierandosi gli uni dalla parte dei Giudei, gli altri dalla parte degli apostoli; quando poi le cose precipitarono e ci fu un tentativo dei pagani e dei Giudei di sopprimere gli apostoli, allora, Paolo e Barnaba se ne accorsero e fuggirono nascondendosi, sia a Listra, sia a Derbe e nelle città della Licaònia dei dintorni, senza smettere di predicare il vangelo.
C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, sempre presente e attento ai discorso di Paolo. L’apostolo, fissandolo con lo sguardo e notando la sua fede di esser risanato, disse a gran voce: “Alzati diritto in piedi!”. Lo storpio fece un balzo e si mise a camminare. La gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio: “Gli dei sono scesi tra di noi in figura umana!”. E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché più eloquente. Allora il  sacerdote di Zeus, come se si fosse ricordato di essere il responsabile dei servizi liturgici a tutti gli dei noti e ignoti, in quel tempo preposto al tempio di Giove, costruito all’ingresso della città, raccolti in fretta tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Gli apostoli Barnaba e Paolo si precipitarono nella piazza gremita di gente, gridando: “Cittadini, perché questa messa in scena? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità idolatriche per scegliere invece il Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le realtà del nostro mondo. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendo dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendoci il cibo e riempiendo di letizia i nostri cuori”. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio. 
Dopo questi episodi si penserebbe che Paolo e Barnaba avrebbero potuto godere di un riconoscimento ufficiale e di una tranquillità meritata e, 
...invece, giunsero da Antiochia e da Icònio alcuni Giudei, delusi com’erano di non aver potuto partecipare al convito e alla festa comune del sacrificio celebrato dal loro sacerdote, titolare del paese, i quali trassero dalla loro parte l’opinione dei più. In una riunione successiva, presero Paolo a sassate e, credendolo morto, lo trascinarono fuori della città. Allora gli si fecero attorno i fedeli cristiani ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo, senza un riposo necessario dal punto di vista sanitario, partì con Barnaba alla volta di Derbe.
Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di conversioni, i due discepoli ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, rianimando i cristiani ed esortandoli a restare saldi nella fede, avvisandoli come sia necessario sopportare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio. (Atti 14, 1-22).
Paolo dopo l’aggressione non è stato ricoverato in ospedale e non ha avuto il tempo né la possibilità di preoccuparsi per la sua salute; se è stato lapidato non ha avuto certamente un’unica contusione cranica, le persone sottoposte a questo supplizio venivano letteralmente sepolte dalle pietre e, se pareva morto, non l’hanno di certo trasportato con tutti i comodi e gli onori necessari, probabilmente non l’hanno nemmeno messo su un carretto, ma, come dice il testo, ‹trascinato›, tirandolo in qualche modo lungo il selciato della strada che notoriamente allora non era certo uno specchio liscio di asfalto, com’è ai giorni nostri. Paolo era decisamente una persona di una tempra eccezionale, ma ancor più eccezionale era la sua tempra spirituale. In ogni caso il testo come non parla di cure, non dice nemmeno se all’episodio siano sopravvenute altre conseguenze, ma mi sembra troppo sbrigativo semplicemente negarle.
Noi rimaniamo tuttavia perplessi davanti ad un’altra notizia e, questa volta, ce la riferisce Paolo stesso in una lettera, la seconda a noi pervenuta, inviata ai convertiti di Corinto.
 “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne”.
Paolo assicura che la spina nella carne è un inviato speciale, un incaricato di schiaffeggiarmi, mandato apposta perché egli non vada in superbia per i suoi successi. Si può immaginare con quale angoscia egli abbia pregato il Signore di liberarlo da questo spirito persecutorio:
 “Per ben tre volte ho pregato il Signore che allontanasse questa prova da me. Ma egli mi ha risposto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella tua debolezza”. [Paolo aggiunge] Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità fisiche, che sono anche l’occasione per le male lingue di formulare maldicenze e di oltraggi ingiusti: necessità, persecuzioni, angosce sono la mia debolezza; sofferte per Cristo:  sono la mia forza” (2 Corinzi, 7-10).
