I° UN FILOSOFO LEGGE LA BIBBIA PRIMA PARTE



Giuseppe Tradigo
Un fiosofo legge la bibbia
I° PARTE


vedi sommario a fondo pagina 

Introduzione

Quel che oggi si trova facilmente sono i libri ed i discorsi, quel che si cerca più difficilmente è di essere ascoltati e, alle volte, sembra impossibile qualsiasi colloquio: è già tanto se si può sentire dagli altri quello che si avrebbe voluto invece dire da sé.
Ma non è questo cercare e trovare quel che rende possibile il colloquio?
Non è forse lo stesso desiderio di chi ha scritto questo opuscolo?
E non corrisponde a quello del lettore?
Se l’intento di un colloquio è riuscito, grazie all’interessamento reciproco, ringraziamoci a vicenda.

L’argomento trattato può somigliare ad un commento del testo biblico, più propriamente si tratta di una lettura per acquisire un aumento di conoscenze razionali, tanto che si è cercato di evitare una interpretazione soggettiva, per attenersi strettamente a ciò che si sarebbe potuto ‹imparare› dalla sapienza degli antichi.

Lo spunto del testo è occasionale: l’autore ha avuto la fortuna di leggere i libri di Chiara Lubich e ne ha tratto una certa interpretazione filosofica che lo ha aiutato a capire meglio il messaggio della Bibbia che gli è apparsa nuova. Da qui il desiderio di comunicarlo nei limiti delle sue possibilità.

Se il suo tentativo è riuscito, lo potrà dire solamente il benevolo lettore.

Gli argomenti della Bibbia

Una Bibbia senza prevenzioni

La Bibbia tratta del rapporto di Dio con gli uomini. Ammette, quindi, l’esistenza di Dio che per alcuni filosofi rimane una supposizione non dimostrata. Non solo questo, la Bibbia si presenta ancora come una comunicazione di Dio agli uomini. Anche in questo caso nemmeno tutti quei filosofi che credono nell’esistenza di Dio ammettono che egli abbia rivolto agli uomini un discorso diretto o almeno per bocca dei profeti.
Come può un filosofo leggere la Bibbia senza prevenzioni culturali, senza nemmeno quelle che prevedono l’ipotesi dell’esistenza di Dio?
Di per sé anche un filosofo che non ammette che la Bibbia sia una scrittura dettata da Dio, non ha alcun dubbio che sia estesa dagli uomini che l’hanno scritta. Un filosofo quindi può leggerla per informarsi di come e in che senso Dio era compreso dagli uomini che hanno tramandato il loro pensiero e, di conseguenza, venire a conoscenza di quelle caratteristiche e prerogative che, per esempio, Abramo, Giacobbe e Mosè attribuivano al loro Dio, così come la Bibbia le descrive.
In pratica, ammettiamo che questi famosi personaggi avessero un modo di considerare Dio con la ragione, allora vediamo quali sono le loro ‹ragioni›, se poi aumenteranno la nostra filosofia, non sarà stato tempo perso averle esaminate, ma anche nel caso non abbiano apportato conoscenze nuove, avremo avuto almeno la possibilità di confrontarle con le nostre, senza per questo esserci inimicati coloro che non hanno avuto le nostre intenzioni. Anzi, se la comunicazione biblica riguarda un persona che è Dio, allora conosceremo le sue prerogative, se invece parla di un uomo come se fosse dio, potremo almeno conoscere un giudizio ed una stima dell’uomo da loro descritto probabilmente diversa da quella accettata comunemente, al punto di essere confusa con quella di un dio. Del resto non sarebbe un male cercare la perfezione di un uomo esaminando come gli antichi la sognavano e come anche noi potremmo quasi immaginarcela come un ideale, pur difficile da raggiungere.

Con questa premessa che ammette tutto e non esclude niente, che ammette perfino l’esistenza di Dio e la fede di chi legge la Bibbia, mi pare anche di aver evitato il rischio di considerare un discorso rivoltomi da un mio simile, pur vissuto in tempi lontani e quasi prima della storia, una pura fantasia senza alcun significato, ancora prima di averlo capito.
In altre parole, si tratta di una lettura senza preconcetti e con il massimo delle buone intenzioni, il resto verrà da sé, come viene da sé la costruzione di ogni conoscenza di cose nuove che abbia queste premesse.

Abramo

Dal momento che abbiamo nominato Abramo cominciamo a leggere la Bibbia nelle pagine che trattano di questo personaggio.
Per comprendere meglio la figura e la persona di Abramo la paragoniamo a quella di Adamo e nello stesso tempo mettiamo a confronto la comprensione di Dio da parte dell’uno e dell’altro; in questo modo avremo anche la possibilità di capire meglio l’uomo come lo vede il Dio di Adamo e quell’altro uomo visto dal Dio di Abramo. Oltre a questi argomenti principali la Bibbia si sofferma a descrivere il mondo e la natura dei due personaggi in considerazione.

Il Dio di Adamo e l’Adamo di Dio

Il rapporto tra l’uomo-Adamo e Dio è spontaneo come quello di un bambino con il proprio padre, come se non fosse voluto e scelto, ma accettato confidenzialmente. In un certo senso è senza ragione e senza necessità. Adamo sa di aver ricevuto tutto da Dio e soprattutto di godere della sua amicizia. Quando Dio andava da Adamo e lo chiamava egli accorreva volentieri per parlare con lui. Sapeva anche che qualcosa gli era proibito, ma accettava anche la proibizione come un segno di amicizia. Per lui la vita consisteva in una passeggiata nel paradiso terrestre e l’albero proibito non rappresentava una preoccupazione. Il rapporto di Adamo con Dio è retto dalla fiducia più che dalla ragione e quello di Dio con Adamo dalla semplicità dove le cose hanno un loro ordine senza spiegazione e sempre per fiducia. Quando Adamo mangia il frutto proibito rompe questo rapporto e si trova con un padre che gli chiede le ragioni del suo comportamento. La risposta consiste in una scusa banale e non in un finalismo razionale. La stessa natura perde per il primo uomo l’aspetto che aveva di semplicità e di sudditanza per acquistare quello oscuro e difficile, proprio di ciò che è necessario ma incomprensibile.
Senza la fiducia, Adamo ha perso l’amicizia di Dio e Dio non può più affidargli i suoi doni. L’uomo dovrà acquistarli pagando lo scotto di una fatica e il contributo di un lavoro; diventerà così una specie di salariato, in ogni caso non più un amico di Dio: userà ancora dei suoi beni, ma ne perderà la con-proprietà per sempre. Con la perdita dell’amicizia ha perso anche la sua vocazione non è più il signore del creato e non è più il figlio di quel Dio che era Padre; in verità Dio non rinnega la sua creatura, ma Il ‹creato-ceatura› non lo ha riconosciuto. Dio è sempre padre per Adamo, ma Adamo non si sente più suo figlio.
In un certo senso si tratta della descrizione dell’età bambina della storia umana. L’uomo-Adamo possiede una razionalità spontanea, una affettività semplice, ma non esercitata e dimostrata e, ancor meno, comprovata, ma ha già una natura con tutta quella potenzialità che sarà la causa di tutta la sua storia dai primordi fino ai nostri giorni.
Il Dio di Adamo è il Creatore accettato nel bene, subìto nel male. Egli chiede alla sua creatura un minimo di partecipazione e un ancor più piccolo segno di amicizia quello dell’obbedienza ad un povero divieto. È l’obbedienza l’espressione pratica della fiducia che informa il rapporto del padre con il figlio ed è la disobbedienza che lo incrina e, sembra, quasi irrimediabilmente.

Il Dio di Abramo e l’Abramo di Dio

Il rapporto tra l’uomo-Abramo e Dio è voluto, forse non è ancora scelto, ma non è più solamente spontaneo. Dalla spontaneità dell’età bambina si passa alla adesione del giovanetto alle proposte del padre. Si tratta di un’alleanza. Dio chiama l’uomo ad essere partecipe dei suoi disegni. Abramo non li comprende forse del tutto, ma la sua fiducia lo rende consapevole della chiamata: egli è il capostipite di una nuova generazione di un popolo senza limiti e senza costrizioni.
Che Abramo non capisca del tutto i disegni di Dio non è una nostra presunzione, infatti, la storia dell’umanità fino ai nostri giorni ci pone in una situazione migliore per capirli più facilmente per quel che ci è possibile. In tutta la descrizione del rapporto di Abramo con Dio campeggia la promessa di una discendenza innumerevole di popoli e di regni senza numero. Raffiguriamoci questo uomo in terra straniera, un po’ come gli zingari di oggi che non godono di una grande stima nei paesi che percorrono, sempre in pericolo di essere sopraffatto dai potenti e perfino dalle bande irregolari, senza un amico, che si deve separare anche dal fratello, l’unico che lo aveva seguito nel suo peregrinare, con una moglie che è quasi più un pericolo aggiunto che non la sicurezza di una posterità, non poteva certo aspettarsi il favore di gente estranea, ma non si può sostenere che solo per questo abbia accolto la promessa di Dio come l’unica speranza della sua esistenza. È facile criticare qualche sua decisione da parte di chi vive al riparo delle leggi dei nostri giorni, ma la società in cui egli viveva non è la nostra occidentale. Già nel corso della sua vita denota di possedere delle qualità superiori. Nel separarsi dal fratello gli lascia la parte migliore e, quando Lot sarà in pericolo ritornerà da lui per soccorrerlo, nelle avversità aiuta il re del luogo, che lo aveva ospitato, senza la richiesta di un contraccambio, interviene persino presso Dio a favore di quelli che lo hanno offeso: ci possiamo immaginare con quali speranze e quali sentimenti deve aver accolto la promessa di Dio, non certo per pura convenienza, eppure non senza accorgersi dei vantaggi che essa prospettava. Ma la figura di Abramo rifulge in tutta la sua grandezza in occasione del sacrificio dell’unico suo figlio. Dio gli chiede una prova della sua fedeltà e una prova aggiunta delle sue capacità spirituali, ossia delle sue virtù.
La Bibbia, senza tergiversare, con un discorso nudo e crudo; descrive la richiesta di Dio: "Abramo, prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, e offrilo in olocausto su di un monte che ti indicherò" e, Abramo senza tergiversare obbedisce. Il mattino presto, prepara la legna per l'olocausto, sella l'asino e si mette in viaggio con il figlio e i servi per raggiungere il monte dove offrirà il sacrificio. Dopo tre giorni di cammino arriva ai piedi del monte, ferma l'asino e i servi e affronta la salita con il figlio che porta sulle sue spalle la legna. Sulla cima del monte lega il figlio, snuda il coltello e alza la mano per colpirlo. In questo preciso istante una voce lo ferma: "Non fare alcun male al ragazzo!
Giuro per me stesso: perché tu non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza ..." (vedi Genesi. 20).
L’episodio può essere compreso in diversi modi e dare adito a diverse interpretazioni. Per capirlo semplicemente così come è raccontato bisogna considerarlo come un fatto avvenuto nei limiti di un tempo e di una società ben lontano da quella nostra. I popoli che circondavano la tribù di Abramo erano idolatri; per questo, quasi più per sentimento che non per virtù, ammettevano di dipendere dalla Divinità, anche se non la conoscevano se non per immagini. In poche parole, consideravano i beni che la natura loro offriva come un dono divino e si sentivano in obbligo di riconoscerlo offrendo ai loro idoli in sacrificio quello che avevano di più caro. Tra i beni ricevuti uno dei più grandi era la possibilità di avere dei figli, se si pensa che l’unica forza lavoro del tempo era costituita dall’uomo, che non poteva mai essere sostituito dalle macchine come nei nostri giorni. Per questo come offrivano agli dei i frutti della terra erano anche pronti a sacrificare qualcuno dei figli per riconoscere di averli ricevuti in dono. Il loro sacrificio cruento non solo era ammesso, non solo era creduto necessario, ma era un atto di religione meritorio. In questo contesto Dio chiedendo ad Abramo il sacrificio di Isacco pretende una sudditanza ed un riconoscimento almeno pari a quello dei suoi contemporanei, di per sé, quindi, niente di straordinario, eppure ha un significato del tutto eccezionale.
Il sacrificio di Abramo visto con i suoi occhi è quello di chi avrebbe dovuto rinunciare ad un bene chiesto a lungo al suo Dio che rappresenta il soddisfacimento di tante preghiere. Perdere il figlio significava riconoscere il diritto di Dio di dare e di togliere, ma nello stesso tempo, metteva in dubbio la bontà di chi lo aveva donato e, nello stesso tempo, la sua fedeltà alla parola data, come se avesse il diritto di cambiare le proprie promesse, ritornando sull'opportunità delle sue decisioni.
Anche noi dobbiamo, volenti o no, prendere una posizione a riguardo, quasi nella situazione di chi deve emettere dei giudizi a proposito di un fatto incomprensibile. Con questo non vogliamo allontanarci dal testo biblico né sostituire la sua lettura con quella degli studi eruditi del nostro tempo: è ovvio che ciascuno di noi possa raffigurarsi il significato ed il valore del sacrificio a modo suo, ma quali erano i sentimenti e le ragioni di chi si accingeva ad uccidere il proprio figlio?
Ritorniamo alle situazioni di quel tempo. Le persone che offrivano agli idoli in sacrificio cruento un loro figlio credevano veramente di aver ricevuto ogni bene da Dio, anzi li ritenevano l’espressione pratica della sua benevolenza. Erano ben convinti di ricevere da lui sia il bene che il male, sapevano benissimo che la loro salute e la stessa vita era nelle sue mai. La malattia e le epidemie sembravano senza una causa eziologica diretta, in altre parole, non avevano una spiegazione scientifica, perché non esisteva una medicina nel senso moderno. Quando il figlio era ammalato, quando moriva, avevano perso un dono di Dio, prima ancora che un bene patrimoniale ed uno familiare. Già questa considerazione, se veniva accettata, consisteva in un’offerta alla divinità pari in valore ed in significato a quella di un sacrificio cruento. Dio aveva dato ed egli poteva togliere. In questo senso la divinità non era nemmeno tanto lontana dalla figura delle autorità del suo tempo. Anche per i Romani il padre aveva diritto di vita e di morte nei riguardi del figlio e, anzi degli stessi suoi simili nel caso e, per il solo fatto, che erano suoi schiavi. Un sacrificio mosso da sentimenti del genere ci rivela le caratteristiche dell’uomo di quel tempo: egli dipendeva da Dio come uno schiavo ed era simile a dio quando aveva in suo potere degli schiavi. Si tenga presente che non era nemmeno una accezione generale la credenza in una vita futura dopo la morte e, sebbene normalmente la pietà dei rimasti si preoccupava di preparare un luogo adatto a ricevere le spoglie del defunto, nel caso del sacrificio cruento era contemplata la distruzione della vittima consumata dal fuoco. L’uomo di quel tempo era quindi consapevole dei suoi limiti, forse più di quel suo simile dei nostri giorni e il suo Dio, più accettato che riconosciuto, era la personificazione tangibile di un destino oscuro per la ragione e confuso per l’affettività umana. In altre parole, tra Dio e l’uomo non c’era una comunione, semmai solamente una comunanza. Il rapporto non era certamente come quello di coloro che si parlano e che sono pronti a cambiare il loro parere, dopo essersi ascoltati l’un l’altro. Una disposizione del genere avrebbe avuto bisogno di quella premessa come, appunto, è la stessa fiducia di Abramo. Egli non fraintende i comandi, ma li accetta per amore e non per imposizione. Le intenzioni di Dio rimangono oscure, ma la fede di Abramo le illumina. D’altra parte Dio non tratta Abramo come uno schiavo, perché non gli nasconde quel che desidera ottenere da lui e gli chiede la sua adesione, pur ammettendo che non la possa capire. Un termine più adatto e più moderno per una relazione del genere potrebbe esser quello di ‹assertività›. Anche al giorno d’oggi non tutti i rapporti sono assertivi: ci sono persone che si impongono di fatto e, invece, altre che sono pronte al dialogo. Ci sono delle situazioni che potrebbero essere risolte con un parlare piano e chiaro, che tuttavia ammettono, come predisposizione necessaria, una fiducia reciproca con espressa rinuncia al parlare tendenzioso influenzato da interessi inconfessati. In questo senso molti, senza essere degli dei, si comportano come demoni, preferendo al posto del dialogo imbonire con sofismi e costringere con imposizioni l’interlocutore, per il semplice fatto che si credono più avveduti, più responsabili e più potenti di lui. Il Dio di Abramo non ha una potenza di questo genere ed il colloquio con lui non è una imposizione, ma una chiarificazione che tende persino ad una nuova istruzione e ad un aumento di conoscenze per il suo interlocutore. Infatti, Abramo, insieme alla riconfermata promessa di Dio, acquista la visione pur ancora confusa e materializzata di un significato nuovo del termine ‹terra promessa› e ‹discendenza di re›.
Il primo e il più diretto ‹insegnamento-significato› da parte del Dio di Abramo consiste nel valore di una cosiddetta offerta spirituale. Dio vuole e accetta il riconoscimento di un cuore puro e non una paga materiale a compenso dei suoi favori, come se fosse una sorta di scotto e di ‹un do ut des›. In altre parole cerca veri amici e non conniventi in una sorta di avventura alla ricerca di un utilitarismo di parte. Per lui non ci sono persone o popoli guida e nemmeno figure di prestigio, ma cuori ripieni di amore e di fiducia. Certamente l’uomo di Dio in Abramo è ben diverso da quei nostri superuomini che alle volte sembrano averci convinto con la loro propaganda o con la prosopopea. In questo senso quella mano che fermava il braccio di Abramo armato di coltello fermava di fatto ogni violenza ed ogni guerra, anche quelle che erano credute necessarie per obbedire ai comandi della religione, che religione non è, ma interpretazione di una schiavitù sinonimo di quella stessa pretesa umana di rendere schiavi i propri simili.
In questo senso il secondo significato che ne viene di conseguenza consiste nel chiarimento di come dovrebbe essere il rapporto dell’uomo con Dio. Si tratta di un rapporto personale. Amore, fiducia, rispetto reciproco indicano e richiedono un rapporto tra persone e non tra idee, o peggio, tra immagini o supposizioni teoriche. Abramo non ha un corrispondente in terra con queste qualità. Dio si mostra a lui troppo superiore rispetto a qualsiasi ‹idealizzazione› umana. Si tratta di un rapporto straordinario che merita la qualifica di meraviglioso, anzi di miracoloso. Anche nella mitologia greca si narra di un amico pronto a salvare l’amico, rischiando la propria vita sulla fiducia di una sua promessa, ma la soluzione di questo problema sta tutta nel mantenere una promessa data nei limiti della fortuna, al posto che nelle capacità sicura di una volontà ferma; in altre parole la fiducia di quel personaggio mitologico era quella di un uomo nei riguardi di un altro uomo, che è smentita dalla normalità dei rapporti umani. La fiducia di Abramo non è a livello umano e, anche nel suo caso, Dio manifesta, invece, oltre alla sua onnipotenza, anche la sua onniscienza tipica che è quella di cambiare un errore comune in un insegnamento straordinario. Egli non vieta, con una dichiarazione esplicita, gli infanticidi religiosi, ma vuole affermare la condanna di quella mancanza di fiducia nei suoi riguardi, che gli attribuisce una pretesa di dominio crudele e che invece nasconde quella dell’uomo nei riguardi del suo simile. In pratica l’‹uomo-Abramo› mostra di avere delle ‹mozioni› che corrispondono a quello che, con termini filosofici, si chiamano ‹virtù› e il suo Dio non ha virtù differenti dalle sue ma che, oltre ad essere proprie, ‹muovono› anche quelle del suo fedele. Questa, per così dire, ‹induzione› dello spirito di Dio nei riguardi dello spirito dell’uomo si può benissimo chiamare ‹analogia›, purché non sia un termine teorico e tecnico e non esca da quei rapporti personali ed efficaci che spiegano quello di Dio per l’uomo. Entro questa visione del rapporto come personale tra Dio e Abramo è già implicito il riconoscimento di un Dio unico o almeno impareggiabile a confronto con altri che lo raffigura come assoluto e senza competitori, anche se questo non è qui affermato direttamente.
Non solo, anche il rapporto di Dio con Abramo è unico. Egli è scelto come una persona che non ha uguali. Non si deve pensare a proposito che la scelta di chi è perfettissimo nell’amare equivalga ad una esclusione di altre scelte. Abramo è un esempio è ‹uomo-ideale› di ogni uomo, ovviamente nei limiti della sua umanità temporale, e il rapporto di Dio con Abramo è ‹ideale›, ovverosia una spiegazione e una perfezione che ogni uomo è chiamato a raggiungere. In questo senso come era unica e personale questa scelta, altrettanto indica che il Dio di Abramo ha un amore unico e personale con ciascun uomo, preso singolarmente, ma non certo disgiuntamente o in concorrenza, o peggio, in opposizione nei riguardi di altri suoi simili. In questo senso si capisce la parola che Dio rivolge ad Abramo:
"Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce". (Genesi. 22, 18).
Abramo ci offre così l'esempio di una discendenza paradigma di ogni altra discendenza e la traccia di questo modello sta tutto nell’aver tradotto in pratica la «voce» di Dio.
Anche il terzo significato è una conseguenza del primo e, in questo caso è solamente accennato. Ha il valore di una profezia, forse in quel momento non è compreso, ma nemmeno può essere negato. Si tratta di una visione di una terra promessa e di una discendenza senza ‹dominio› e senza ‹possesso› per chi la riceverà in possesso. Questa affermazione non è un enigma e la terra promessa non è inconsistente, perché corrisponderà ad un regno ideale che è il Regno dei Cieli. Anche noi a questo punto della lettura della Bibbia non ci sogniamo di affermarne l’esistenza, tuttavia non possiamo negare che esista nell’ambiente culturale dei nostri tempi. Si tratta di continuare la lettura, sempre senza preconcetti e senza condizionamenti presupposti.
Il quarto significato-insegnamento non è minore degli altri tre. Dio non impone ad Abramo una prova come se fosse in dubbio sulla sua fiducia e all’oscuro delle sue vere intenzioni: in pratica non è un Dio che dubita, ma è un Dio che rassicura, egli non prova Abramo ma lo comprova. In questo modo asserisce che anche le ‹prove›, per quanto dolorose possano essere, non sono dannose o, ancor più profondamente, che quello che un uomo può ritenere essere un male, per Dio è sempre un bene. Si tratta di un dono amaro per un uomo con tutti i suoi limiti che, invece, è una medicina, perché ha la proprietà di fargli esercitare quelle virtù che una eventuale sua pigrizia tenderebbero ad avviarlo sulla strada del riduzionismo e del regresso. Si tratta di una cura drastica che fa male, nel senso che provoca dolore e non che è un male, perché è un metodo per aumentare la conoscenza di ‹regioni› logiche che la ragione difficilmente può conseguire. Fin dagli inizi della storia dei rapporti Dio-uomo c’è una realtà alla base che è più divina che umana o, si può dire, che riguarda un uomo che deve essere e superare se stesso per diventare più simile a Dio.