Cosa intendeva Paolo dicendo: «una spina nella carne» e «un incaricato di schiaffeggiarmi»?
Ogni illazione è permessa ed ogni commentatore si è sbizzarrito a sostenere il suo punto di vista, ma un po’ tutti ammettono un’infermità fisica e, se questa si mette in relazione con la lapidazione sopportata in Asia minore, non è del tutto astruso pensare che si trattasse di una forma di epilessia. Noi abbiamo già visto in altre pagine della bibbia come facilmente gli autori e la mentalità del tempo imputavano proprio al demonio l’essere la causa delle più comuni forme epilettiche e, in questo passo, Paolo parla di Satana che lo schiaffeggiava.
Ma perché il Signore permise un simile trattamento nei riguardi di colui che lo presentava per la prima volta al mondo pagano?
Non sarebbe stato meglio che chi doveva annunciare la salvezza del Redentore non fosse costretto a confessare d’essere egli stesso così poco redento?
Una risposta ce l’ha data Paolo stesso quando ha scritto: «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni». Nella stessa lettera scrive ai fedeli di Corinto: 
 “Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! 
Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 
Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorchè delle mie debolezze” (vedi 2 Corinzi. 12, 1-6). 
Lo stesso Paolo, negli atti degli Apostoli, ci riferisce che quando il Signore lo ha chiamato direttamente sulla strada di Damasco a convertirsi, ma anche quando lo voleva preparare  alla sua missione gli ha parlato in un modo estatico per Paolo, ma per noi misterioso, come anche più tardi farà con altri santi che hanno ricevuto delle grazie speciali e degli incarichi importanti in seno alla chiesa. 
Infatti egli riferisce: 
 quando io in viaggio mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso, abbagliato da una gran luce del cielo, caddi da cavallo e una voce mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, che mi parli?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti”. I miei compagni di viaggio videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: “Che devo fare, Signore?”. E il Signore mi disse: “Alzati e vai a Damasco; là sarai informato di tutto quel che devi fare”…
Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: “Affrettati e fuggi da Gerusalemme, perché non accettano la tua testimonianza”. E io dissi: “Signore, tutti sanno che facevo imprigionare e torturare i cristiani; io non mancavo con quelli che lapidavano Stefano martire”. Allora mi disse: “Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani”. (Atti. 22, 6-10. 17-21).
Ma io oso aggiungere ancora un altro motivo che spiega questa, chiamiamola così, ‹brutta figura›.
Con essa il Signore voleva correggere un errore troppo facile da farsi e troppo difficile da sradicare anche a proposito della religione: quello del ‹soggettivismo›, che il più delle volte si esprime con un ‹secondo me›, altre volte invece, ‹secondo il Tal dei Tali›, che viene incaricato di avvallare il proprio parere e che nel caso dei Corinzi si manifestava in quell’affermare: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Pietro”, “E io di Cristo!”.
Contro questo errore erano sufficienti le esortazioni di Paolo?: 
 Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unità di pensiero e di sentimenti.  Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”.
Quando mai Cristo è stato diviso? 
Forse è stato crocifisso per voi Paolo o il Signore?
Nel nome di chi siete stati battezzati?…. (1 Corinzi 1, 10-13).
Questa predica era convalidata da un’esperienza ben più preziosa e pagata con un più alto prezzo, quello che probabilmente corrispondeva alle fatiche e ai sacrifici di Paolo, dal quale non si può escludere nemmeno la sofferenza di un’eventuale malattia così debilitante. 
Le sue affermazioni in un’altra lettera lasciano intendere come grande fosse la sua pena. Paolo era un grande santo, una personalità unica nella chiesa: come gli abitanti di Iconio lo volevano fare un idolo, così alcuni di Corinto lo avrebbero eletto unico rappresentate del cristianesimo, purtroppo in opposizione ad altri che preferivano leader diversi. Ora la malattia di Paolo era una cura radicale contro il soggettivismo, perché lo faceva diventare un uomo qualunque, colpito da un’infermità, per così dire, senza onore.
Egli stesso ne avrebbe provato le conseguenze e i suoi ammiratori lo avrebbero constatato di persona, perché egli non poteva dominare gli attacchi convulsivi, che sarebbero potuti capitare davanti a tutti, nelle più impreviste circostanze, tanto che concludeva angosciato: 
 …Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me un ordine che mi opprime necessariamente e senza scampo: quando voglio fare il bene, la malattia mi ha già dominato. (Romani 7, 10-21).
Si capisce, allora, meglio come egli soggiunga: 
Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con parole o argomenti razionalistici. Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione… 
Ora, quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi dimostrate semplicemente uomini che pensano alla vecchia maniera?
Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e solamente come il Signore glielo ha concesso.
Tutti possono e devono costruire la chiesa e il Corpo mistico del Signore, ma ciascuno deve stare ben attento su quale fondamento, infatti, non può essere diverso da quello che è già stato gettato e che è Gesù Cristo stesso… (1 Corinzi 2, 1-5. 3, 10-11).
Infatti, se a ben vedere, non ci sono tra voi molti professori, né molti dottori, e nemmeno molte personalità politiche, ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a niente le cose che sembrano e non sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. È per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione…
Quindi nessuno cerchi la sua gloria o un riconoscimento umano, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Pietro, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. (1 Corinzi 1, 26-30. 3, 21-23).
Siamo in questo modo arrivati al nodo cruciale del problema: se Paolo era ammalato si trattava di una conseguenza della lapidazione di coloro che erano stati istigati dal Diavolo, oppure di una permissione del Signore?
Ebbene, se il risultato era di togliere Paolo da Paolo e sostituire in lui Gesù, se era ancora di togliere il soggettivismo dei Corinzi per farli diventare ‹altri Cristo›, allora benedetta la malattia! E dobbiamo ammetterlo anche noi, malgrado non avremmo di certo il coraggio di Paolo per saperla sopportare, sapendo, tra l’altro, come a quel tempo fosse incurabile. Nessun arricchimento è così prezioso come quello donato dal dolore: lo stanno scoprendo, perfino ai giorni nostri, gli psicologi, che sono così restii ad ammettere una verità del genere. In ogni caso, il nostro malato non se n’è servito come scusa per cedere al pessimismo ed alla rassegnazione.
A questo punto le mie considerazioni rischiano di diventare illazioni, ma avendo fatto trenta, manca ormai poco al trentuno.
Leggiamo un altro passo delle lettere di Paolo.
 So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, secondo la mia ardente attesa e speranza che in nulla rimarrò confuso; perché la mia piena fiducia è quella di sempre: che Cristo, anche ora, sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.
Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 
Ma se il vivere nella malattia equivale a lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono costretto, ma non so cosa  scegliere tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; dall’altra, che io debba rimanere per voi, il che è più necessario. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo… (Filippesi 1, 19-26).
Ed egli è rimasto ancora a lungo a Roma, ma di lui la storia e la tradizione sembrano improvvisamente ammutolite.
Qualcuno ha supposto che Paolo sia andato persino in Spagna per portare la buona novella, ma forse la mancanza di notizie certe a questo riguardo è di per sé la notizia più chiarificatrice che ci possa essere, se si dovesse spiegare con un aggravamento del suo ipotetico male.
Con il passare degli anni non è raro che l’epilessia diventi più grave e gli attacchi meno rari nel tempo. Forse Paolo era costretto a ritirarsi e a non comparire più in pubblico, o perlomeno, non avrebbe potuto fare lunghi viaggi in condizioni stressanti, se si pensa che a quel tempo viaggiare non era sempre facile, e che aveva già fatto diverse volte naufragio, tanto che egli stesso era sorpreso di non aver perso la vita in quei frangenti. Si può anche supporre che nessuno volesse violare la sua riservatezza, propalando notizie inopportune che avrebbero potuto diventare facilmente delle dicerie.
Possiamo immaginarci la sua situazione come quella di un prigioniero incatenato ai ceppi della malattia, o meglio, più propriamente come quella di un santo in contemplazione ed in preghiera, non importa in quali condizioni fisiche, con il pensiero ed il cuore rivolto sempre a quel cielo che aveva visto all’inizio della sua missione con gli occhi dell’anima, sperimentando con estrema realtà quanto la vita sia una prova, che egli continuava ad affrontare con tutto il suo impegno per portarla a quel definitivo compimento che apre le porte dell’eternità. 
  