Sara sposa di Abramo

Un altro argomento proposto dal racconto biblico è quello che riguarda la considerazione della donna ai tempi di Abramo. La nostra considerazione si sofferma sul racconto che riguarda Sara. Per capire meglio la sua figura la paragoniamo a quella di Eva, come già abbiamo fatto a Proposito di Abramo nei riguardi di Adamo.
Io non vorrei dilungarmi nel descrivere le caratteristiche di una donna, perché non sono diverse da quelle dell’uomo e quel che ha l’uno ha anche l’altro, tuttavia in modo personale e non confuso. Infatti quando la Bibbia riferisce le parole di Dio ad Abramo intende trasmetterle ad ogni uomo personalmente e tra tutti, in prima persona, alla sua compagna, tuttavia lo fa secondo un ordine. L’ordine in questo caso non è un più e un meno, in altre parole non corrisponde ad un grado e ad un valore, ma si riferisce ad un prima e ad un poi nel senso di collocazione. In ogni caso è proprio questo ordine che distingue l’uomo dalla donna. La comprensione di questo ordine era ben diversa ai tempi di Abramo e, forse in tutti i tempi, la donna non era ‹ordinata›, ma sottoposta all’uomo, anzi era un bene che l’uomo poteva possedere o anche rubare come si credeva in diritto di fare Abimelech con Sara o in un’altra occasione come di Sichem che fece violenza a Dina (Genesi. 34). Anche ai giorni nostri non si sente dire che una donna abbia violentato un uomo, ma viceversa, eppure nessun uomo può credersi più uomo della donna solo perché è più prepotente. La caratteristica femminile è proprio questa sorta di minor superiorità fisica e maggior superiorità affettiva che l’uomo molte volte dovrebbe imparare. In pratica il Dio di Abramo e di Sara, di Adamo e di Eva non ha fatto gli uomini in serie, ma ciascuno porta una impronta di questa creazione personale che è la comunicazione del Creatore alle sue creature. In questo senso si potrebbe arguire che in Dio esiste un qualcosa di simile che è la maschilità e un qualcos’altro sempre di simile che è la femminilità. In ogni caso il rapporto di Dio con Eva non era molto diverso da quello che lei aveva con Adamo. Si trattava sempre di amicizia e di colloquio basato sulla fiducia e sull’amore reciproco. Quando Eva, su suggerimento del Serpente, preferisce obbedire alle proprie ragioni che non alle virtù infuse, perde la fiducia in Dio e in un certo senso anche quella di Adamo e si trova non più amica, ma sottoposta all’uno e proprietà dell’altro. In un certo senso prima del peccato originale la donna era ascoltata da Adamo, dopo, invece, Adamo che l’aveva una volta obbedita, assume il comando e, alle volte, si impone con violenza. Anche Sara si trova in quel mondo che non è più un paradiso terrestre ed anche lei insieme ad Abramo è chiamata a ristabilire con Dio un rapporto di fiducia e a portare sulle terra le virtù che si vivono in Cielo, in questo senso lo fa in un modo quasi più ‹virtuoso› dell’uomo stesso, mettendo addirittura sé a rischio e pericolo pur di salvare la vita al proprio marito. Il comportamento di Sara diventa così una quasi richiesta di una società nuova, non fatta di uomini che hanno tra loro solamente un rapporto razionale, ma che sia una famiglia dove tutti sono fratelli, perché Dio li ama ciascuno in un modo, per così dire, materno, personale e unico, senza dimenticare nessuno. In questo senso si dovrebbero leggere e comprendere anche certe scelte fatte dalle spose dei grandi patriarchi tra i loro figli, come quella di Rebecca che anteporrà al diritto di primogenitura Giacobbe al posto di Esaù. Non si tratta di preferenze, ma di vocazioni, ovverosia di scelte responsabili della persona più adatta, perché ‹chiamata› significa amata, ma anche responsabilizzata e impegnata. Il Dio di Abramo non ama confusamente e questo lo si vede nell’amore che egli ha partecipato soprattutto alle donne della Bibbia.

Giacobbe

Si capisce meglio la figura di Giacobbe se si paragona a quella del padre Isacco. Ad una prima lettura, dopo tutto quello che è stato detto di Abramo, sembra che la Bibbia si sia dimenticata di Isacco: è un capotribù di nomadi, in un paese straniero, esposto ad ogni pericolo senza la protezione di una legge sicura e, invece, si sofferma sulle sue caratteristiche peculiari, descrivendone la vita di tutti i giorni. È una persona superiore che riesce a vincere le strettezze di una grave carestia, a scavare in una terra arida più pozzi di quanti i suoi vicini gliene otturino.
La Bibbia con una descrizione non pedante, ma precisa, sembra dare atto alla perseveranza del patriarca e della sua tribù, enumerando i pozzi scavati, la loro ubicazione e la denominazione che probabilmente, documentate nella tradizione orale, sarebbero rimaste sempre vive nella storia del popolo ebreo.
Dopo tanto lavoro e altrettanta costanza i tempi si volgono al meglio: Dio stesso lo approva e gli rinnova la promessa fatta ad Abramo suo padre e, il re Abimelec che lo aveva prima scacciato si accorge della sua importanza economica in seno alla nazione che l'aveva prima solamente tollerato e si rivolge a lui personalmente per chiedergli di rientrare nel suo paese (Genesi. 26. 16 ss.).
Isacco è la figura di quella persona normale di tutti i giorni faticosi della vita di chi lavora duramente, attorniato da gente estranea che non solo non lo aiuta, non solo non lo lascia lavorare in pace, ma se ne approfitta di lui e lo mette in difficoltà.
Come il padre così il figlio Giacobbe, anzi ancor più travagliato, sempre a rischio tra nemici, perfino ostacolato dai parenti e, a ragione o a torto, in disaccordo con l’unico fratello. Ad un certo punto della sua vita, ricca di traversie, riesce almeno a liberarsi da Labano, suo suocero, che lo aveva trattato come un servo. (Genesi. 21). Si tratta di quella vita e di quelle traversie che molte volte prostrano la buona volontà ed il desiderio di pace di molta gente, ma per questi due personaggi ce ne sarebbe abbastanza per cedere le armi. Abramo era stato provato dal suo Dio nella fede, anche Isacco e Giacobbe sul cammino impervio verso una meta promessa, eppure nemmeno intravista da lontano, potrebbero essere facilmente tentati di abbandonare l’impresa e, invece, usano le difficoltà come se fossero una palestra per esercitarsi nella virtù della speranza. In questo caso non si tratta solo di forza d’animo, o di coraggio nelle avversità, ma queste virtù hanno una caratteristica particolare, infatti, non hanno la loro origine nella ragione, né un fondamento nella natura umana, ma sono un particolare dono di Dio: sono le virtù teologali.
Tutta la vita di Giacobbe si può considerare incastonata tra due comunicazioni del suo Dio: la prima una promessa, la seconda una ‹prova› che si può considerare come una richiesta da parte di Dio dell’impegno del suo fedele in risposta alla promessa data. Sono due esperienze di Giacobbe, prima ancora di essere due colloqui con il suo Signore.
Quando Giacobbe lascia Bersabea e la casa paterna, dirigendosi verso Carran per raggiungere i suoi parenti e scegliere tra loro una futura sposa, al tramonto del sole, passa la note coricandosi sulla nuda terra, dopo aver scelto una pietra per guanciale. In questa semplicità senza pretese e senza previsioni vede in sogno una scala di angeli e il Signore davanti a lui che gli dice: "lo sono il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di lsacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza … E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra".
Giacobbe si sveglia e vede questa terra come la porta che ha aperto il cielo a lui stesso, per la sua gente e per le nazioni che saranno benedette nel suo nome. Si ferma in contemplazione, prende la pietra dove aveva posato il capo, erige una stele e un altare (Genesi. 28. 10 ss.).
Dopo la promessa e dopo l’aiuto tangibile del Signore viene per Giacobbe il tempo della prova. Egli ritorna alla casa paterna con le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passa il guado di Labbok con tutti i suoi averi, le sue greggi e i pastori che lo accompagnano, ma egli rimane da solo, fermato da un uomo che lo affronta e lo costringe a misurarsi con lui in una lotta che dura fino allo spuntar del sole. Giacobbe era ben cosciente che avrebbe dovuto combattere contro le difficoltà della vita e i pericoli dei nemici, ma inaspettatamente quella notte si accorge che deve persino misurarsi con la stessa forza del suo Dio; e Giacobbe gli si avvinghia addosso e non lo lascia se prima non lo avrà benedetto. In risposta gli dice: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!".
Giacobbe esce dal combattimento come un vincitore, ma Dio che si è lasciato vincere lo ha toccato sul nervo ischiatico ed egli da quel momento potrà andare avanti sul suo cammino solamente zoppicando. (Genesi. 32).
Tra queste due rivelazione-colloquio c’è tutta la vita di Giacobbe, fatta di umiltà e sacrifici e nello stesso tempo rassicurata dai successi e sempre tesa al raggiungimento di una meta che non è un’illusione, ma che nello stesso tempo è superiore ad ogni speranza umana. La virtù tipica di Giacobbe non è umana: è veramente teologale. Nello stesso tempo, se le virtù sono «doni di Dio», che egli riversa nell’anima dei suoi patriarchi, allora costoro oltre ad essere ‹chiamati› si potrebbero considerare dei ‹predestinati›; in altre parole, se le hanno ricevute senza loro merito e senza pagarle, arriveranno alla terra promessa anche senza volerlo e, invece, devono superare tante difficoltà e tante situazioni che sembrano disperanti. A questo proposito vale la sapienza di quel detto che afferma: «Aiutati, ché Dio ti aiuta» e, egli aiuta, anche quando sembra contrastare. Il Dio di Giacobbe non è il fato o la fortuna, non è capriccioso. Giacobbe stesso non è incostante, egli conosce i suoi limiti, ma fa, per così dire, moneta falsa, pur di mettere in atto le promesse del Signore. Per l’uomo-Giacobbe non vale del tutto il proverbio: Dio vede, Dio provvede, perché anch’egli deve provvedere quasi come se Dio non esistesse, altrimenti dimostrerebbe di sperare in Dio e di amarlo solo per convenienza e non per amore. È proprio di chi ama far la parte dell’amato anche se sembra mancare di amore. In altre parole, chi ama veramente Dio non si aspetta di essere sempre beneficato, ma comincia egli stesso, in un certo senso, a beneficare Dio. Mentre la prudenza di chi odia è sospettosa, quella di chi ama è previdente, ovverosia fa la parte che manca per rendere perfetto l’amore, indipendentemente da chi sia imputabile di questa mancanza. Chi ama non vanta pretese, ma assume responsabilità. L’amore che poggia su dei diritti ha già rinunciato alla propria dignità.
Per comprendere meglio la posizione di Giacobbe e, nello stesso tempo per riflettere sulle virtù, visto che ne abbiamo l’occasione, dobbiamo soffermarci sul significato del termine ‹partecipazione›. Questa riflessione al punto in cui siamo con il nostro commento può risultare un'anticipazione, tuttavia non è fuori luogo.