12. cap. la Risurrezione

Attestare la verità è prima un modo di vivere e poi di parlare. Questo vale anche per i fenomeni che riguardano la realtà fisica e ancor maggiormente per quelli connessi con il messaggio di Gesù.
(Resurrezione, testimonianza, verità, il ricco epulone).

Un medico non può adottare la scusa che è medico per non prendere una posizione davanti all’annuncio della resurrezione di Gesù; mentre egli assiste ogni giorno la vita in uno stato di precarietà, con questo evento, essa gli viene presentata nel massimo del suo dispiegarsi. Certamente ai tempi di Gesù nessuno è andato a sentire con lo stetoscopio o a vedere con l’elettrocardiogramma se il suo cuore avesse ripreso i battiti normali. Ma se egli stesso aveva mangiato con gli apostoli e detto a Tommaso di toccare le ferite riportate sulla croce, il suo ritorno alla vita non avrebbe bisogno di altri attestati.
Quale sarà quindi il giudizio di un medico?
Anche qui, come quello di quel contadino di cui ho già parlato a proposito dell’epilettico del vangelo che non aveva mai letto libri di terapia.
Eppure non proprio del tutto come lui. Infatti, almeno il contadino ha un certo presentimento di una vita che può durare oltre la morte, infatti, tutti i popoli della terra hanno onorato i morti, non solo nel ricordo della loro vita passata, ma anche nella speranza di una futura. Un uomo di studio, invece, molte volte ha una certa riluttanza a basarsi su credenze popolari e quindi gli manca questa base intuitiva. Eppure ha frequentato il liceo, ha studiato un po’ di filosofia, non è del tutto privo di qualche prova ragionevole, per quanto discussa, che gli fa ammettere la possibilità di una vita post mortem.
Ha più argomenti lui o la persona che non ha studiato?
Il mondo colto ebraico dei tempi di Gesù si divideva tra coloro che credevano nella risurrezione dei morti e chi la negava. Il mondo di oggi non è dissimile da quello di allora, alcuni si dicono certi di essa, altri la credono una superstizione.
Cosa apporta di nuovo alla nostra considerazione su questo argomento l’annuncio degli apostoli e la predicazione della chiesa?
Almeno altri due elementi.
Il primo che la resurrezione di Gesù è avvenuta con il corpo, anche se un corpo glorioso che poteva passare tra le porte chiuse del cenacolo.
Il secondo che si trattava di una testimonianza. Gli apostoli si dichiaravano testimoni di un fatto fisico che non poggiava quindi sui ragionamenti dei filosofi o sulle intuizioni della gente comune, ma sulla realtà di una esperienza.
Ma un ancora un terzo elemento veniva presentato con la loro predicazione. Essi dicevano: “Quel Gesù che avete ucciso appendendolo sulla croce...”. Il loro annuncio diventava così, nello stesso tempo, un atto di accusa per i farisei. Loro, che avevano ucciso Gesù, si trovavano nella necessità di difendersi, contrastando queste asserzioni e questi assertori; anche noi, qualche volta, ci troviamo nella loro posizione, siamo incolpati in un certo senso di atteggiamenti per qualche motivo simili ai loro.
Quando Pietro predica nel tempio di Gerusalemme viene subito arrestato dalle guardie, ma molti degli uditori credono alle sue parole.
Certamente ci sarà stato almeno qualcuno che sarà scappato via intimorito dai soldati e qualcun altro che non si sarà aggiunto ai nuovi fedeli. Altri ancora, pur trovandosi nel tempio, saranno rimasti indifferenti.
Insomma quei tempi non erano diversi dai nostri.
Ebbene se può esser valida la testimonianza degli apostoli, lo è ancor di più quella di Gesù. Tutta la sua vita e perfino la sua morte sono una testimonianza che egli è la verità stessa. Non si può credere a lui quando dice alcune cose e rimanere nel dubbio davanti ad altre, come quando attesta la sua resurrezione.
La stessa cosa vale per quanto hanno detto i suoi discepoli. Non ci si può attenere a parte di quello che ci hanno tramandato, come se avessero detto la verità e pensare che poi hanno aggiunto per conto loro delle bugie.
Chi è veritiero lo è sempre perché dice le cose come stanno.
Chi si abitua a dire le cose come egli crede che sia conveniente, finisce con il riferirle solo come sembrano, anche se questo è falso.
Il primo riferisce i fatti anche se non li capisce, il secondo solo se vanno d’accordo con il suo modo di vedere. E se chi ama il vero è più obbiettivo di chi ama la convenienza è altrettanto certo che chi dice le bugie non crede tanto presto agli altri, nemmeno a quelli che non le dicono mai. Infatti è più facile credere che chi si è abituato a ritener vero ciò che gli conviene pensi che anche gli altri si lasciano condurre nelle loro asserzioni dalla convenienza, mentre è più difficile ammettere che chi è disinteressato e imparziale dica le bugie.
La stessa vita di Gesù e degli apostoli, il loro comportamento lontano da ogni tornaconto e da ogni compromesso diventano allora la più grande testimonianza della resurrezione e del suo annuncio. In questo senso negare la resurrezione equivale a negare tutto il messaggio e tutto il comportamento di Gesù.
Ma nel parlare di essa, mi viene anche alla mente la preghiera del ricco epulone rivolta ad Abramo: “Manda Lazzaro dal paradiso ai miei fratelli ad avvisarli di non essere egoisti, per non finire all’inferno come me” (Lc. 16, 19-31). 
Gesù ha voluto esaudire quella preghiera e, sostituendosi a Lazzaro, ha mandato addirittura se stesso risorto da quei cinque fratelli di ogni tempo che si perdono ad appagare i propri piaceri?
Se così fosse, allora le parole di Abramo: “Non ascolterebbero neppure uno che risorge dai morti”, non risulterebbero un rifiuto, quanto piuttosto una tremenda profezia contro di loro.