Trinomio - partecipazione

La partecipazione ha due aspetti, tutti e due necessari. C’è un componente della partecipazione da parte di chi dona il suo ed un’altro di chi fa suo ciò che riceve. Ciascuno dei due componenti concorrono a costruire la partecipazione, ma da soli non sono sufficienti. C’è un terzo elemento altrettanto necessario, anzi è quello che spiega la partecipazione stessa. È ovvio che se qualcuno dà e un altro riceve in qualche modo diventano uguali, ma non per questo sono uno e nello stesso tempo distinti, al contrario dipendono l’uno dall’altro. Ben diversa è la situazione di chi dà anche senza ricevere perché ha già tutto, e perché dando non perde niente, ma che nello stesso tempo accoglie il tutto perché altrimenti mancherebbe della capacità di contenere quello che riceve. In questo caso quando egli accoglie ha ancora la possibilità di ricevere, sebbene non ne abbia la necessità e quando dona non sente il bisogno di affermarsi, sebbene non ne manchi della possibilità. Nello stesso senso il suo interlocutore non manca di niente e non è limitato da alcuna necessità. Infatti se non avesse già quello che riceve, come può prenderlo, nel senso di comprenderlo? Con questo non si può concludere che non hanno dato e non hanno ricevuto. In altre parole, hanno ricevuto perché hanno gradito il dono e per onorare il donatore e, nello stesso tempo, hanno dato per onorare il ricevente e gioire di poter dare. Da questo dato di fatto si capisce subito che di per sé non si sono scambiati un qualcosa, ma che per mezzo di quel qualcosa che è passato tra le loro mani si sono dati l’un l’altro amore. Il dono era solamente un attestato, lo scambio era invece totale, ma era strettamente amore. In un certo modo, chi dona è causa efficiente di amore, chi riceve è tutto amore come causa strumentale che lo mette in evidenza e quel che viene scambiato è tutto amore come causa intenzionale (finale). In questo senso anche quel che viene scambiato non è parte, ma è tutto, perché non è diviso, pur nel particolare, ma partecipazione di amore che non può essere tale se non è totale.
Da tutte queste considerazioni si può trarre la conclusione che la partecipazione è sinonimo di unità-distinzione. Infatti ciascuno dei tre – illuminante, riflettente, partecipe – ha tutto ed è tutto distintamente, eppure è del tutto unito pur senza confusione né mescolanza né dipendenza. Si tratta di quella partecipazione che non ha difetto, né mancanza, in una parola che dice Dio o, il che è lo stesso, Trinità. Noi lo possiamo arguire perché conosciamo la teologia cattolica; ovviamente non lo poteva supporre nemmeno lontanamente Giacobbe ma, in qualche modo, egli lo viveva per analogia. In altre parole, il suo rapporto con Dio consisteva veramente in una partecipazione ed assomigliava sempre, pur con le dovute distanze, a quello che intercorre tra le persone della trinità, sebbene questa somiglianza sia ben diversa dal modello originale, perché l’amore di Dio non è limitato, ma non si può dire che quello dell’uomo sia infinito.
Tutta questa riflessione non è che un tentativo per spiegare ciò che si può vivere e praticare solo passo dopo passo, non è certo un modo esauriente di considerare i fatti, ma non è distante dalla loro comprensione. In pratica l’importante è sempre e solo amare. L’amore poi si spiega da sé, mentre le sole spiegazioni possono mancare alle volte di amore e quindi non spiegano niente. L’amore di Giacobbe per il suo Dio ha un fondamento concreto nel suo lavoro e nella fatica quotidiana di uomo nomade, in piedi nella steppa, che continua il suo cammino, pur zoppicando, verso la meta.

Giuseppe

Tempi normali …

Tra i resoconti dei fatti che riguardano Giacobbe e quelli di Giuseppe la Bibbia sembra porre un intermezzo senza pene né affanni. Non mancano i drammi e le commedie, ma sono pressappoco uguali a quelli di tutti i giorni che si vedono in televisione e, invece, indicano uno straordinario che sta nascosto proprio in questo supposto vivere ordinario, che non sempre è sinonimo di ordine, e che sembra aver la funzione di preparare un passaggio dal consueto all’eccezionale. I due tempi si succedono inavvertitamente per chi rifiuta di ammettere la morte del primo e che, per paura, non spera nella nascita del secondo. Sono due tempi che portano caratteristiche talmente diverse, che sembrano nascondere la loro successione logica e, di fatto, non trovano tanto una spiegazione nelle ragioni dei protagonisti, nemmeno solamente in quelle mozioni spirituali che riposano nella coscienza di ogni uomo e che si chiamano virtù, ma in un qualcosa che non è una teoria e nemmeno in un qualcuno che non è una immaginazione. Questo processo per diventare comprensibile abbisogna di una purezza dell’affettività oltre che di una maggiore chiarezza della razionalità. Abitualmente l’uomo ragionevole cerca riscontri altrettanto ragionevoli nelle sue memorie per gettare le premesse dei suoi progetti ma, alle volte, le sue ragioni sono ancora poco chiare perché i suoi affetti non sono del tutto puri. L’affettività apre gli orizzonti alla ragione, ma se è sporca ed annebbiata, alimenta un giudizio confuso, mentre se è pura splende come il sole che illumina un panorama storico vasto ed attraente. Le impurità delle affezioni sono il fabulismo del bambino, l’erotismo del giovane e la possessione dell’adulto. È difficile trovare un’aria pura e non inquinata anche ai nostri giorni nelle nostre città e non era facile in quel tempo che passava tra quello di Giacobbe e di Giuseppe, quando sembrava di casa l’erotismo tra la gente comune e gli stessi figli dei patriarchi. A questo proposito basta citare i nomi di Sichem, che rapì Dina, o di Onam, precursore del controllo delle nascite, e lo stesso comportamento della nuora di Giuda che si è fatta una volta prostituta del suocero per difendere i suoi diritti.
A questo punto bisogna spendere due parole sull’erotismo.
Che cosa si intende per erotismo?
Ogni conoscenza è il risultato di un evento pratico e sensibile. L’uomo non conosce niente che non sia effettivo e mai lo conosce completamente, ma solamente per quella parte di effettività che ha sperimentato nell’oggetto conosciuto. Ripetendomi: la concretezza pratica della conoscenza sta tutta nell’accorgersi con i sensi di una data realtà e nel rilevare gli effetti che essa produce. Se quel che mangiamo non fosse ‹gustoso› e non servisse a mantenerci in forze, noi non lo avremmo mai conosciuto perché non avrebbe destato il nostro interesse. Per esempio, io non mangio la terra, ma quando non scelgo la terra, bensì il pane, è perché ho avvertito il gusto diverso delle due realtà e gli effetti diversi che esse conseguono, dopo aver sperimentato la soddisfazione di trovarmi in forze avendo mangiato il pane. Ora, il modo più semplice per non riconoscere l’effettività (il finalismo) di una realtà sta nel limitare la conoscenza al puro sensibile. Con la sensibilità noi acquistiamo una conoscenza soggettiva: il pane è gustoso per quel soggetto che lo mangia indipendentemente dal fatto che serve per nutrirlo, e non per provocare una indigestione. Dalla conoscenza sensibile alla conoscenza degli effetti depurati dalla soddisfazione puramente sensibile esiste un passaggio che è quello da una conoscenza soggettiva – il proprio gusto – ad una conoscenza di un altro tipo che è reale, ovverosia che considera e capisce ciò che dipende dall’oggetto conosciuto, per quel qualcosa che esso produce, e non per il gusto che il soggetto prova. La conoscenza, in questo modo, cambia e, da soggettiva, diventa obiettiva o, almeno, oggettuale, perché si libera del sensibile per concentrarsi sull’effettivo (che produce effetti). Quando un soggetto non sa a che cosa serve o che cosa produce una data realtà, ma lo ricerca e lo mette in discussione, è già sulla strada di aumentare le sue conoscenze a differenza di chi le restringe scegliendo di proposito il solo piacere di vederlo e di provarlo. Questo scegliere esclusivo e limitato al sensibile, che è un prediligere – ovverosia un amare prima ancor del conoscere – è dominato da una affettività erotica e in questo consiste l’erotismo, almeno in senso lato. È sempre l’oggetto che stimola la sensibilità e quindi la conoscenza non è esclusivamente soggettiva, ma è sempre sfalsata da quel poco di soggettivo che rimane e che rischia, così, di produrre errori. Se il piacere della vista di un fiore soddisfa la soggettività sensibile, anche quella di un fiore artificiale non manca di una bellezza soddisfacente, ma se non ci si accorge che non può produrre un seme non si capirà nemmeno la differenza tra ornamento e fiore propriamente detto, che ha una bellezza diversa anche quando diventa fatiscente per produrre un frutto. Accorgersi della differenza tra un ornamento ed un fiore è una conoscenza in più rispetto al riconoscere solamente il loro aspetto simile, mentre credere che un fiore artificiale sia un fiore vero è un errore, ovverosia una conoscenza in meno, perché è limitata alla soggettività strumento di conoscenza, ma non corroborata e comprovata da una effettività obiettiva.
Questa spiegazione un po’ pedante serve per capire cosa sia l’erotismo: l’erotismo in senso lato è quel fenomeno soggettivo che limita la conoscenza al piacere che essa produce, con esclusione dell’effettività reale dell’oggetto conosciuto. In pratica consiste in una sostituzione dell’apprezzamento del mezzo per conoscere ed in una dimenticanza degli scopi della stessa conoscenza. La sensibilità è un mezzo che svela i fini, mentre il solo piacere sensibile è un mezzo per nascondere i fini della realtà.
Ma l’erotismo ha ancora un effetto più deleterio. Se impedisse solamente la conoscenza oggettuale sarebbe poco male: se io non so che il pane è nutriente, ma lo mangio perché mi piace, non impedisco al pane di nutrirmi, ma solamente alla mia intelligenza di saperlo e, quel che non so oggi lo posso sapere domani, l’erotismo invece mi mette nelle condizioni di fare indigestione e di arrivare a credere che il pane è dannoso ed indigesto e non utile e nutriente. In altre parole l’erotismo non nasconde solamente la verità, ma produce errori, infatti, se io mangio solamente il pane che mi piace, finisco con limitare il mio cibo alle sole torte e rischiare l’obesità con tutti i danni che comporta. In pratica, e non solo in teoria, se io non voglio – si tratta di affettività – conoscere lo scopo nutritivo del pane, ma solo quello allettante – si tratta sempre di affettività – non potrò mai uscire dalla mia soggettività ed aumentare così le mie conoscenze. A questo punto si possono introdurre nel discorso tanti se e altrettanti ma, tuttavia quel che conta è ammettere il fenomeno ed accorgersi che l’erotismo ottunde la conoscenza, ognuno poi potrà sincerarsi dei danni che comporta a spese sue.

… sogni straordinari

Per tornare al nostro argomento di fondo è evidente che in un mondo dove domina l’erotismo le cosiddette buone ragioni sono un non senso e, se prevale il gusto ed il piacere, alla fin fine ci si dispone a conquistarlo persino con la violenza e non certamente con la convinzione. In questo caso, non sono certamente le persone pacifiche a farsi strada, perché risultano senza ‹grinta› come se vivessero nel mondo dei sogni e delle illusioni. E Giuseppe, proprio con i suoi sogni rappresenta una sorta di anomalia in un mondo del genere, quasi un personaggio a sorpresa che capita sulla scena della vita nel momento meno opportuno. Giuseppe è il figlio di Giacobbe natogli in tarda età; è il suo prediletto, come lo sono spesso i più piccoli in famiglia e, forse proprio come chi è stato sempre amato, crede che tutti gli vogliano bene, senza sospetti e senza precauzioni. Già questo preannunciava la sua sincerità, che si accompagna con il suo carattere amabile e, nello stesso tempo, la sua amabilità irritante.
Eppure Giuseppe racconta con tutta libertà: "Ascoltatemi, perché ho fatto un sogno. Eravamo in campagna a raccogliere il grano e legavamo i covoni, ebbene il mio covone rimase diritto, mentre tutti i vostri si accasciarono al suolo". Giuseppe non si ferma qui e racconta ancora un altro sogno: " Il sole, la luna e dodici stelle si sono fermate in cielo per inchinarsi davanti a me".
Pazienza i covoni dei fratelli che si accasciano al suolo, pazienza le dodici stelle, ma anche il sole e la luna rappresentano forse per Giuseppe anche il padre e la madre che devono inchinarsi davanti all’ultimo nato?
Non c’è da stupirsi se i fratelli si ribellano al sentire queste ‹favole› che sembrano pretenziose. Anche il padre rimane sorpreso e rimprovera il figlio ma, perché lo ama, non lo condanna e, nelle sue parole inopinate, cerca un significato nascosto al posto di trovare un’incomprensione manifesta.
La conoscenza è sempre di fatti e di ragioni che alle volte sono più istanze misteriose che non esplicazioni lampanti, sia per chi non ama, sia per chi ama, ma l’amore è sempre uno spiraglio aperto alla comprensione, mentre l’odio e l’opposizione chiudono la porta alla scienza razionale ed al comportamento morale. Se tutto fosse facilmente comprensibile non ci sarebbero né difficoltà, né inimicizie, e tutto scorrerebbe come l’olio, ma mancherebbe ogni progresso ed ogni miglioramento.
Nel nostro caso il risultato di questo dramma è la condanna del visionario.
Giuseppe, incaricato dal padre, va in cerca dei fratelli alle prese con i greggi, e loro ancora lontano lo vedono arrivare. È l’occasione propizia per mettere definitivamente a tacere il visionario. In un primo tempo pensano di sopprimerlo senza remore, ma poi si risolvono di allontanarlo per sempre vendendolo come schiavo ai mercanti di una carovana di passaggio, diretta in terre lontane. Al padre diranno che è stato sbranato da una belva, mostrandogli la sua tunica intrisa di sangue.
I mercanti invece raggiungono l’Egitto e vendono Giuseppe a Potifar, consigliere del faraone   e comandante delle guardie. (Genesi. 37).
La condanna di Giuseppe equivale alla schiavitù in terra straniera, mentre per i Giuseppe-simili di tutti i tempi equivale alla alienazione. L’uomo che non è amato è un alienato, alle volte, proprio perché egli vorrebbe amare, ma non sa come e perché. Giuseppe e ogni suo simile non deve preoccuparsi; la sua stessa storia di alienato gli insegnerà come condursi e lo preparerà a tradurre in concreto il suo amore. In quest’orizzonte si capisce subito come lo sfondo opaco dei tempi in cui vive Giuseppe sia stato utilissimo per mettere in risalto la sua figura in tutta la sua luminosità. Tra i vari eventi che la illustrano uno serve di esempio e di spiegazione di tutto il suo comportamento, anche se è il meno strepitoso, ed è il più significativo, anche se potrebbe parere il meno eloquente, non tanto perché mette in evidenza le sue caratteristiche naturali, ma perché lascia intravedere le doti del suo spirito, che si sono rafforzate con un esercizio trito e quotidiano delle sue virtù.
Così chi ha esercitato le virtù, non ha nemmeno tralasciato di far esperienza con la ragione. Il risultato per lo schiavo Giuseppe è che il padrone Potifar diventa schiavo del suo schiavo perché gli affida amministrazione e poteri ritirandosi in una passività che annoia persino sua moglie. La moglie poi per non annoiarsi a sua volta vuole godere dell’ammirazione di Giuseppe per fargli vedere che lei vale di più del suo padrone.
È la storia di chi cerca surrogati a un amore che non ama e che vuole possedere l’affettività di chi invece ama perché non si vende e non vende il suo amore. Giuseppe era stato condannato dai fratelli perché mirava a prospettive superiori, ora è odiato da una donna perché agiva senza compromessi e, lei lo accusa di violenza al marito. In pratica un Giuseppe troppo semplicione e poco accomodante che valica le porte della prigione dopo essersi aperte quelle della schiavitù in terra straniera (Genesi. 39).
Un evento come questo è un esempio chiaro di quale sia il rimedio del ‹fenomeno-erotismo› fin qui preso in considerazione. Giuseppe riconosce che il piacere sessuale è efficiente ai fini di costruire una famiglia, mentre l’erotismo lo avrebbe indotto a costruire un imbroglio. Egli amava, ovverosia voleva, una conoscenza logica con il risultato di conseguire una pratica morale adeguata. La scelta poi che aveva fatto una volta e che ripeteva ogni volta diventava per lui una abitudine. Con queste premesse la successiva liberazione di Giuseppe dalla prigione e dalla sua alienazione non è più un fatto fortuito e irrazionale, ma trova le sue spiegazioni che risiedono nelle stesse mozioni della sua affettività e nelle ragioni del suo modo di esistere, non senza una rivelazione aggiunta in quei sogni non solo suoi ma che, seppur di altri, egli è capace di comprendere ed interpretare.
In prigione trova due compagni di sventura ed egli che con i sogni ha imparato a parlare e con le prove, il lavoro e le fatiche ha imparato ad ascoltare, sente i loro discorsi e le loro lamentele e interpreta i loro sogni per aiutarli a sperare. Uno dei due viene presto liberato dalla prigione e ritorna al servizio del faraone   e l’altro viene liberato con la morte per poter tornare al trono del Re dei re (Genesi. 40).
In questo frangente il faraone fa un sogno inesplicabile che è rimasto famoso: sette vacche grasse salgono la sponda del Nilo e subito dopo sette vacche magre salgono a loro volta dal Nilo per divorare subito quelle grasse.
Il Re Sole senza far sogni prevedeva il diluvio dopo la sua morte, il faraone  , anch’egli abbastanza preoccupato, pativa forse per incubi notturni. Il primo non ascoltò chi gli prospettava i rimedi, il secondo ascoltò un coppiere che gli disse di aver conosciuto un Ebreo in prigione che sapeva interpretare i sogni e che gli aveva predetto la sua liberazione.
Il faraone fa venire subito Giuseppe al suo cospetto e gli chiede consiglio e il prigioniero si rivela all’altezza della comprensione dei segni dei tempi. Quando gli egiziani vivevano al tempo delle vacche grasse si sarebbero dati alle gozzoviglie, egli invece a lungo provato dal suo Dio ha imparato ad apprezzare i suoi doni con cura e con riconoscenza per premunirsi invece quando verrà il tempo delle vacche magre.

L’uomo del Dio di Giuseppe

Giuseppe liberato dalla prigione e dalla schiavitù ha assunto una posizione di primato non tanto davanti al faraone   , ma nella responsabilità dell’incarico che gli affida il Signore a favore dei suoi fratelli e, tutto questo, perché ha rafforzato le sue virtù. Tra la figura del Dio di Abramo nella sua potenza e quello di Giacobbe nella partecipazione, e ora quello di Giuseppe nella predilezione, c’è tutta una crescita della rivelazione che aveva bisogno di una lunga storia di esperienza e di dedizione per essere compresa; ma non solo, tra l’uomo Abramo e l’uomo Giuseppe c’è una crescita corrispondente che permetteva un colloquio sempre più approfondito da parte di Dio, sempre più chiaro e purificato da parte dell’uomo, per diventare realtà. Giuseppe non conosce solamente il Dio delle promesse, neppure solo quello della collaborazione, ma conosce, per così dire le stesse ragioni di Dio che si manifestano nella filosofia della storia. Occorre sottolineare questo processo che si basava su un esercizio ripetuto delle virtù, ovverosia effettivo ed affettivo, che permetteva a Giuseppe di possedere un aumento di conoscenza continuo che, nel suo caso, arrivava persino a comprendere la filosofia della storia, come abbiamo già detto.
Come si possono conoscere le varie cose per la loro effettività pratica così Giuseppe conosceva la storia per la sua effettività. Non si tratta di una conseguenza che dipende dai singoli uomini che ‹fanno storia› ma, insieme a loro, da tante altre circostanze che richiedono una causa efficiente superiore. Come il pane è nutriente e non solo gustoso così la storia è effettiva e non solo adatta a solleticare la curiosità degli studiosi e le pretese dei governanti, come il pane è effettivo perché è capace di produrre effetti, così la storia è effettiva perché c’è chi le ha donato la capacità di produrre effetti. L’uomo da solo non è capace di fare storia e le storie dell’uomo si dimenticano presto. È giocoforza ammettere l’esistenza di un ‹motore› con delle capacità superiori a quelle dell’uomo. Si tratta del Dio di Giuseppe che ama gli uomini e non che solamente trovava piacere ad amarli. La filosofia della storia è tutta qui: se si toglie la realtà di Dio la storia è senza filosofia. Con questo non si vuol dire che l’uomo sia senza filosofia e senza ragione, ma si deve riconoscere che alle volte possiede una ragione affetta da erotismo, ovverosia una ragione mancante o, per parlar più chiaro, che manca di ragione.
Dopo queste considerazioni appare evidente che la figura di Giuseppe è un ‹esemplare› di cosa sia un uomo capace di amare, perché ha ricevuto e accolto questa virtù infusa. L’amore come tutte le virtù ha due risvolti: la giustizia che riconosce il ‹proprio› personale e la magnanimità che è ovviamente senza egoismo e senza compiacimento. Essa consiste in una sorta di consegna delle proprie caratteristiche e della propria effettività fatta dal donatore alla persona conosciuta che diventa così una persona amata e amica, che non è più serva perché conosce le intenzioni e le ragioni del suo interlocutore. Quando questa virtù viene riconosciuta dall’uomo come un dono fattogli da Dio, egli si sente, per così dire, indiato e dimentica la sua umanità. Egli vede prima i disegni di Dio e si dimentica, perché non esistono più, delle proprie ragioni e di quelle prospettive che aveva una volta senza amore. Allora capisce i suoi sogni e gli altri capiscono che non aveva sognato, ma che aveva ricevuto una ‹rivelazione›. In un certo modo il Dio di Giuseppe non è più quello della promessa, ma della rivelazione e l’uomo del Dio di Giuseppe non è più il suo fedele, ma è già il suo amico. Quando si parla di un Dio misterioso e superiore ad ogni conoscenza non si fraintende una verità, ma si rischia di nascondere un’amicizia che può illuminare la stessa incomprensione. L’uomo-Giuseppe è già il precursore di un nuovo mondo di fratelli che si amano perché si sentono amati da un unico Padre e non solamente di concittadini con uguali diritti perché per natura appartenenti di una medesima discendenza.
Quando Giuseppe vede arrivare i suoi fratelli oppressi dalla carestia non può più nascondere la sua commozione e, mandati via gli estranei, scoppia in pianto. Quando un uomo liberato dalla morte di ogni possesso egoistico si affaccia alla conoscenza di una fratellanza effettiva si trova senza volerlo in paradiso, accolto da un Padre, dimentico ormai di un passato dove le stesse colpe erano quasi necessarie per aumentare la reciproca comprensione, l’intesa comune, e la gioia dell’amicizia fraterna. In questo quadro che per Giuseppe e per i suoi fratelli costituisce una promessa e una rivelazione prende consistenza e continua la costruzione della stessa promessa non ancora compiuta completamente e forse mai raggiunta definitivamente su questa terra durante questa nostra storia di allora e di oggi (Genesi.  45)
Si tratta sempre di una rivelazione di Dio amore, ma non è un amore umano, bensì così ‹divino› che riesce ad aumentare la razionalità dell’uomo affinché egli possa capire l’altrimenti incomprensibile razionalità di Dio.

Il Dio dell’uomo Giuseppe

Che differenza c’è tra il Dio di Giacobbe e il Dio di Giuseppe?
Lo indicano i loro sogni.
Il Signore appare in sogno a Giacobbe e gli rinnova le promesse fatte ai suoi padri. Riafferma così la sua alleanza e la sua predilezione, mentre a Giuseppe gli rivela un futuro diverso, e in un modo diverso, per mezzo di un’immagine così che egli lo possa capire, ma anche comunicare ai suoi familiari in un modo accessibile e non del tutto fuori del normale. Giuseppe potrà dire sempre in figura: «Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me» (Genesi. 37), perché il Signore non solo lo aveva eletto, ma lo aveva anche messo in autorità nei riguardi dei quei suoi simili che erano gli stessi familiari. L’autorità dei patriarchi in seno alla loro tribù non era mai stata messa in discussione ma, in questo caso, con Giuseppe, acquista un altro significato perché è sancita da Dio stesso che la costituisce direttamente in un modo nuovo e personale. Giuseppe lo annuncia in tutta semplicità: non è un esaltato e neppure si appropria di una superiorità presuntuosa, ma nemmeno mette in dubbio la sua posizione. I sogni che manda Dio non sono delle infatuazioni, perché cambiano la persona che li riceve e la investono di una dignità e di una responsabilità che lei stessa è obbligata a riconoscere con semplicità e non a costruire artificiosamente, al punto che si meraviglia che gli altri non lo vogliano capire.
In ogni caso, con l’elezione di Giuseppe è connesso il problema dell’autorità.
Il racconto biblico ne mette in evidenza due aspetti: il primo è quello dei suoi fondamenti teorici, il secondo di come nella pratica si viene affermando tra i sudditi.
Perché un’autorità possa affermarsi non basta che sia costituita da chi ne ha il potere, nemmeno se è Dio. In un modo simile un padre può lasciare in eredità l’azienda al figlio nominandolo, di fatto, capo del personale e direttore dell’impresa, ma tra i progetti del padre e le realizzazioni del figlio c’è sempre una differenza. Per quanto ambiziosi possano essere i presupposti teorici del padre e malgrado il figlio voglia realizzarli nel miglior dei modi egli ha sempre bisogno di tempo e di esperienza per metterli in pratica. La riuscita, poi, non solo dipende dalle sue capacità, ma anche dalle circostanze e, tra di esse, la più imprevedibile è la stessa obbedienza dei sottoposti. A sua volta il riconoscimento della stessa autorità è sempre un problema cognitivo e quindi dipende dalla maturità e dallo sviluppo di questa facoltà dei singoli sottoposti e dalla capacità esplicativa di chi rende comprensibili ed eseguibili i comandi, quasi di più della stessa sua capacità teorica e della sua competenza di dettarli. Da tutte queste condizioni così imprevedibili da parte di questo o quell’altro uomo per quanto superiore come se fosse un ‹quasi dio›, si comprende subito come la scelta della persona autorevole avrebbe bisogno di essere designata da un Dio vero, che conoscesse la coscienza degli uomini e le condizioni dei tempi. Ma quel che è più importante a proposito di costituzione è il fatto che chi comanda, si impone a delle ‹creature di questo Dio› prima ancora che a dei comuni mortali che sono suoi pari ed è quindi egli rimane responsabile verso Dio prima ancora di esserlo verso i sudditi.
In ogni caso questi fondamenti teorici dell’autorità si rendono evidenti solo dopo che essa si è affermata nella pratica, perché una autorità per quanto proclamata perfino da un ordine superiore, come potrebbe essere Dio, non per questo viene obbedita automaticamente. Giuseppe che crede di aver ricevuto questo conferimento si espone ad una sorta di riconoscimento e si sottopone ad un simile approvazione. Per questo, prima annuncia la sua designazione, e abbiamo visto con quali risultati. Poi deve dimostrare di essere all’altezza del mandato e, a questo fine, si fa le ossa obbedendo come schiavo e non andando a scuola di maestri o di teorie umane. Successivamente deve imporsi per trasmettere autoritariamente le opportune disposizioni, così come lo esigono i tempi e il favore di chi lo ha designato e, anche in questo caso, deve essere accorto e abbastanza diplomatico per non metter in gioco il suo potere; Giuseppe architetta tutta una storia per costringere i fratelli a mettersi sotto la sua ‹protezione› li accusa, prove alla mano, di essere ladri e spie che hanno bisogno della sua indulgenza. In questo senso è quasi obbligato a farlo come chi non può cambiare a parer suo i disegni dell’autorità che ha ricevuto secondo l’opportunità del momento, e lo stesso utile degli interessati. I dipendenti a loro volta pur obbligati a riconoscere e ad approvare le disposizioni della persona in autorità, sono sudditi della propria coscienza prima ancora di essere sottoposti a qualsiasi autorità ma, proprio perché i suoi comandi, non sono contrari alla loro natura ed alla loro coscienza, ne troveranno una conferma di fatto, prima ancora di prestare un riconoscimento di diritto. I fratelli di Giuseppe che si ribellano alla sua autorità, lo possono fare solamente calpestando la natura umana per mezzo di un delitto comune, prima escogitando il mezzo per sopprimerlo, poi estraniandolo con la schiavitù. Da tutto questa esposizione il potere di chi è in autorità non appare poi così potente come ci si aspetterebbe o come si immaginerebbe comunemente.
Ma non abbiamo ancora detto in che cosa consiste l’autorità.
Ci sono tre tipi di autorità. C’è un’autorità che ha il suo fondamento nella stessa natura umana. La definizione di uomo è di essere ‹animale partecipe› e quindi dipende da una società; questo dipendere che invece è, appunto, un partecipare esige una responsabilità e quindi un’autorità personale. C’è un’altra affermazione dell’autorità nello stesso esistere razionale dell’uomo. Poiché l’uomo ha un esistere che si esprime razionalmente come una scelta proporzionata e adeguata della realtà, deve anche avere il potere e l’autorità di iniziarla e di condurla a termine. Infine c’è un’autorità propria dello spirito dell’uomo, infatti, poiché l’uomo è effettivo, ovverosia è indirizzato a raggiungere un fine deve avere anche una libertà corrispondente a questa sua volontà. Ogni uomo esercita queste autorità, e si sente investito e autorizzato ad esercitarle, anche quando non sa nemmeno che esistono. Abitualmente si identifica l’autorità con la persona che la rappresenta nella società degli uomini e non l’autorità degli uomini come fondamento della società, mentre un rappresentante è solamente un ‹facente funzione di›; per questo si arriva a chiedere ad uno che non può, ma che comanda, quello che, invece, ciascuno deve chiedere a se stesso perché lo può, anche se non comanda. In pratica l’uomo deve obbedire alla sua natura, volere le sue virtù ed esistere la sua vita senza superiori e senza maestri, ma così facendo, partecipa, ovverosia costruisce società, in altre parole costruisce conoscenze e ama, in pratica, costruisce unità che ha più valore dello stesso accordo e del consenso.
Quel che appare dal resoconto della vita di Giuseppe è l’approvazione di Dio stesso di quell’autorità che è propria dell’‹uomo-Giuseppe›. Questa affermazione sembra sorprendente e contraria ai dati concreti. Effettivamente, i fratelli di Giuseppe e lo stesso padre, anzi, in figura, la stessa madre sua che invece è già defunta, si inchinano davanti a lui, ma il padre non perde la sua autorità di capo-tribù e alla sua morte è egli che designa i suoi successori e non Giuseppe. Come mai esistono due autorità, ambedue riconosciute da Dio, ambedue di uguale valore, con gli stessi sudditi e non in opposizione tra loro? Questo dipende dal fatto che rappresentano due tipi di autorità diverse. Giacobbe esprime quella naturale e Giuseppe quella spirituale; la prima autorità regge la società come corpo sociale, la seconda la ‹provvede› o la edifica nella libertà. Giuseppe non si pone sopra i fratelli e il padre, ma li ‹serve› da superiore e da responsabile. Tutte le autorità servono, sia quella dispositiva, sia quella di competenza, ma l’autorità che si manifesta come servizio più di ogni altra è quella spirituale.
Resta ancora da definire i rapporti tra quella autorità che abbiamo descritto come propria di ciascun uomo perché sua e personale, e quell’altra autorità che invece è propria di quell’uomo che rappresenta ciascun uomo e la società degli uomini.
In che cosa consiste la società?
Il termine società è analogo a quello di conoscenza (Bekanntschaft, acquaintance), o meglio è un tipo di conoscenza tra quelle realtà che sono gli stessi uomini che la compongono. Come il rapporto di un uomo con il materiale ferroso genera la conoscenza della metallurgia, così il rapporto di un uomo con un altro uomo genera la società. Ora la conoscenza è un riconoscimento di una realtà nuova non completo e non esauriente, ma concreto, ovverosia corrispondente ed adeguato: in una parola, conoscenza e verità sono sinonimi. Anche la società è una realtà concreta e vera, e ciò che è vero non è disordinato né confuso, ovverosia, ha una espressione unitaria che lo presenta e lo descrive. Questa espressione unitaria della società si chiama autorità. L’autorità definisce quello che è già definito nella natura dell’uomo sociale, riconosce ed esplicita quello che ogni uomo insieme agli altri uomini vive e, ancora, ordina quello che l’esercizio delle virtù di ogni persona ha ordinato. Se si sottovaluta l’uomo, prescindendo dalle sue distinzioni di natura, esistere e spirito e dalla sua unità di persona non ci può essere nessuna autorità perché non ci può nemmeno essere una società qualsiasi, ma solamente una convivenza di animali non del tutto ragionevoli. Se questo appare evidente in quel tipo di autorità naturale di carattere dispositivo si capisce meglio con quell’altra che esprime l’ordine dello spirito umano. È l'autorità tipica che appare evidente nelle istituzioni ‹spirituali› a cominciare da quelle culturali e per arrivare a quelle religione. Ed è anche l’autorità così ben rappresentata di Giuseppe e altrettanto distinta da quella di suo padre. È incaricata di servire amando e lascia capire per analogia che anche l’autorità di Giacobbe, quella naturale, è incaricata di servire disponendo. In altre parole ogni autorità è un servizio e chi è autorevole è un ‹incaricato› di servire. Ovviamente la Bibbia non è un trattato di filosofia della società, ma un’esposizione di fatti e ogni fatto dice di più di qualsiasi filosofia, ma ogni filosofia non è di meno dei fatti stessi perché li spiega.
All’inizio di tutto questo lungo discorso avevamo posto come titolo: ‹il Dio dell’uomo-Giuseppe›, ma a questo punto può sembrare che noi ci siamo allontanati dall’argomento prefisso e, invece, abbiamo parlato di una autorità sancita da Dio di tipo nuovo, quella che serve amando.
Il Dio di Giuseppe ha tutta l’autorità su ogni autorità e la sua è servizio perché è amore. l’investitura dell’autorità di Giuseppe da parte di Dio non è solamente la rivelazione che ogni persona scelta in autorità da Dio è un ‹incaricato› posto a servire, ma è soprattutto una rivelazione di Dio stesso come colui che ama. Si tratta di una rivelazione implicita, ma Giuseppe la manifesta con le parole e soprattutto con i fatti. Per poterla capire più chiaramente saranno necessarie altre spiegazioni ed altri esempi non ci resta che continuare a leggere la storia dell’uomo e di Dio che la Bibbia ci ha narrato fin qui e che ci promette di illustrare con ulteriori approfondimenti.
Mosè