Rileggendo questi appunti così modesti a proposito di un evento così importante, sono ritornato, particolarmente nel corso di quest’anno, a cercare non solo delle testimonianze ma se possibile anche delle prove razionali a proposito.
Una prova in questo senso riguarda tutto il problema metafisico, ovverosia non solo la vita eterna, ma ancor prima e sopratutto l’esistenza di Dio. Ebbene a questo proposito ogni uomo si costruisce le sue convinzioni fin che vive e nemmeno io mi stupisco di avere quelle mie che, magari sono diverse da quelle altrui.
Ebbene, almeno provvisoriamente e dal mio punto di vista, la prova razionale dell’esistenza di Dio consiste nel fatto che nessun filosofo abbia mai negata codesta esistenza. Questa affermazione può risultare sorprendente per un professore di filosofia, che sa benissimo che ci sono molti filosofi atei, ma io penso che al giorno d’oggi ogni uomo sorride divertito se fosse richiesto di credere agli Dei pagani com’erano Giove, Saturno, Mercurio o a tanti altri consimili, ma nessuno mette in dubbio che ogni uomo, al posto di sorridere, crede a chi comanda e crede a chi ha autorità, come se fosse un dio perché egli riconosce questo dio e non lo ha mai messo in dubbio per paura di finir male i suoi giorni e, magari di essere da lui eliminato fisicamente. Anche i filosofi più atei hanno ammesso che per non cadere nel caos, ci debba essere un re o una sorta di padreterno che castiga le teste matte e nessuno di loro lo ha mai messo in dubbio. Qualsiasi persona in pratica crede con una fede cieca nel nostro mondo, che si traduce nella prassi quotidiana a quella stessa fede che non si permette mai di mettere in dubbio, per esempio la validità delle leggi stradali, così come nessun bambino mette in dubbio le parole della madre. Il fatto è che, non so per quale assurdo equivoco, si è venuta confondendo la virtù della fede nei comandi della mamma e in quelli della polizia con quell’altra fede nei comandi di chi regge il mondo intero e, tutto questo, anche se nessun uomo non voglia mai tentare di essere un ‹non uomo› per fare una supposta volontà propria al posto di obbedire all’ordine naturale. Se si vedono fedi diverse si possono vedere anche degli dei diversi, ma proprio per questo si ammettono gli dei e si approvano e si obbediscono, ovverosia si riconoscono degni di fede, almeno quanto basta per non mettere in dubbio la fede in quell’uomo che è ogni ateo quando in pratica afferma nella sua vita quotidiana che all’infuori di lui non c’è un altro dio.
Tutto questo argomento merita una trattazione diversa e più approfondita, tuttavia nei limiti di queste pagine basta riconoscere che ogni età razionale ha i suoi dei e ogni persona che ragiona rinuncia a questo o a quel dio, per essere libero di scegliere, meditare e onorare l’unico dio che egli conosce, anche se talvolta, malauguratamente, è solamente la propria persona deificata fino all’esasperazione.
Dopo queste premesse, non si può quindi nemmeno evitare di chiederci razionalmente in che cosa consiste la risurrezione.

Una domanda del genere è ammissibile, d’altra parte una risposta non è facile, tanto più che il Signore non l’ha spiegata con dei ragionamenti, sebbene l’abbia insegnata con una vita che non meritava la morte e con una resurrezione che rappresentava una promessa di vita anche per chi avrebbe meritato la morte.

C’è un episodio del Vangelo a cui si possono riannodare questi pensieri: è quello della resurrezione di Lazzaro. In quell’occasione, Marta, la sorella del defunto, si rivolge a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Il Signore le risponde: “Tuo fratello risusciterà”. Effettivamente poco dopo richiama in vita Lazzaro, ma Marta prima di questo evento straordinario e malgrado la sua implicita richiesta – qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà, quindi anche una resurrezione illico et immediate – non sembra aspettarsi un ritorno alla vita istantaneo, infatti aggiunge: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”, e Gesù non la contraddice, anzi conferma la sua fede in una resurrezione finale e eterna, non legata alla circostanza del momento, con le parole: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”. (Confronta Gv. 11, 17-27). In questo modo Gesù non eviterà di fare il miracolo di prolungare la vita terrena di Lazzaro, ma implicitamente spiega a Marta e a noi tutti che c’è una vita eterna che equivale a essere ‹altri Gesù›, in pratica che dipende da una partecipazione incontrovertibile con la sua stessa vita.

Alla domanda, quindi, in che cosa consiste la nostra resurrezione, si può rispondere molto semplicemente che consisterà nel continuare a vivere quella vita di tralci sempre, e sempre meglio, uniti all’unica vite che è Gesù stesso. In questo senso continuerà a morire quella pseudo-vita che è la nostra esistenza attaccata alle nullità del momento che potrà, invece, essere finalmente libera di affermarsi e realizzarsi in modo completo nell’unità con il Signore. In altre parole se la vita è un bene e la morte è un male, ovverosia una mancanza di bene, deve morire questa morte e questa mancanza, per poterci automaticamente trovare nella possibilità concreta della pienezza dell’unica vita che non muore, almeno per quel poco che l’abbiamo già assunta, ma ben di più per quel tanto che riempirà il nostro vuoto, una volta che ci siamo accorti in che baratro esso consisteva di fatto prima della morte fisica. La risurrezione rappresenta una continuata riconferma dell’amore di Dio che tra tutti i suoi doni non ha tralasciato di farci il più grande che è quello della ‹remissione dei peccati›, che consiste nel trarre un bene perfino dal male o, in altre parole nel ri-creare un esistere perfino dove mancava. Respingere il suo dono significa privarsi della vita, ovverosia morire; in altre parole, respingere la partecipazione alla vita di Dio significa piombare nel nulla assoluto e nella dimenticanza eterna. Il male, infatti, è mancanza di bene e la nullità assoluta è la mancanza del Sommo Bene, che per l’uomo equivale a una mancanza di partecipazione di creatura con il suo creatore. In questo modo, possiamo comprendere in parte, e capiremo poi del tutto, il vero ‹Essere› (con l’iniziale maiuscola), perché il nostro stesso ‹esistere› unito a quello del Signore può diventare continuamente è sarà per sempre l’eterna risposta adeguata che spiega in che cosa consiste la vera vita.