Mosè esiliato dagli esiliati
Dopo aver considerato la figura di Giuseppe come quella di un uomo in autorità, la Bibbia ci propone quella di un popolo di uomini schiavi in terra straniera. Il panorama storico sembra cambiare completamente e inaspettatamente, eppure manifesta una continuità, perché descrive come le promesse di Dio ai patriarchi comincino a diventare realtà concreta, anche se in un modo ben diverso dalle immaginazioni umane. Probabilmente il dio degli uomini e il Dio di Dio sono tra loro molto differenti e la Bibbia sembra dimenticarsi del primo per presentare il secondo superiore ad ogni previsione.
Per non anticipare con delle illazioni i significati dei dati riferiti ritorniamo alla lettura del testo.
Il nuovo faraone dell’Egitto che non conosce né riconosce la storia di Giuseppe si preoccupa della progressiva crescita degli Ebrei immigrati e, al contrario, della corrispondente denatalità della propria gente. Con la denatalità diminuisce l’incentivo degli investimenti e della produzione, con una svalutazione di ogni bene e della moneta che lo misura. I provvedimenti adottati in questa circostanza mirano a opprimere gli stranieri immigrati e, nello stesso tempo, a promuovere opere pubbliche per incentivare la produzione tuttavia senza sperperare quella moneta che di per sé non ha perso gran parte del suo valore. Gli Ebrei vengono reclutati in massa per un lavoro con minimi salari e agli Egiziani viene promessa una pensione maggiorata consistente nell’ammasso di beni di consumo. Nascono così le città deposito: Pitom e Ramses (Esodo. 1).
La schiavitù degli Ebrei è simile alla alienazione di molti uomini dei nostri tempi. Corrisponde ad una certa dimenticanza del bene che ogni uomo può rappresentare per il suo simile per anteporre l’utile che esso può produrre – non ‹egli-persona-effettiva› ma ‹esso-cosa-reale›. Gli Ebrei per gli Egiziani non sono uomini, ma macchine. Un immigrato in Germania, incontrato per caso, per spiegare la sua situazione, mi diceva che aveva lasciato la patria in cerca del pane quotidiano, io, invece, lo vedevo come uno che ha lasciate le persone care per aiutare chi nemmeno conosceva, spinto dalla necessità, eppure non senza essere portatore di una utilità che è il presupposto di ogni bene. Nessun uomo dovrebbe stimarsi solo per quel salario che guadagna e, a maggior ragione, nessun uomo è autorizzato a comperare un suo simile pagandolo in moneta, perché ogni realtà e, a maggior ragione, ogni persona è un essere e l’unicum che caratterizza l’essere è il bene. Ma le cose, almeno ai tempi di Mosè, non sembravano meritare questa stima e gli Ebrei erano schiavi. In questo senso dalla società retta da un capotribù a quella non retta da alcuna autorità, ma sottoposta ad un usurpatore, il contrasto è stridente; il faraone, infatti, non rappresentava il popolo Ebreo e ancor meno si può ritenerlo investito da Dio dell’autorità di reggere le sorti di questo popolo che nemmeno la stessa natura gli aveva messo in sudditanza. Ogni Ebreo è autorità per se stesso ed ogni società di Ebrei è fatta di uomini che hanno il diritto di scegliere un uomo come autorità e, in ogni caso, non quella di uno straniero che vuol dominare e soggiogare.
La storia presenta in continuazione esempi di personaggi che si sono ascritti un'autorità che non avevano e di razze che si sono creduti guide di popoli, per il fatto di credersi superiori non solo per cultura, ma anche per natura. Questa superiorità presunta ideologica o razzista o, anche più semplicemente, colonialistica era una scusa avanzata solo per giustificare un preteso dominio, alle volte persino brutale. Anche noi abbiamo assistito allo sterminio di oltre sei milioni di Ebrei e di quasi quattro milioni di Cambogiani in tempi recenti e, quando l’oppressione era vicendevole, quella di cinquantacinque milioni di uomini (Ebrei compresi) nella seconda guerra mondiale.
In ogni caso, considerando la figura di Giuseppe, ci siamo soffermati sul valore dell’autorità per ogni uomo di qualsiasi società, ma ora la società che prima di Mosè era una tribù di un patriarca, che conosceva e amava i suoi figli, è diventata un popolo di persone anonime, dove anche la stessa autorità rischiava di cadere nell’anonimato. Mosè non è patriarca, non è stato investito del diritto di primogenitura è, invece, un comune mortale salvato dalle acque del Nilo, quasi la bambola di una principessa egizia, ma non è uno schiavo e, malgrado ciò, anzi proprio per questo, ha quella autorità che noi abbiamo ascritto a ciascun mortale per il solo fatto che è uomo, anche quando i suoi simili non la riconoscono e gli chiedono "Chi ti ha dato autorità?".
Mosè che esce dalla reggia del faraone vede un suo connazionale schiavo e senza alcun diritto colpito da un Egiziano. Non indugia e lo difende. Nella colluttazione che segue uccide il persecutore e lo sotterra sotto la sabbia. Più avanti vede due della sua stessa razza che si contrastano aspramente e interviene per rappacificarli. La risposta a questa strategia è ovvia: "Chi ti ha dato autorità? Vuoi forse colpire chi di noi ha torto come hai già ucciso l’Egiziano?". Mosè si accorge di essere scoperto e indifeso se rimane alla corte del faraone, perché è ormai risaputa la sua disputa e il suo comportamento e abbandona precipitosamente la reggia del faraone   per rifugiarsi nel deserto oltre i confini dell’Egitto (Esodo. 2).
La conseguenza di questo comportamento è che Mosè viene perfino spinto all’esilio dai connazionali esiliati in Egitto. La sua condizione, in un certo senso è simile a quella di Giuseppe che in carcere imparava e si preparava a liberare il suo popolo dalle necessità, mentre egli in quella occasione faceva pratica di come si può vivere nel deserto dove condurrà poi i il popolo di Israele. Non capita mai niente per caso, perché ogni bene che si fa è intenzionato ed ogni uomo che ama il suo prossimo non è mai un terno al lotto. La Bibbia ci sembra illustrare in questo modo la vocazione di ogni uomo, che in Mosè presenta delle caratteristiche eccezionali, ma che anche quando sembra modesta ha la capacità di cambiare anche un uomo comune in un personaggio d’eccezione. Mosè è salvato dalle acque, vive all’ombra di una corte regale quasi per imparare a sua volta a fare il re, è a contatto con la cultura di un popolo evoluto e, non solo, è anche pratico di come si vive nel deserto, ma tutto questo ha a che fare con la sua vocazione. Se non avesse difeso un suo connazionale, se non si fosse impegnato per dirimere una controversia tra persone della sua gente, forse avrebbe potuto vivere in pace e senza troppi fastidi, ma non avrebbe amato nessuno e non sarebbe mai risultato un dono né per il suo popolo, né per l’intera umanità. Non bisogna mirare a diventare persone di rilievo, ma a tramutare ogni situazione comune, anche di minima portata, in una di rilevanza eccezionale, il resto viene da sé. In pratica basta vivere la propria vocazione di uomini che è quella di essere un bene per ciascuno che s’incontra e per quella realtà che si usa, perché in questo essere un bene sta l’eccezionalità della nostra vocazione. Ma tutto questo è sancito dal volere di Dio. Tra l’essere un bene nei limiti del possibile e l’affermazione che esiste il Bene senza alcun limite non c’è differenza, perché un bene insufficiente, o non è tale, oppure necessita di un completamento che per l’uomo è una continua conquista, mentre per Dio è un perenne dono. La Bibbia spiega ulteriormente, ancora una volta, con i fatti, in questo caso nella persona di Mosè, chi sia l’uomo per Dio e Dio per l’uomo.
Ammesse queste considerazioni, nasce subito il problema della realtà del male sulla terra.
Come può essere amore un Dio che ha indurito il cuore del faraone    con tutte le conseguenze funeste per l’intero popolo degli Egiziani?
Anche in questo caso noi ci atteniamo alle descrizioni della Bibbia.

Le ‹piaghe› di un intero popolo
L’ignoranza dei segni dei tempi è il vero male, mentre le piaghe sono la medicina del male e la scuola di coloro che ignorano il bene.
Ancora una volta paragoniamo Giuseppe e Mosè. Il faraone di Giuseppe fa un sogno e ne ascolta la spiegazione di uno straniero, tratto fuori dalla prigione all’ultimo momento. Egli non conosce i segni dei tempi e nemmeno Giuseppe si preoccupa di spiegarglieli, ma la storia stessa si incarica di renderli palesi. Il faraone di Mosè non fa dei sogni e non cerca le spiegazioni di uno straniero, ma si attiene alla realtà della situazione e alla consulenza dei suoi tecnici: egli possiede una padronanza della attualità e abbisogna di mattoni e non di fandonie, non solo, gli stessi suoi consiglieri sono capaci di fare tutte, o quasi tutte, quelle cosiddette meraviglie che fa questo straniero. Si tratta di due situazioni completamente diverse. La prima quella di un uomo che è anche un re, ma che non ricusa il ‹mistero›, la seconda quella di chi non ha misteri e non ha difficoltà, perché ha a sua disposizione una potestà e una cultura sufficiente per non preoccuparsi dei dubbi e per risolvere i problemi. Mosè, come un poveruomo che crede in un Dio, che in Egitto non ha patria, è un fallito in partenza, anche se facesse miracoli anzi, malgrado egli li faccia, non è comunque preso in considerazione. D’altra parte il faraone non vuole inimicarsi del tutto un uomo stimato dai suoi connazionali e, almeno in certi casi, perfino dai suoi sudditi, per questo, costretto dalla necessità, mostra di negoziare, promette e non mantiene, cerca dei compromessi, ma trova un interlocutore intransigente. Le cose sono tirate alla lunga e, in una situazione del genere, non valgono le ragioni, ma i fatti e, questi fatti, sono le famose piaghe dell’Egitto mandate da Dio. Si tratta di comuni calamità naturali che capitano non di rado, anche se non sempre con quella gravità del nostro caso, ma che in quella data situazione sono dei veri miracoli. Il fatto stesso che colpiscono gli Egiziani e non gli Ebrei potrebbe avere una spiegazione naturale. Anche al tempo della peste del Manzoni i monatti, che erano gli infermieri del tempo, venivano reclutati in Svizzera, perché possedevano una immunità acquisita con il loro vivere in un ambiente più povero e più inquinato dai ratti responsabili del contagio, mentre i cittadini di Milano, che erano più ricchi, erano anche naturalmente più indifesi, proprio perché meno spartani. Malgrado tutte queste eventuali spiegazioni pur possibili, la Bibbia riferisce chiaramente che si trattava di miracoli e non di presunti fatti ai limiti della norma. Anche noi che leggiamo questo testo dobbiamo emettere un giudizio sull’esistenza o meno dei miracoli ma, a ben vedere, il problema principale non è questo, bensì è un’altro completamente diverso.
La questione non è se esistono i miracoli, bastano quelli di Lourdes a provarlo – del resto ogni fatto strepitoso accade come un miracolo, pur rimanendo senza motivo né spiegazione – ma 1) se esistono uomini che possono fare miracoli a differenza di tutti gli altri che non possono farli e 2), nel caso esistessero, perché solo alcuni li possono fare e non tutti. In altre parole, l’uomo comune si chiede: perché io non posso fare miracoli? Il problema così posto è più semplice, non è detto che la soluzione sia più facilmente accettata, anche se fosse più evidente e, in definitiva, più accettabile.
La risposta più esauriente è che chi può fare miracoli è solamente Dio. Si tratta del Dio di Mosè e non di quello dei tecnici, o dei maghi, o dei faraoni. Accontentiamoci di prendere atto che la Bibbia narra la storia di Mosè e non dei faraoni e ci accorgeremo facilmente che gli storici di ieri e di oggi non sempre hanno parlato dei vari Mosè che ci sono sulla terra; per esempio, neppure i contemporanei ammettono che la vita storica di Teresa di Calcutta sia tutta un vero miracolo. Certi problemi coinvolgono determinate soluzioni, ma non si possono architettare soluzioni solo per deformare il rilievo dei fatti, né la stessa soluzione dei problemi che i fatti richiedono. Ancora più chiaramente: non è la presunzione di impossibilità di un fatto una ragione sufficiente per impedire di ammetterlo. Questo non vuol dire che certi miracoli sono più comprensibili se si ammette anche una loro spiegazione naturale ma, se sono miracoli, sono talmente straordinari che la sola natura non riesce a spiegarli. In ogni caso quel che importa non è se un fatto sia un miracolo oppure no, ma capire e imparare quello che insegna ed annuncia. Non era importante per il faraone di Giuseppe sapere se i suoi sogni erano miracolosi oppure naturali, ma capire che doveva non sciupare nell’abbondanza e risparmiare nella povertà; allo stesso modo non era importante per il faraone di Mosè ascoltare i suoi maghi o accondiscendere alle richieste di un poveraccio sconosciuto, ma accorgersi che non avrebbe dovuto violare i diritti di natura delle persone che erano a lui sottoposte. In ogni caso, ai tempi del faraone    e soprattutto nel suo entourage, sembra non fosse abituale prestare attenzione a quei ‹segni dei tempi›, che richiedevano una spiegazione superiore alle conoscenze naturali, o tecniche della loro attuale scienza ufficiale.
Tutte queste spiegazioni, più o meno azzeccate, finiscono con il dipingere la figura di un faraone con un cuore duro e disumano come, appunto quello di chi non è uomo ma un Moloc crudele. Il termine moloc deriva dal nome di un dio semitico dotato di una potenza tanto immane quanto crudele. È mai possibile che il Dio di Mosè sia altrettanto crudele da voler di proposito indurire il cuore del faraone? Come mai il Signore sembra indurire il cuore del faraone al punto da non lasciar liberi gli Ebrei e permettere loro di costruirsi la propria fisionomia sociale non solamente come razza, ma anche come organizzazione nazionale? (Esodo. 4).
Il problema rimane per noi di non facile soluzione, un po’ meno per gli Ebrei che si trovavano in quelle condizioni. Eppure certamente avrebbero desiderato avere a che fare con un faraone  più malleabile, disposto a qualche concessione. Anche noi rimaniamo in dubbio che una civiltà così ricca di arte e di bellezza, affascinante ancora ai nostri tempi, possa aver avuto dei rappresentanti, per così dire, poco simpatici. Gli stessi Ebrei ne ammettevano la grandezza e la potenza, anche Mosè chiamato da Dio a rappresentarlo vede la differenza tra le sue possibilità e la superpotenza del faraone tanto che prega insistentemente il Signore di mandare un altro più eloquente e più convincente di quanto sia egli stesso a chiedere la libertà per il suo popolo. Non solo Mosè ripete con insistenza la richiesta di esonerarlo da questo compito, ma gli suggerisce di essere sostituito da Aronne suo fratello che è più eloquente e più riverito tra gli stessi suoi connazionali, al punto che Dio per un verso si ‹infuria› con Mosè e, per un altro verso, gli mette im mano un bastone di comando con il quale egli compirà prodigi e, nello stesso tempo, gli permette di servirsi dell’aiuto di suo fratello, così come egli avrebbe desiderato. (Esodo. 4).
Dio risponde così ai dubbi di Mosè con una collera che ovviamente non può sentire Dio, ma che deve sentire Mosè stesso, perché Dio può, e non solamente desidera o auspica: per questo, vuole che i suoi fedeli si tolgano ogni illusione, perché egli stesso ha privato di ogni bontà quelle persone che non hanno fiducia in lui. Il faraone   non ammette compromessi: solo la volontà di Dio è l’unico bene per gli Ebrei e per gli stessi Egiziani e, conseguentemente, Dio non può ammettere la bontà delle intenzioni del faraone e di tutti quei faraoni che si conducono come lui. Al volere di Dio deve corrispondere una altrettanto ferma volontà da parte dell’uomo nella fiducia in lui e non nell’illusione di una bontà più facile e più utilitaristica, riposta nei potenti di questa terra.
Bisogna trovarsi in certe condizioni, che sembrano senza uscita, per non ammettere che si possa cercare aiuto al Diavolo quando sembra di non averlo trovato nel Signore, ma l’unico aiuto di un Dio che vuole e può aiutare consiste nella fiducia in lui e nella dichiarata sfiducia in ogni accondiscendente accomodamento con chi è senza cuore, perché Dio stesso è stato costretto a toglierlo. La Bibbia semplicemente e più chiaramente lascia capire che l’Onnipotente vuole affermare la sua gloria nei confronti della boria dei suoi nemici, ma questa gloria non è altro che la gelosia di chi ama il suo popolo e non gli permette di cercare altri amori che sono invece la sua rovina. In pratica egli sembra dire all’Ebreo di allora che non potrà trovare amore da nessun’altra parte, per il semplice fatto che egli ha tolto ogni amore dove ce ne poteva essere solamente un rimasuglio, e non solo perché egli ha permesso che non ci sia.
Prima di chiudere questo argomento rimane ancora una perplessità per quel che riguarda la stessa richiesta che Mosè dovrà fare al faraone: chiedigli di permettere a te e al tuo popolo di lasciarti andare nel deserto per tre giorni di cammino, come se fosse un pellegrinaggio, con lo scopo di fare un sacrificio al Signore, (Esodo. 3).
Non si tratta di una bugia, ma di presentare una richiesta accettabile e facilmente giustificabile che avrebbe permesso al faraone di salvare la faccia presso i suoi sudditi. Egli aveva ben capito le reali intenzioni degli Ebrei, tanto è vero che non avrebbe voluto vederli partire con tutti i loro beni, e Mosè non gli nega che vuole trasferirsi al completo, ma Il Signore gli suggerisce di far sembrare l’esodo una sorta di pellegrinaggio rituale che non si sarebbe potuto proibire. Anche in questo caso quel che pare una bugia, contiene invece un significato profetico: sempre la vita di ogni uomo e di un intero popolo è un cammino nel deserto che, più veramente, corrisponde ad un pellegrinaggio verso la terra promessa.

Mosè nel deserto
Dopo esserci liberati con Mosè dalla schiavitù dell’Egitto, non si tratta ora di percorrere solamente un deserto, ma anche di piantarci le tende e questo equivale alla costituzione del popolo e dei cittadini in una nuova entità nazionale. Il termine costituzione richiama alla mente una legge, un trattato, un territorio che, per un verso sono dei limiti, per un altro verso delle possibilità. Il Mosè che si interpone tra l’Ebreo e l’Egiziano e tra i due Ebrei si sente chiamato dalla coscienza a farlo; egli che ancora dopo si interpone tra le mire del faraone e gli aneliti dei suoi connazionali si sente chiamato da Dio a farlo: è sempre lo stesso Mosè e lo stesso Dio che si presentano nelle successive vicende narrate dalla Bibbia, ma ora il panorama è cambiato e il termine di ‹costituzione› lo indica chiaramente. Come c’è una autorità morale, una dispositiva ed una naturale così ci sono delle leggi che mostrano questa realtà. Le leggi degli avvocati corrispondono a delle definizioni logico-analitiche delle ragioni sociali; necessitano di un tempo e di una procedura per essere discusse e rese autorevoli, in pratica, sono leggi dispositive e, nello stesso tempo, espositive. Le leggi dei tribunali sono procedurali e amministrative e, proprio per questo, riguardano la giustizia e riguardano un ordinamento ed una morale. Quelle che concernono la costituzione stessa della società, come se illustrassero la sua natura, sono appunto dette ‹costituzionali›. Mosè le incarna tutte e tre nella sua persona, ma le varie circostanze e le stesse esigenze della gente che vivono con lui richiedono una distinzione, proprio per salvare l’unità sociale. Questa distinzione può assomigliare a una divisione e a una rinuncia di Mosè a un impegno globale e, invece, Non si tratta di una sorta di abdicazione da parte sua agli impegni implicitamente presi con la guida del popolo nel deserto, non si tratta nemmeno di un ripiego di fronte alla necessità, ma di una obbedienza alla volontà di quella Legge che detta legge a tutte le altre che esistono a questo mondo. Dio stesso ne aveva indicato le premesse scegliendo Mosè, ma non senza Aronne, ed il suo suocero, immagine di ogni cittadino ebreo, glielo ricorda concretamente richiamandolo anche agli impegni personali, quando riportandogli moglie e figi sembra reintrodurlo nel suo ambito privato di capo-famiglia, esonerandolo in parte da capo di un intero popolo.
Mosè per poter fare quel che ha fatto ha dovuto affidare il resto della sua famiglia alle cure del suocero. In tutti i suoi frangenti egli non sapeva quando, e se, sarebbe tornato da loro, ma una volta avviato sulla strada del deserto riaccoglie in quella sua casa, che è una tenda, i figli e la moglie; eppure anche questo cosiddetto ritorno alla normalità ha un significato ben maggiore, perché corrisponde a un rinnovato inserimento nella tradizione degli avi. Ietro gli fa presente che per governare un popolo così numeroso non basta l’intervento straordinario di un Dio, ma è necessario anche il buon senso che di per sé è il più straordinario e il più eccezionale intervento di Dio se ci si accorge come sia un aiuto azzeccato e un’assistenza incessante, tanto è vero che non è più buon senso quando si allontana da questa normalità abitudinaria. Mosè ascolta il suocero e riorganizza la compagine del suo popolo con la costituzione dei capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine, che devono essere: «Integri, che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità». Per un incarico del genere contano meno le competenze scientifiche e contano molto di più quelle morali. Ce n’è abbastanza per trarne un insegnamento. Mosè ascolta il suo consiglio e il Dio di Mosè sembra approvarlo direttamente se d’ora innanzi chiamerà, pur a maggior distanza, anche altri scelti tra costoro ad assistere ai suoi colloqui diretti che egli continua a intrattenere con Mosè (Esodo. 18).
Dalla considerazione di questo dato di fatto sorgono molte domande.
Chi ha costituito le leggi degli Ebrei?
Quale di queste ha predominio sulle altre?
Si possono cambiare, oppure sono leggi eterne?
Valgono per i soli Ebrei, oppure sono un paradigma utile o magari obbligatorio per ogni popolo?
Certamente non sono solo queste le domande che si affacciano alla nostra considerazione, ma queste e tutte le altre possibili sono collegate tra loro, per cui rispondendo ad una sola si trovano già le indicazioni che riguardano le altre.
Chi ha costituito le leggi degli Ebrei nel deserto? Così come è formulata la questione è mal posta, perché lascia intendere che ci possano essere autorità tra loro diverse al punto di imporre ad un medesimo suddito comandi di diverso valore che potrebbero essere in contrasto tra loro. L’uomo non può ‹volere› e ‹non volere› nello stesso tempo la stessa cosa, e non può preferire tra disposizioni diverse quella che più gli conviene a sua scelta: se deve obbedire deve anche essere sicuro di non eseguire un male, ma di perseguire sempre il bene. D’altra parte anche noi abbiamo parlato di autorità dispositiva, morale e naturale come se esistessero autorità diverse con leggi non uguali. Il problema non riguarda la sola autorità ma è più generale e va sotto un nome che le riassume tutte: quello dell’‹unità-distinzione›. In effetti è solo la poca comprensione di cosa sia l’unità che mette in dubbio l’apporto contemporaneo della molteplicità, al punto che finisce per dividere ciò che è ‹uno› e mescolare o confondere ciò che, nel medesimo tempo è ‹distinto›.
Quando Mosè dirime le questioni di quello o di quell’altro Ebreo non si domanda chi gli ha dato questa autorità, ma si appella alla propria coscienza. Allo stesso modo quando segue il parere del suocero non obbedisce a qualcuno più avveduto o a qualche proposta di un’organizzazione più conveniente, ma alla natura della stessa società. Perfino quando assume l’incarico espressogli da Dio, non tralascia di essere approvato dagli anziani del popolo e il popolo non obbedisce solo a Mosè o solamente a Dio. L’autorità e il volere umano non fanno a pugni con l’autorità ed il volere di Dio, come se fossero ciascuno senza l’altro. Questo è evidente nelle pagine della Bibbia, o almeno era evidente ai tempi di Mosè. Se ci fossero autorità divise, al punto da essere tra loro opposte, non abbiamo più alcuna ragione per cercare la pace, ma solamente dei compromessi che, anche nel caso non siano più convenienti, cerchino di prevenire quelle contese che vanno dai litigi più piccoli, per arrivare agli olocausti delle bombe atomiche. Non si può far finta di far la pace, tenendo in riserva la possibilità di far la guerra, perché questo è semplicemente un imbroglio che può essere inavvertito ma che, alle volte, è perfino contro coscienza. La molteplicità delle disposizioni autoritarie è necessaria per capire meglio l’unica autorità dell’unica società, allo stesso modo che la molteplicità delle cognizioni è necessaria per conoscere l’unica verità. Lo stesso uomo possiede delle distinzioni che sono la ragione, la volontà e la natura, ma per giudicare il vero non può fidarsi della sola ragione, né per volere il bene non può amare con le sole virtù dello spirito e, ancor più necessariamente, per esprimere il ‹proprio-sé› non può appoggiarsi solamente ai programmi della sua natura. L’uomo è un sinolo con tutte le sue distinzioni e la sua unità, ma anche ogni cosa e l’intero universo esprime e esprimono un ordine, una logica e un essere senza confusione né mescolanza. Tutto questo se non altro per analogia e, più semplicemente, per riuscire a vivere e poter continuare a vivere. L’uomo della Bibbia fino a queste pagine è un uomo che vive: egli cammina in quel mondo che sembra un ‹deserto›, al punto che non è nemmeno sicuro se domani potrà nutrirsi di quella manna che oggi ha raccolto senza sapere cosa fosse, ma il deserto è invece lo stesso mondo che lo circonda e lo accoglie come in una casa, per questo anche se lo sente misterioso e confuso, per un altro verso, lo guarda con una fiducia che ha una spiegazione solo ammettendo la guida di una Unità ideale e personale che lo conduce per mano.
La Bibbia va delineando in questo modo una figura diversa dalle precedenti di uomo e, insieme, diversa di Dio. La stessa terminologia è cambiata: non siamo più davanti alla figura del Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, ma al cospetto del Dio dell’uomo o, più chiaramente, al cospetto del ‹Dio di Dio› o, per usare le parole della Bibbia, del Dio che ‹È colui che È›. Il rapporto tra Dio e l’uomo è sempre personale – non è mai senza un Mosè – ma ogni uomo è avviato a diventare un Mosè e ad avere un rapporto unico con il suo Dio. Gli Ebrei del deserto quando manca l’acqua e il pane si lamentano con Mosè e danno la colpa a lui delle loro difficoltà, ma egli risponde chiaramente che la ‹colpa› semmai è di Dio e che loro devono lamentarsi con lui o, se fossero più conseguenti, chiedere a lui il rimedio ai propri mali, e non aspettarsi una soluzione, che un uomo uguale a loro stessi e a tutti gli altri non poteva assicurare. (Esodo. 16).
Del resto non solo l’Ebreo comune, ma anche lo stesso Ebreo che si chiamava Mosè deve confrontarsi con Dio, come tutti gli altri suoi connazionali e anch’egli patisce i dubbi e le incertezza che colpivano anche loro. Ancora una volta viene a mancare l’acqua e il popolo si ribella apertamente a chi lo guida: "Non erano forse migliori le condizioni che dovevamo sopportare quando eravamo schiavi al posto di quelle che abbiamo trovate ora che siamo liberi? Abbiamo forse obbedito a Dio, oppure ci siamo lasciati convincere da gente qualunque, come un Mosè e un Aronne?". Ma il Signore interviene ancora una volta e rivolto a Mosè: "Prendi il bastone, percuoti la rupe e sgorgheranno acque vive in abbondanza". Ebbene, fin qui ha dubitato la gente comune, ma ora dubitano anche i profeti. Mosè e Aronne convocano il popolo: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». E il Signore risponde a questa domanda facendo sgorgare le acque dalla rupe ma, nello stesso tempo, si lamenta con i suoi ministri: «Poiché non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le sto per dare» (Numeri. 20).
Dobbiamo metterci nei panni di quel singolo individuo perduto in un mondo di difficoltà, come del resto non è nemmeno un fatto raro ai nostri giorni, per capire come egli possa perdere di vista ogni prospettiva: non ha perso l’ottimismo ma, ancor peggio, è quasi costretto a rinunciare alle stesse virtù della speranza e della fiducia. Come ci si può fidare di un Dio così lontano, mentre ci sarebbero tanti aiuti a disposizione più vicini e più concreti? Non è forse chiedere un po’ troppo a quel comune mortale che è l’uomo? Non è forse più opportuno avere un miraggio meno esagerato, meno divino e, per così dire, più umano? Certamente la posta in gioco sembra superare le possibilità degli uomini, ma piuttosto che niente non è forse più logico cercare aiuto in un ‹qualcosa› o in un ‹qualcuno› anche se è una mezza misura? E, perché no, se fosse più conveniente?
Eppure l’uomo continuerà a cercare sempre ‹il più› e faticare per conseguire sempre ‹il meglio›. Egli non è un animale ragionevole se vuole quello che egli non ha, a meno che lo chieda a chi glielo può dare ma, se nessuno glielo può dare, perché ancora si rimette a cercarlo?
Gli Ebrei si accorgono subito di questo dilemma pratico che nasconde una incoerenza teorica e, stanchi di rivolgersi a Dio si accontentano di una bandiera, o di una immagine e creano essi stessi un Dio a misura d’uomo. Nasce così un idolo per il popolo che è un bue di oro fuso: non è solo il risultato di una tecnica, né solamente la scoperta di un lavoro scientifico, ma è un simbolo di quella forza naturale che domina l’intero universo, senza sapere nemmeno bene cosa essa sia. (Esodo. 32).
Non è una assurdità: anche noi al posto di cercare la soluzione dei nostri problemi domandandola a Dio, ci rivolgiamo altre volte ai nostri idoli abituali. Per gli Ebrei un bue era una potenza superiore ad ogni speranza, costretti com’erano a trasportare le loro masserizie di nomadi sulle proprie spalle o, al massimo, sulla groppa di un povero asinello. Per noi il nostro bue è il progresso e, se il progresso è passato di moda, allora è la scienza e, se anche questa al posto di ridurre i problemi sembra aumentarli, allora ci rivolgiamo alla ecologia, così al posto di quella scienza che è insicura ci affidiamo alla natura come se fosse conservabile e sostituiamo la fiducia con le previsioni, le virtù con quei calcoli che ci sembrano più opportuni, anche se l’opportunità è relativa solo in quel momento che stiamo vivendo e che, domani, richiederà l’intervento di altri idoli.