Da tutte queste riflessioni appare evidente che il vero problema non consiste in cosa o come sia la risurrezione, ma nel realizzare la vita del Signore attimo dopo attimo per partecipazione, ovvero essere altri tranci della vite o, con un’altra dizione, essere ‹altri-Cristo›. Non si tratta di un problema teorico, ma molto pratico. Come s’impara a guidare un’automobile sedendosi al volante, così s’impara a essere ‹altri-Cristo› cominciando a esserlo, per esempio, prima di una pur piccola azione o decisione chiedersi di proposito: “Cosa avrebbe fatto Gesù al mio posto?”, per trarne le conseguenze. Senza esperienza non c’è ragione e senza uno scopo non s’inizia una esperienza, in questo senso qualsiasi rinuncia alla risurrezione consiste nell’aver fede nella morte, senza provare mai una volta a risorgere dopo una piccola morte che inesorabilmente incombe sempre in ogni attimo della nostra esistenza.

Ebbene, se questa è la posizione teorica per affrontare il problema della risurrezione, dal punto di vista pratico ce n’è un altra molto più semplice che è quella non tanto di risorgere, ma di morire, perché la risurrezione viene poi da sé, tanto più che, mentre per risorgere dobbiamo anche volerlo e non solo accettarlo, invece per morire dobbiamo accettarlo senza nemmeno volerlo.
Cosa significa un discorso del genere?
Semplicemente che dobbiamo subito superare gli stadi del nostro sviluppo fisico e intellettuale insieme ad un deciso esercizio della nostra vita spirituale – che non ha bisogno di nessun progresso, ma solamente di un continuo adempimento – per vivere sempre più e sempre più intensamente.
Noi ci siamo soffermati più volte in occasione di altri scritti su questo argomento; qui basta ricordare che dopo lo stadio della razionalità figurativa del bambino per poter entrare in quella concettuale del fanciullo, è necessario patire la morte della immaginazione fabulistica, così come dopo la fanciullezza è solamente per via della de-erotizzazione che si accede al mondo degli Ideali e, per finire, dobbiamo preparaci alla morte più definitiva con la de-possessione e con il disfacimento persino fisico delle nostre possibilità, per acquisire una visione della vita, liberata dal temporale e dal locale. Una persona anziana che perde necessariamente ogni cosa, nell’accettare questa esperienza compie un diuturno esercizio di de-possessione per arrivare senza terra ad abitare nel regno dei cieli. De-fabulismo, de-erotizzazione e de-possessione sono le occasioni semplici e evidenti per preparaci alla risurrezione e il loro superamento è la miglior prova di una continua rinascita e dell’esistenza della vita eterna. 
Meditando questi argomenti non ci si ferma a far questioni e non si perde tempo inutilmente, anzi si patiscono di meno le pene necessarie che alle volte sembrano insormontabili. Un mio collega era convinto che l’eutanasia sia la morte più dolce e più desiderabile, ebbene può darsi che sia vero, almeno per lui, ma è anche la più irresponsabile e la più irrazionale possibile. Lo si capisce meglio rileggendo la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone. Il vangelo non descrive il loro decesso che rimane un mistero personale e privato, ma ne riporta le conseguenze: Lazzaro si trova in cielo con gli angeli e i santi, in un mondo amico, tra amici, sotto lo sguardo di un Padre, l’epulone si trova invece solo, in mezzo ai nemici, senza libertà e senza commiserazione: la sua richiesta di aiuto aumenta invece le sue delusioni e le sue pene. 
La miglior prova della risurrezione sta nella costruzione della famiglia umana e la miglior prova della morte continua, sta in ogni lite e in ogni contesa che, cominciate, non finiscono mai. Chi gode dei danni e del male che fa è già morto, chi gode del bene che fa è già sulla strada di una continua risurrezione.



13° cap. l’Elezione del popolo Ebreo

Si può affermare che Dio ha prediletto il popolo Ebreo?
Come mai Egli, che è giusto e quindi imparziale, ama un popolo più di un altro?