Mosè del decalogo
A questo punto della narrazione biblica e del nostro commento, improvvisamente avviene un fatto nuovo e sorprendente che ci costringe a riconsiderare tutte quelle affermazioni che abbiamo fatto sin qui. È un evento straordinario che ci ripropone in veste totalmente diversa dai precedenti un problema di fondo che non nasce dalla teoria o dalla immaginazione, ma dalla vita pratica.
Dobbiamo quindi riesaminare quello che la Bibbia ci ha narrato finora. Abbiamo accettato il suo racconto quasi senza porci delle domande, che tuttavia non possiamo evitare.
Gli Ebrei erano più liberi in Egitto o nel deserto? Erano stati più servi prima sotto il faraone oppure più sottomessi a Dio dopo?
Erano sempre schiavi, come prima anche dopo, ma non del faraone o di Dio, bensì delle loro necessità; in pratica, avevano bisogno di sopravvivere e, in Egitto, mangiavano le cipolle, nel deserto la manna. La differenza stava nel fatto che le cipolle rappresentavano il compenso di un lavoro, mentre la manna era un dono piovuto dal cielo. Chi era più potente il faraone o Dio? Chi aveva più autorità o, in parole povere, chi aveva il diritto di comandare di più? Anzi, quale delle due autorità era più arbitraria per non dire imprevedibile: quella del faraone che pagava un misero compenso per un lavoro che era opprimente o quella di Dio che chiedeva una obbedienza ed una fiducia solo in base ad una vaga promessa di un bene futuro e su una paga di un pane – la manna – che, anche se ripetutamente, durava una sola giornata?
In quelle circostanze, si può capire che esistesse una questione del genere; se gli Ebrei fossero stati invece sicuri di aver risorse vitali, senza preoccupazione e per sempre, forse non si sarebbero sentiti tanto dipendenti da questa o da quell’altra autorità, ma ciascuno sarebbe andato avanti per proprio conto, con la certezza di avere più potere di un faraone e di un dio messi insieme. Si può perfino pensare che avrebbero potuto trovare un’autorità ancor più potente accordandosi tra loro, ma anche questo dipendeva da una somma di pareri che a loro volta erano condizionati da una somma di necessità, al punto che lo stesso accordo sarebbe stato una necessità aggiunta ed un condizionamento più costrittivo dello stesso faraone. La risposta a questo problema data dagli Ebrei nel deserto è inequivocabile: perfino quando non sentirono più la voce di Dio per bocca di Mosè, preferirono sempre un dio al posto di un faraone e, non trovandolo in quel momento, lo fabbricarono loro stessi di oro fuso, tanto più che si accorgevano che non avrebbero potuto tanto facilmente ritornare in Egitto. Noi tuttavia ci chiediamo come mai avessero rifiutato il Dio che aveva parlato per la bocca di Mosè, per accontentarsi della statua di un bue che invece taceva. La risposta più semplice è che possedevano una razionalità iconica, che è propria dei bambini e dei popoli con un’esperienza, per così dire, ancora infantile, con tutte le caratteristiche di artificiosità e di suggestione magica, proprie di questo stadio dello sviluppo cognitivo. Quando il Dio di Mosè li ‹castigherà›, come una mamma castiga il suo bambino che ha disobbedito, si accorgeranno dolorosamente che la realtà è più cruda dell’immagine di un sogno e più dura di un ‹giocattolo-artificio› opera delle mani dell’uomo. Del resto sia i sogni, sia i giocattoli anche oggi indicano che la razionalità bambina non si estingue nemmeno negli adulti, tanto da pensare che età e maturità non sempre arrivano insieme. Il motivo di questa razionalità immaginativa o iconica dipendeva dal fatto che il bue lo vedevano, Dio lo potevano solamente credere e pensare, mentre una dimostrazione sensibile soddisfaceva a quei tempi maggiormente la ragione della gente, che non quella basata sulla logica e sulle virtù; questo forse, perché la prima ha un aspetto più naturale, solo perché alle volte è più immediato; in questo senso per loro, ciò che era fatto artificialmente sembrava più vero di ciò che non conoscevano ancora bene, per il solo fatto che non era stato ‹costruito› da chi lo doveva riconoscere. In pratica con questa razionalità diventa più vero ciò che l’uomo fa, che non quello che esiste, ma che l’uomo non conosce bene, anche se questa verità dura poco ed è ‹fatta›, bensì è ‹artificiosa›. In ogni caso, se questo è il problema, la risposta data dalla Bibbia lo supera del tutto e prospetta una visione sia dell’autorità, sia dei sottoposti al di là di ogni considerazione legata alle condizioni ed alle necessità del momento, tanto che è stata riconosciuta e adottata quasi universalmente, sebbene proposta ad un piccolo gruppo di gente che, almeno in quel tempo, aveva una rilevanza insignificante nella storia dell’umanità. Per cercare di capire la sua importanza bisogna premettere ulteriori considerazioni, che riguardano un altro argomento: quello della fiducia in Dio e, quindi, dell’obbedienza alla sua autorità.
Ritorniamo alla situazione degli Ebrei in un deserto necessario e necessitante, che sperano o pretendono di ricevere un aiuto da Dio. Un uomo che chiede qualcosa a qualcuno deve avere dei buoni motivi per esigere o sperare di essere soddisfatto. Il bambino chiede al papà senza una ragione economica, ma magica. In altre parole crede che il papà lo possa soddisfare perché dotato di poteri miracolosi, solo perché sono superiori alle sue povere forze infantili. Un fanciullo è già disposto a far qualche servizio in casa per ottenere la paghetta a fine settimana. Un giovane, anche se ancora pretende, sogna già di produrre con le proprie mani quello di cui ha bisogno, senza dipendere dal padre. Ebbene, se questi sono i ‹motivi logici›, ci sono ancora delle ‹mozioni affettive›: i primi dipendono dalla ragione, i secondi da quel qualcosa alle volte mal definito che è appunto l’affettività. Il bambino chiede perché si sente parte viva del padre, come se fosse legato a lui non tanto necessariamente, ma neppure liberamente, in un certo modo confuso, dove il padre è un più grande se può dare, ma dove egli non è da meno se ha il diritto di ricevere. Il fanciullo si sente legato al padre costretto da una necessità, che è quella di ricevere, d’altra parte aspira ad una libertà, perché è pronto a pagarla; tra padre e figlio c’è per un verso una divisione e, per un altro verso, una dipendenza necessaria che caratterizza il rapporto affettivo tra uguali che contrattano la loro convenienza reciproca. L’adulto non ha più bisogno del padre e il rapporto da un punto di vista razionale supera la stessa necessità; ma non per questo diventa meno importante il rapporto affettivo, infatti, il figlio non sfugge alle sue responsabilità e, in questo modo, diventa corresponsabile insieme al padre.
Da queste considerazioni ci accorgiamo ben presto che il rapporto tra gli Ebrei e Dio a questa età della loro storia stia cambiando per passare da quello tipico del bambino a quello piuttosto del fanciullo che contratta con il padre la paghetta promettendogli di essere obbediente, che per gli Ebrei consisteva in una impegno di fedeltà in contraccambio di una promessa di aiuto. Era sempre un rapporto di dipendenza, anche se reciproca, e richiesto per soddisfare una necessità, per questo non era del tutto libero e, anche oggi, se il figlio avanza le sue ragioni, si accorge benissimo che solo il padre lo può accontentare, perché egli non vive di ragioni ma di doni pratici. Malgrado ciò avverte anche che la sua affettività non è strettamente condizionata dalla necessità, ma che è anche rivolta ad un padre con una trattativa libera, eppure grata, senza misure, pur cercando una misura e un ordine nello stesso rapporto. L’affettività del fanciullo introduce tra padre e figlio un qualcosa che prima il figlio non conosceva che corrisponde a una misura e a un ordine ed è questo ordine che merita nella pratica quotidiana di essere chiamato con il termine di libertà. Quindi la libertà non sta tanto nel potere dell’uno o dell’altro degli interlocutori, ma nell’ordine tra poteri. Solo più avanti nello sviluppo razionale, nell’uomo maturo questi poteri saranno, per così dire, paritetici e la libertà sarà tanto ordinata, quanto illimitata in un Ordine (con l’iniziale maiuscola) che è onnicomprensivo.
Ebbene, se il figlio adulto nei riguardi del padre è libero in base ad una mancanza di necessità e ad una uguaglianza di poteri, si può forse affermare che anche quel figlio di quel padre che è Dio ha superato ogni necessità al punto di aver conseguito una uguaglianza di possibilità con il padre?
Gli Ebrei non hanno discusso questo problema con il rappresentante del loro Dio, che era Mosè, ma il dato di fatto rimane e il Dio biblico ha dato una risposta, non con ragionamenti filosofici, neppure con prescrizioni affettive, ma contrapponendo al problema una soluzione e non una spiegazione. Si tratta della promulgazione del decalogo. Il figlio di quel padre che è Dio, il suddito di quel signore che è Dio, riceve dalle mani di Dio stesso una magna carta che lo libera da ogni necessità e lo fa responsabile come se avesse lo stesso potere di chi gliela ha consegnata. Si tratta di un ordine nuovo e valido per sempre, incondizionato, e non più arbitrario che fa diventare l’uomo singolo responsabile di se stesso come l’adulto è corresponsabile con il suo genitore e, per questo, lo rende veramente libero e non dipendente. Con il decalogo l’uomo sa sempre cosa fare ed acquista una libertà corrispondente alla sua natura, anche se di fatto la sua natura è stata creata dal padre ed è sempre un dono, allo stesso modo che la libertà ricevuta è un dono aggiunto e gratuito offerto al figlio. Con questo non è detto che tutti gli Ebrei si siano sentiti liberati, sia dalle necessità, sia da un contratto che li soddisfaceva, anzi, proprio perché la loro razionalità era ancora concettuale e non eidetica, Dio stesso si incarica di presentare la sua alleanza non tanto per quel dono libero e liberare che è, ma come effetto di una convenienza reciproca ripagandolo con il suo aiuto. Tutta la storia ebraica dopo l’alleanza è connessa con questo contratto: gli Ebrei si accorgeranno della forza dell’aiuto del Signore, solo quando riconosceranno il loro impegno di obbedire all’alleanza che hanno stipulato direttamente con lui per mezzo di Mosè, che qui assume una funzione simile a quella di un notaio e non a quella di un legislatore o di un uomo investito di potere. Dio a quei tempi si è comportato come una mamma che si adatta alla comprensione del fanciullo e gli promette un premio se obbedisce, ma non per questo gli nasconde la verità che egli stesso capirà obbedendo: quella di ciò che è ‹il bene› che la sola ‹convenienza› aveva adombrato. Il decalogo è la rivelazione del ‹bene›,ma ancora compreso come ‹utile›: la verità reale e ontologica sta in quel dato di fatto che è il bene, mentre la verità apparente e fenomenologica – ma non falsa – sta in quello che l’utilitarismo mostra: la comprensione è concettuale, la rivelazione è ideale. L’uno significato non esclude l’altro e nemmeno lo nasconde, ma lo riveste di accessibilità logica che è valida e possibile solo ad una condizione implicita nel contratto e implicitamente accettata dai contraenti. Non si tratta di una condizione artificiale e nemmeno magica, se sembra superare la logica, non è nemmeno irrazionale, non dipende dalla natura diversa dei contraenti, ma dalla analogia dell’ordine insito nella stessa alleanza. L’ordine è un termine che ben compreso ha una importanza non solo in quel momento ma fondamentale. Questo ordine si basa su una virtù e questa virtù si chiama ‹fede›.
Bisogna dimenticare tutto quello che questo termine può significare abitualmente, perché è sempre riduttivo e irrazionale. Per capire cosa sia la fede già lo dice l’alleanza sinaitica, fondata su una promessa vicendevole, che sarebbe senza alcun valore, se mancasse di una fiducia reciproca. Ma questo termine ha un significato generale e l’ordine che consegue sottende una analogia universale. Quando un qualsiasi uomo conosce qualcosa presta la sua attenzione affettiva all’oggetto contattato, e ripone in lui una certa fiducia, aspettando dal come si mostra, una ‹rivelazione› di ciò che esso è, che sia corrispondente e adeguata. Quando un uomo conosce un suo simile lo incontra con un sorriso che esprime fiducia di poterlo capire, e non si dispone con quel sospetto che denota sfiducia, ma che nasconde la presunzione di un imbroglio, premessa di ogni incomprensione. Allo stesso modo, quando l’uomo biblico contempla Dio non lo può capire se non ha fiducia in quelle ‹apparenze› che glielo lo fanno ‹vedere›. Senza fiducia non c’è comprensione, ma la fede non corrisponde a una motivazione logica, bensì ad una mozione dello spirito: in una parola è una virtù infusa che, se è pura, aiuta la ragione a diventare sempre più chiara, e anche la fede, con una ragione più chiara, diventa sempre più pura e cristallina, affincè ragione e virtù possano vedere meglio e insieme più ordinatamente.
A questo punto bisogna spendere due parole sulla conoscenza eidetica (secondo idee) dell’uomo maturo e su quella mistica possibile a qualsiasi età, sia nel bambino, sia nell’uomo maturo.
Tra la razionalità concettuale e quella eidetica c’è un passaggio caratterizzato dal diverso significato delle due conoscenze che esse permettono. Al posto di illustrare questa differenza con una disquisizione teorica preferisco qui descrivere i due processi cognitivi come avvengono in pratica.
Ammettiamo che il fidanzato porti alla sua amata un regalo, ebbene, quale è il significato di questo regalo? Ovviamente non è un significato uguale per tutti e due gli interlocutori e per qualsiasi cosa regalata. È diverso se è un monile di oro gemmato di pietre preziose, oppure se è un mazzo di rose, eppure questa valutazione corrisponde ad un apprezzamento economico, non ad una valorizzazione del significato del dono. Di per sé, indipendentemente dal fatto che è o non è un dono, il prezzo non cambia ed è legato alla materialità dell'oggetto ma, se invece è un dono, non si può misurare a suon di moneta, perché non cerca un compenso in un contraccambio più o meno palese. La differenza tra significato e prezzo sta tutto nella effettività – nel senso di finalità – diversa della stessa realtà. Il prezzo è legato all’oggetto ed è oggettuale, il significato è legato alla manifestazione delle intenzioni del soggetto e in risposta – non in dipendenza necessaria – è altresì legato al riconoscimento intenzionale e volontario da parte di quell’altro soggetto che lo riceve, in altre parole, il significato è una realtà sia intersoggettiva sia obiettiva. Dove sta questa differenza? Nel fatto che gli interlocutori e la realtà materiale sono tra loro legati da un ordine e non da una necessità. L’ordine è libero e quindi deve sottostare ad una volontà di ordine per essere obiettivo o, in altre parole, per rimanere concreto e reale, mentre la necessità non ha né un motivo logico né una mozione intenzionale, non è finalizzata, ma è determinata: quel che costa un regalo non dipende dall’amore di chi lo dona, ma è contrattato o stabilito da chi glielo ha venduto. Quando il rapporto cerca cause e scopi diventa comunicazione di un messaggio e di un ordine e non scambio economico così, quando la conoscenza comunica, allora dipende da una razionalità che comprende le idee e che si chiama eidetica, quando cerca prezzi e misure dipende da una razionalità che comprende avvisi e istruzioni che sono concetti, e la conoscenza relativa si chiama concettuale.
Oltre a questi modi di conoscere ne esiste ancora uno che è la ‹conoscenza mistica› ben diversa da tutte le altre, anche da quella eidetica. Di per sé prima di una conoscenza mistica si dovrebbe parlare di una ‹conoscenza intuitiva›, ma la differenza è solo di grado e non di qualità – in pratica quella intuitiva è più comune e usata abitualmente e non solamente per argomenti ‹difficili›. Il termine di conoscenza mistica include un qualcosa di misterioso. È più facile comprendere in che cosa consiste paragonandola con la conoscenza scientifica, che fa parte sempre delle conoscenze concettuali e eidetiche. La conoscenza scientifica consiste in una risposta sperimentale che comprova una ipotesi; fornisce un largo margine di sicurezza su un argomento limitato, ma non aumenta la conoscenza bensì la comprova e la precisa. Quel che aumenta la conoscenza non è la sola sperimentazione, ma la partecipazione unitaria tra soggetto ed oggetto conosciuto; va da un minimo di intuizione ad un massimo mistico: consiste nella costruzione di quel quasi ente nuovo che in tedesco si chiama Bekanntschaft, o in inglese acquaintance, che in certi casi assomiglia ad una specie di innamoramento, per arrivare a quella unione che, appunto, si dice intuitiva e, in certi casi, mistica. Il termine indica una conoscenza che sembra avvolta nel mistero per via del come avviene, non per quel che si conosce, infatti, mentre la conoscenza scientifica usa della ripetizione di un fenomeno come prova della sua possibilità e della sua concretezza – per cui, almeno in apparenza, usa una razionalità programmata e comprensibile –, la conoscenza mistica non è voluta esclusivamente dal soggetto conoscente, non è limitata al sensibile, ma consiste in una sorta di comunicazione non delle sole ragioni, ma dello stesso modo di ragionare, in altre parole in una sorta di ‹comune-unione› tra l'esistere del conosciuto e l'esistere del conoscente. È quindi una partecipazione di vita. La conoscenza mistica cambia la persona che la sperimenta ed aumenta sia la conoscenza dell’oggetto sia la stessa capacità di conoscere del soggetto conoscente. Una persona che ha acquisito una conoscenza mistica non ha bisogno di prove per essere certa della verità, perché vive una ‹corrispondenza› con il ‹conosciuto› che è vitale e, per così dire, comune (intersoggettiva) che costituisce una ‹partecipazione› della stessa vita del soggetto e dell’oggetto conosciuto, al punto che potrebbe morire se venisse a mancare. Non tutte le conoscenze mistiche sono una sorta di rivelazione improvvisa, ma anche quelle che crescono di giorno in giorno assumono tutti i caratteri di un aumento di conoscenza che si può benissimo chiamare rivelazione. La persona che la prova non è più quella di prima e anche gli altri si accorgono che è cambiata radicalmente. Per questo una vera conoscenza mistica è sempre reale e concreta, mentre i misticismi che non sono mistici, sono falsi, non sono mai reali né concreti. Essi assomigliano al fenomeno mistico, ma solo esteriormente; esse al contrario esasperano la soggettività del conoscente che ‹vede› la realtà dal suo punto di vista, pressappoco come l’ha sempre veduta, ma ora in modo esclusivo e totale. In questo senso, non aumentano la conoscenza stessa, semmai la rendono accanita e ostinata, malgrado sia falsa. La conoscenza mistica è vera conoscenza di una comunicazione che prima era sconosciuta, e non un aumento di convinzioni personali al limite della infatuazione e del fanatismo. In pratica la conoscenza scientifica è analitica ed assomiglia ad una discriminazione, mentre la conoscenza mistica è analogica e dipende da un ordine che si basa sull’‹unità-distinzione›. Questo non significa che in alcuni casi la conoscenza mistica possa essere mescolata ad una certa dose di misticismo, ma si tratta di una impurità che diminuisce la mistica stessa. Gli interlocutori della conoscenza mistica diventano tra loro persone e realtà inseparabili, pur mantenendo la loro distinzione, mentre lo scienziato può anche innamorarsi della sua scienza, ma non necessariamente e solo occasionalmente, tanto che egli può benissimo vivere anche senza di essa. Si capisce perché questo tipo di conoscenza mistica non dipenda dall’età dello sviluppo cognitivo del soggetto conoscente, ma dalla partecipazione e dalla analogia che lo unisce nella ‹conoscenza› e non lo lega solo pro forma all’oggetto conosciuto. Soprattutto si capisce come una conoscenza del genere possa avvenire tra realtà così diverse tra loro da possedere non solo una ragione ed una affettività disuguale, ma persino una natura incomparabile. È evidente che chi conosce il ferro non diventa ferro, né si ferma a discutere con la pirite, ma è anche più vero che con questa conoscenza egli diventa fabbroferraio e la pirite diventa ferro, perché insieme hanno cambiato la loro esistenza. È evidente che la mamma non si ferma a discutere con il bambino, ma il bambino diventa uomo e la madre diventa veramente madre e non solamente genitrice. È evidente che Dio… Qui la situazione è ben più importante, anche se non è diversa. La Bibbia ci racconta un fatto evidente: quello di Dio che si ferma a parlare con l’uomo e come l’uomo possa, in qualche modo, acquisire un modo di vivere per così dire divino e Dio un altro modo di esistere per così dire umano. Ebbene, nel caso di Mosè noi conosciamo il discorso di Dio e se vogliamo possiamo conoscere anche quella sorta di divinizzazione che questo discorso produce con la comunicazione mistica del suo significato: il discorso in parola si chiama ‹decalogo›.