Qualche inverno fa – allora (1999) vivevo ad Augsburg – prima di Natale, non riuscivo a mettere da parte la questione della elezione del popolo Ebreo.
Come mai Dio, che è giusto e quindi imparziale, ama un popolo più di un altro?
Ebbene, un giorno, all’uscita della chiesa di Sant’Antonio – rivedo la scena come se fosse oggi – mi parve di aver trovato la soluzione, proprio mentre passavano due giovani ebrei con il tipico copricapo che li distingueva dagli altri. Mi avvicinai subito a loro per chiedere come avrei potuto parlare con il rabbino che, a non farlo apposta, era il padre di uno dei due, per poter confrontare con lui le mie teorie.
Così per prepararmi al colloquio e per mettere giù qualcosa di scritto, tanto per uscir dal vago, ricordandomi di una mia vecchia compagna d’università, imbastii una lettera finta, che avrebbe potuto spiegare meglio il mio pensiero, più di tante discussioni e, quando incontrai il rabbino gliela presentai, per introdurre il mio parlare.
Quegli la lesse fino in fondo, alzò lo sguardo verso di me, lo riabbassò sulla lettera, si fermò a pensare, la rilesse di nuovo, quindi la piegò in quattro e se la mise in tasca, poi con un benevolo sorriso e con un gentile saluto mi congedò senza spiccicare commento.
Io andai via riflettendo sulla mia questione e così dicevo tra me e me: "Pensandoci bene, una elezione non ne esclude altre". Infatti l’affettività è sempre personale: il popolo eletto è stato veramente scelto, ma non nel senso che è il primo, come se gli altri fossero stati solo secondi, bensì che è stato amato personalmente – come personalmente, oppure realmente, ma sempre in un modo divino, ogni creatura è amata da Dio – e non genericamente ed alla rinfusa o, per così dire, in un modo standard e senza distinzione. 
Ora sarà difficile che Sant’Antonio mi faccia trovare di nuovo numerosi figli di rabbini davanti alle porte delle sue chiese, eppure quando lessi la stessa lettera, in un’altra occasione, ad un famoso teologo cattolico, egli la giudicò un’idea geniale, così per non perderla per strada la ricopio qui, caso mai qualcuno se ne volesse servire. Se poi chi la leggerà vi troverà una soluzione al problema dell’elezione del popolo Ebreo, penso che rimarrà contento come lo sono stato io, accorgendosi che, alla fin fine, il Signore ha un numero talmente infinito di predilezioni possibili per tutti i popoli della terra, che non è assurdo pensare che non ne abbia una anche per ciascuno di noi.
Siamo tutti in attesa.
Permetta che mi rivolga a lei (al rabbino cui mi ero presentato) con una istanza, alla quale, a mo’ di spiegazione, devo far precedere l’esposizione di un ricordo personale.
Io avevo una compagna di scuola che era ebrea e avrei voluto fare a lei gli auguri di Natale, come si facevano a tutti gli altri, ma non sapevo come.
Oggi, invece le scriverei così.

Carissima E.
Tra poco è Natale e i cristiani celebrano la loro festa con gioia.
Ho pensato se ci fosse un modo per fare gli auguri anche a te.
Sono andato indietro nei tempi è mi sono fermato a considerare l’elezione del popolo Ebreo.
Alle volte le circostanze ed i ragionamenti umani ce la fanno apparire meno importante di quello che effet-tivamente essa è, sia perché la mettiamo a confronto con il destino degli altri popoli, sia per un certo sentimento di invidia, mal celato.
Ma nessuno di noi, credo, può capire del tutto la sua importanza.
Essa è una predilezione del Cielo, una grazia speciale, che non può essere diminuita con dei paragoni. Rappresenta una Sua scelta che si deve considerare in ordine alla venuta del Messia e, attraverso di essa, una atto del suo amore per tutta l’umanità.
Anche se, come cristiano, io credo che questo sia già avvenuto, tuttavia il compimento messianico in me e nel mondo è ben lontano dall’essere completato.
Gli Ebrei anche oggi con la loro elezione sono la testimonianza viva della promessa, che questo avverrà in modo definitivo e perfetto, loro danno voce alla preghiera dell’umanità, che si ripete nei secoli, affinché possa adempiersi in modo definitivo e completo.
In questo senso si capisce anche l’immane sofferenza di un popolo che attende una giustizia inappagabile, che mai può essere soddisfatta da qualsiasi indennizzo, se non con lo sbocciare del Virgulto di Davide, e che rappresenta le ansie di ciascun uomo e di tutti i popoli della terra, anche oggi.
Ecco, in questo senso, mi sembra bello vivere nella speranza dell’attesa e poter gioire nella certezza della promessa con i miei amici Ebrei, e poter fare a te, e per mezzo tuo a loro, i miei auguri, proprio in questo tempo, che sembra così adatto per farci aspettare il Messia.
Ti prego di accettare i miei sentimenti con benevolenza.