L’uomo del Dio di Mosè 
e il Dio dell’uomo Mosè
Per comprendere, almeno in via provvisoria, questa divinizzazione dell’uomo la possiamo paragonare con un acquisto di una maggiore libertà. Possiamo dire che è Dio che fa gli uomini liberi e non sono gli uomini che sono liberi di fare un dio. Certo, possono ‹creare› un dio-idolo, ma con quei lineamenti che rispecchiano i limiti della loro natura che sono quegli stessi limiti che li costringono a diventare schiavi di quello che hanno creato. In altre parole, possono fare un idolo che è un re o un faraone, oppure eleggerne uno che è un presidente della repubblica, o un gran maestro, oppure un dirigente sindacale o un qualsiasi commissario del popolo, o semplicemente il poliziotto di quartiere, ma dopo diventano condizionati e schiavi di quell’idolo che hanno creato. Dio invece vuole avere a che fare con degli uomini liberi, perché non può amare degli schiavi, ma delle persone vere. Ebbene, gli uomini possono essere liberi solo se si riferiscono ad un ordine ‹assoluto›, ovverosia soluto ed indipendente da ogni vincolo e questo è possibile solamente se la stessa autorità è assoluta e perfetta, non vincolata da miserie e imperfezioni. In pratica l’uomo per essere libero deve essere quasi dio, ma per essere un quasi dio ha bisogno di un Dio vero e totale che, ovviamente, non può essere il dio fatto o scelto, con le loro mani, o con i loro voti elettorali. L’uomo che Dio vuole riconoscere non è solamente una sua creatura, non è solamente liberato, ma è veramente libero ed ha la possibilità di esserlo, perché Dio stesso lo ha istruito e lo ha iniziato a percorrere quella strada che arriva a questa meta, mettendogli in mano il vademecum della libertà che egli ha scritto su tavole di pietra: il decalogo.
Si tratta di un evento veramente miracoloso: Mosè si ferma con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua, ovverosia senza lasciarsi condizionare da alcuna necessità e, Il Signore stesso scrive sulle tavole di pietra le parole dell’Alleanza.
In questa ‹comunicazione-comunione›, che è la conoscenza mistica nel massimo del suo splendore, Mosè cambia e non è più come era prima. Quando scende dal monte del suo colloquio con Dio ha il volto luminoso. Gli Israeliti vedono il suo volto raggiante e si accorgono che ha ‹conosciuto› Dio, ma poi egli lo deve coprire con un velo per non abbagliare i suoi interlocutori (Esodo. 32).
Bisognerebbe fermarsi qui per comprendere meglio le comunicazioni del testo biblico: esso lascia intravedere in Mosè l’ideale dell’uomo al quale gli Israeliti tendono avvicinarsi, pur vincendo paura e soggezione, ma noi dobbiamo seguire il corso della esposizione intrapresa.
Il decalogo inizia con un riferimento all’‹Assoluto› e non con una relazione programmatica o una disposizione legalista. Non dipende dalle possibilità contingenti degli interlocutori e non è una risposta alle loro necessità, ma è una proclamazione della gloria di Dio e nello stesso tempo una promulgazione della dignità dell’uomo. L’uomo del decalogo non obbedisce per necessità, anzi non obbedisce in generale e ancor meno non comanda in particolare, ma prima di obbedire ‹è›, e non solo agisce, ovverosia è ‹essere›, analogamente, sebbene molto diversamente, di Dio che ‹è›, e non solo ‹esiste› creando la storia. Più tardi i filosofi stoici affermeranno che l’uomo è libero, quando obbedisce alla natura e, per questo, propugnarono una certa ‹pace› con la natura e di tutti gli uomini tra loro, ma qui la situazione è ben diversa. L’ordine naturale non è frutto solamente di una ascetica, non è opera dell’uomo e non è nemmeno solo obbedienza al volere di Dio. Dio si presenta all’uomo Mosè, quasi alla pari, non come chi detta legge, ma chi stipula un’alleanza. Il termine alleanza è differente da quello di contratto e richiede una razionalità secondo idee e non solamente concettuale. Il contratto prevede un ‹do ut des› o una sorta di scambio paritetico, mentre l’alleanza è ordinata alla partecipazione indipendentemente dalla grandezza o dalla potenza degli alleati. Le due nature quella di Dio e dell’uomo sono ben diverse, eppure non solo si conoscono, ma si riconoscono, in altre parole non solo si completano, ma si amano fino a formare una certa ‹unità› per quanto possibile. Gli stoici per spiegare la libertà dell’uomo raccontano una favola: quella degli animali che tirano il carretto della loro esistenza guidati dal conducente che, appunto, è la natura. Una favola adatta a spiegare l’alleanza – non quindi solamente con un’‹anima› ma con una persona – è quella che scrissi tempo fa in un libretto di apologhi che qui ricopio.
C’era una volta un contadino che tornava a casa seduto sul suo carretto, tirato da un bue che andava avanti adagio, ma con sicurezza, obbediente com’era sempre stato ai comandi del padrone; poi, legati al carro, c’erano ancora un cavallo che scalpitava perché la comitiva si attardava, un asino che resisteva perché faceva il Bastian contrario e, davanti a tutti, un cane che tirava con tutta la sua forza, solo perché voleva bene al suo padrone. Il contadino con le redini in mano, avrebbe voluto lasciare a tutte le sue bestie la libertà di fare come il cane, ma in qualche modo doveva pur dirigere la comitiva e, allora aveva il suo da fare, a spingere il bue con il pungolo, a tenere a freno il cavallo con il morso e a ridurre con la frusta a buoni propositi il somaro, perché tutti tenessero il passo insieme, anche se erano più rassegnati che convinti, salvo il cane che andava avanti volentieri, perché sapeva d’essere d’accordo col padrone. Alla fine del viaggio bue, cavallo e asino andarono a dormire nella stalla, il cane invece entrò in casa insieme al contadino, perché da sempre erano amici. Ma, se la favola ha da significar qualcosa, può essere un esempio della libertà, non degli animali certamente, ma di tutti noi che, come loro, abbiamo ogni giorno il nostro carro da tirare avanti insieme. (Le chiavi del castello).
La seconda differenza importante tra lo stoicismo e l’alleanza sinaitica sta nel fatto riferito che gli Ebrei subito dopo aver ricevuto la rivelazione della natura umana non si trovano amici e fratelli dei popoli confinanti, al contrario si sentono incaricati da Dio stesso di sterminarli.
La Bibbia come al solito non spiega il fatto, ma lo riferisce, il difficile non sta nel recepirlo, ma nel capirlo. Prima di tutto non si può affermare che sia senza significato, semmai razionalmente e affettivamente noi non siamo preparati a comprenderlo. Il problema è ancora più sorprendente perché, anche al giorno d’oggi, dopo secoli dal tempo della Bibbia e dello stoicismo, l’uomo non ha ancora smesso di sterminare il suo simile, malgrado le necessità naturali e il comando del decalogo: «non uccidere». Ebbene, ammettiamo che tutti gli uomini comprendessero il decalogo e vivessero di conseguenza, allora anche noi ci troveremmo in un mondo ben diverso da quello di Mosè e ancora più dissimile dall’attuale. Ma tutti gli uomini, ai tempi di Mosè, non conoscevano il decalogo e non lo vivevano, nemmeno gli Ebrei che lo conoscevano lo vivevano del tutto. Non bisogna sorprendersi e nemmeno fare gli inorriditi, almeno a quei tempi, non era facile obbedire alla natura e avere per amico un Dio che era assoluto e che comandava la perfezione. Forse ai giorni nostri una lettura più completa della Bibbia ci può aiutare a capire e a vivere meglio questa alleanza, ma anche noi siamo arrivati solamente a leggere fino a questo punto, ovviamente non escludendo che altri siano già arrivati alla fine del libro. La conseguenza di questo discorso ci può far supporre che tra il dire di Dio e il fare dell’uomo ci sia di mezzo il mare, ancora oggi c’è una enorme distanza tra il teorico e il concreto, tra l’anonimo e il personale. Ma la vera spiegazione è un’altra ed è insita nella natura dell’uomo, che lo stesso Dio del decalogo ha creato. Un uomo che dice la falsità, ovverosia che imbroglia, che limita il suo simile, arrivando perfino ad ucciderlo, che si divide dall’amico e persino dalla moglie, quando l’amicizia non è più conveniente, è un uomo condannato di per sé e per natura alla guerra e all’impotenza e, o prima o poi, verrà sterminato per volere di natura e per volere di chi ha creato la natura. Gli Ebrei, per esempio, saranno incaricati dal Signore di eseguire la punizione nei riguardi dei Cananei, come un boia mette in esecuzione una condanna, ma la sentenza è del giudice e non di chi la esegue. Ovviamente il giudice può anche decretare un condono, ma non per questo può bagattellizare la giustizia. Anzi per capire la benevolenza di un indulto, bisogna prima capire la gravità di una colpa e questo diventa possibile constatando per esperienza personale le conseguenze disastrose e terrificanti che essa produce. La colpa della guerra e della morte di tanti innocenti, non è di Dio, ma della inimicizia di quegli uomini che non sono senza responsabilità, se hanno commesso una omissione di soccorso, non avvisando i propri simili del pericolo che segue ad una prassi contro natura. Appare allora evidente che, per la Bibbia, tutti gli uomini, anche il più comune, anche il più perfetto, è ‹uomo› solo se obbedisce al decalogo; non bisogna diminuire il valore di questa affermazione limitandoci a considerare la difficoltà di una simile richiesta, ma accorgersi che se la strada è così difficile, la meta non può non essere eccezionale e superiore. L’uomo è chiamato ad essere un ‹alleato› di Dio al punto di essere un quasi-dio. Questa è la dignità di colui al quale Dio aveva rivolto la parola. Nessuno parla con uno straniero che non capisce la sua lingua, e Dio aveva in mente di parlare a un uomo che lo poteva capire, ma che non esisteva ancora. Un profeta di quei tempi, una persona che aveva una conoscenza mistica quasi spontanea, lo cercava tra gli Ebrei, come tra coloro ai quali Dio si era rivolto, ma non lo trovava ancora, eppure già lo ‹vedeva› in contemplazione.
Si tratta di Balaam che ammirando le schiere armate degli Ebrei, ormai alle porte della Palestina annuncia la venuta di una stella che spunta da Giacobbe e di uno scettro che sorge da Israele, per spezzare le «tempie», o le teste, o le ragioni degli idolatri (Numeri 24).
Mosè stesso è una figura o una icona di questo uomo Ideale, ma non ne è la realizzazione completa; eppure scendendo dal monte con le tavole della legge aveva riconosciuto la sua dignità in colui che gliela aveva confermata. Egli è un uomo ben diverso da quell’Ebreo che è rimasto nell’accampamento a cercare un idolo, sebbene contro natura. Quest’ultimo deve temere l’ira di chi gli ha dato il decalogo, e, nello stesso tempo, si accorgerà che chi invece ha ascoltato il Signore è stato rivestito da un volto luminoso, al punto che deve coprirlo quando scende nel mondo dell’ordinario e del contingente; mentre quell'uomo che si ostinerà ad andare contro natura, sarà come un morto repulso dagli stessi suoi simili, scacciato dall’accampamento e dalla società, eppure non definitivamente condannato. Quando Aronne e Maria sua sposa si opporranno a Mosè e, in definitiva, alla rivelazione che egli ha portato dal cielo in terra, saranno colpiti da una sciagura naturale, e da una condanna superiore alla stessa natura, che solo il condono di Dio potrà annullare, quasi profezia e promessa di una benevolenza infinita. Maria, la moglie di Aronne aizza il marito e gli Ebrei a ribellarsi alla autorità di Mosè, adducendo come scusa la necessità di un ricambio di poteri, dove chi è più facondo abbia la capacità di sostituire il parlare che sembra ormai divenuto abituale, ma il Signore non tradisce le sue scelte e Maria improvvisamente, o almeno, contro ogni previsione, è colpita dalla lebbra che la rende impura e la condanna all’esilio. Ancora una volta è Mosè stesso che salva la situazione gridando al Signore: "Salvala!". "Non prima di sette giorni, tanto durerà il suo castigo": è la risposta di Dio (Numeri. 12).
È questo l’uomo del Dio di Mosè: un essere con il volto luminoso, perché la sua natura è rivestita di luce per partecipazione della luce di Dio, così come la sua ragione acquista sempre maggiore chiarezza e la sua affettività si esercita in una maggiore purezza. Se questo è l’uomo e se questo uomo alle volte ha il volto coperto e parla solo a quel suo simile che è l’Ebreo che è passato per la prova del deserto, possiamo ben capire che è ben più difficile descrivere la luminosità del suo Dio: la possiamo solamente conoscere per intuizione, o meglio per unione mistica, ma non possiamo ridurla alla sola nostra intuizione, nemmeno dopo la lettura di questo passo biblico.

Sommario

PRIMA PARTE
Introduzione
Gli argomenti della Bibbia
Una Bibbia senza prevenzioni
Abramo
Il Dio di Adamo e l’Adamo di Dio
Il Dio di Abramo e l’Abramo di Dio
Sara sposa di Abramo
Giacobbe
Trinomio - partecipazione
Giuseppe
Tempi normali …
… sogni straordinari
L’uomo del Dio di Giuseppe
Il Dio dell’uomo Giuseppe
Mosè
Mosè esiliato dagli esiliati
Le ‹piaghe› di un intero popolo
Mosè nel deserto

Mosè del decalogo
L’uomo del Dio di Mosè 
e il Dio dell’uomo Mosè

SECONDA PARTE
Samuele
La madre di Samuele
Come la madre così il figlio.
Il Dio dell’uomo Samuele
e l’uomo del Dio di Samuele
Davide
Volontà - virtù - libertà
La favola dell’uomo che cercava il mare
L’uomo del Dio di Davide 
e il Dio dell’uomo Davide
Salomone
La sapienza di Salomone
La regalità di Salomone
Giobbe
L’uomo: un povero ricco
Un argomento che attende risposta
Il Dio dell’uomo Giobbe
L’uomo del Dio di Giobbe
Giobbe in poche righe
Gesù
la favola del Natale
la realtà della comunione
De-erotismo e partecipazione
L'uomo di Gesù
La redenzione
Gesù è veramente risorto? 
Dio: immagine e realtà
Ermeneutica comunitaria
L’uomo di Dio