Fin qui la lettera, ma non potrebbe essa rappresentare una premessa per una maggiore comprensione tra i membri delle due religioni?
Infatti, mentre oggi tra i credenti di fedi diverse si fa strada la necessità di una sorta di intesa unitaria, dall’altra probabilmente ci saranno sempre modi diversi per adorare l’Altissimo, ma quello che forse è più importante non è tanto come noi andremo da Lui, quanto non impedirGli di venire a noi tutti, di arrivare a tutte le genti, erigendo muri di divisione tra i fratelli di un’unica famiglia.
Se lei pensa che questi pensieri meritino una certa diffusione, esprimendo, anche solo con il silenzio, il suo consenso, mi terrò autorizzato a parteciparli anche ai miei amici della sua religione.

Per concludere: poiché il rabbino stette zitto, io mi ritenni autorizzato...


SOMMARIO

INTRODUZIONE

IGIENE
Servizi igienici pubblici, protezione dell'ambiente, 
abitudini e tradizioni dei popoli della bibbia.
(Rifiuti e scorie industriali, cloaca, acqua potabile, abluzioni, inquinamento atmosferico, popolazione, escrementi, riscaldamento).

ANCORA sull’IGIENE
La religione, idea forza a servizio dell’uomo, anche nel campo dell’igiene, senza nemmeno che egli ne sia pienamente cosciente.
(Morte, sepoltura, prostituzione, carne suina, impurità legale, Tobi).

INFESTAZIONI E INFEZIONI
Gli ebrei vivendo in un ambiente più povero e più contaminato ebbero occasione di immunizzarsi verso l’epidemia che colpì a morte anche il primogenito del faraone?
(Topi, peste, Mosè, le piaghe dell’Egitto)

l’ASSISTENZA DEL MALATO
Con che disposizione assistere il malato? Gli amici di Giobbe non sanno farsi uno con la sua situazione. Proprio egli, invece, che avrebbe bisogno di aiuto, una volta superata la prova, è ritenuto degno di soccorrerli nel loro bisogno.
(Malattia, assistenza sociale, spese mediche, merito, castigo).

l’EPILETTICO DEL VANGELO
I rimedi che influiscono sulla salute dello spirito possono essere efficaci anche per guarire le malattie e altrettanto forse si può dire che le medicine possono aiutare lo spirito ad essere più recettivo nei riguardi del bene.
(Depressione, ossessione, epilessia, contagio, colpa, eziologia).

INFORTUNI sul LAVORO
Gli infortuni sul lavoro rimandavano alle responsabilità penali e civile degli addetti.
(Aggressioni di animali, casistica, manovalanza, rapporti sociali, giudizi sugli infortuni).

GIUDA
Giuda, per certi versi sembra un infiltrato. Il paragone con una medicina molto usata in anestesia ne mette in evidenza alcune sue caratteristiche.
(Curaro, farmacodinamica, infiltrato, sabotaggio, mediatore chimico, anestesia, respiratore, acetilcolina, penicillina, schemi di pensiero, farisei, ipocrisia).
  
il RAPPORTO MEDICO - MALATO
il rapporto medico - malato alle volte è improntato a sentimenti misti di diffidenza e di stima, di odio - amore istintivi.
(Spese farmaceutiche, placebo, stregoneria, rimedi naturali, guarigione).

una PAZZIA ATAVICA
Salute, vitalità, socialità sono per l’uomo limitate. Il loro esaurirsi è fonte di malattia.
(Salute, esaurimento, vecchiaia, pazzia, colpa, responsabilità, divisione, guerra).

il SANGUE 
La perdita del sangue equivaleva, per gli Ebrei, alla perdita della vita. L’annuncio della comunione con il sangue di Cristo risultava orripilante alle loro orecchie.
(Ferite, emorragia, trasfusione, motivazioni primarie e istintive, morte, vita).
l’oro e la cera (favola)

un INTERVENTO di CRANIOTOMIA
L’epilessia è uno dei postumi più frequenti dei traumi cranici. Anche un personaggio famoso della bibbia potrebbe aver sofferto una malattia dello genere.
(Contusioni craniche, epilessia post traumatica, lapidazione, soggettivismo, rivelazioni).

la RESURREZIONE
Attestare la verità è prima un modo di vivere e poi di parlare. Questo vale soprattutto per il messaggio di Gesù.
(Resurrezione, testimonianza, verità, il ricco epulone).

l’ELEZIONEdel POPOLO EBREO
Si può affermare che Dio ha prediletto il popolo Ebreo?
Come mai Egli, che è giusto e quindi imparziale, ama un popolo più di un altro?