II° UN FILOSOFO LEGGE LA BIBBIA SECONDA PARTE



Giuseppe Tradigo
Un fiosofo legge la bibbia
II° PARTE


vedi sommario a fondo pagina

Samuele

La madre di Samuele
Prima di riprendere a leggere la Bibbia, mi sembra opportuno fermarmi per rendermi pienamente conto del messaggio che fino a questo punto mi ha comunicato, un po’ come fa lo studente che, prima di affrontare un capitolo nuovo della sua materia, ripassa quel che ha già imparato, non solo per fissarlo nella memoria ma, soprattutto, per accertarsi di averlo capito bene. A questo punto, il discorso diventa personale per dire cosa io ho capito e appreso di così nuovo che, con tutta la mia filosofia, io non ne conoscevo nemmeno l’esistenza: si tratta di due argomenti, il primo riguarda il problema della storicità di quei libri definiti come sacri, il secondo quello della conoscenza mistica.
Con il primo quesito ci possiamo chiedere se la Bibbia è un libro di storia oppure un poema epico, ovverosia se assomiglia alla ‹Iliade› di Omero o, invece, alle ‹Storie› di Erodoto. Di per sé ci siamo prefissi chiaramente di leggere senza preconcetti quel che la Bibbia esponeva e non per il come lo esponeva, tuttavia, a proposito di Mosè abbiamo notato che descrive la storia del profeta e solo secondariamente quella del faraone   che, se anche aveva a che fare con Mosè, non rappresentava il personaggio più importante e, ancora meno, la figura ‹ideale› del racconto. Da qui il problema se la storia è sempre tale solo quando parla di certi uomini e ne dimentica altri, o se lo è anche quando parla degli altri, o meglio, quando non accantona nessuna delle due categorie. Qui non vale l’argomento che la storia è tale solo in base ai documenti pervenutici e che a proposito del faraone ne abbiamo a disposizione in maggior quantità, perché, se si nega in partenza la storicità della Bibbia per il solo fatto che è un libro di carattere religioso, allora questa affermazione dipende da una valutazione di qualità e non tanto di quantità. Non è obbligatorio accettare ad occhi chiusi un documento per quel che riguarda la storia, come se illustrasse i fatti senza errori e senza interpretazioni, ma non si può escludere quello che riferisce solo perché quel che significa è di difficile comprensione e solo perché parla principalmente di religione. In altre parole, non quello che non si capisce è leggenda, ma quello che va contro la storia non è storico. Per esempio in un paese dell’Irpinia, che non ricordo il nome, si diceva che sotto il campanile della chiesa fosse sepolto un tesoro di preziosi raccolti in onore del santo del paese. Si trattava di una leggenda o di una tradizione? Poiché non esistevano dei documenti si poteva dubitare della verità storica, ma non si poteva affermare che la notizia fosse una leggenda. Il termine leggenda sa di mistero, ma significa semplicemente mancanza di conoscenza, non mancanza di verità, nel senso di errore e di falsità. ‹Leggenda› nel senso di non aver documenti storici ha un significato diverso da quello di favola o di fantasia. In occasione dell’ultimo terremoto che colpì quel paese, crollò il campanile e venne alla luce il tesoro, supposto leggendario, in tutta la sua concreta realtà, tanto che corsero i carabinieri a custodirlo e questo fatto è una smentita che il termine tradizione sia sinonimo di leggenda o, ancora peggio, di fantasia. La tradizione è una sorta di ‹documento› che molte volte non si prende in considerazione e che, invece, ha una grande importanza: consiste in un qualcosa di scritto nel costume e nelle abitudini di un popolo, una sorta di pratica ermeneutica – che riferisce più un significato che non una interpretazione –, come se gli antenati vivessero ancora al giorno d’oggi nei discendenti, a testimonio della loro realtà storica. La Bibbia non è un ‹documento-storico-mancante› per quel che riguarda Mosè, anche se primariamente è stato scritto per trasmettere un significato della storia e non una storia senza significato. Tra l’altro e, in questo senso, con la Bibbia abbiamo più documenti su Mosè di quanti non ne abbiamo a proposito di molti filosofi dell’antichità; noi non li consideriamo leggendari perché la loro filosofia è rimasta nella tradizione, anche se i loro importanti scritti, sono andati malauguratamente persi. Allo stesso modo bisognerebbe riconoscere che è proprio la religione di Mosè, radicata nella tradizione, ad attestare che la Bibbia non racconta delle leggende. In pratica, se chi non è filosofo rischia di dubitare dell’esistenza degli antichi filosofi, e li suppone avvolti nella nebbia della leggenda, allora si comprende che anche chi non è religioso può più facilmente mettere in dubbio la storicità della narrazione biblica. Possiamo anche chiederci come mai la Bibbia sia durata millenni, mentre certi libri di filosofia si siano persi dopo pochi decenni. La risposta probabile è che i lettori l’hanno trovata più affascinante delle opere di quei filosofi. E con questa osservazione ci siamo già introdotti nel secondo problema: quello della conoscenza mistica.
Una prima considerazione riguarda il problema se la mistica sia un ‹fenomeno› oppure una ‹conoscenza›. A questo proposito si deve distinguere il processo di un fenomeno dal risultato che esso consegue, ovverosia il modo in cui un fenomeno si dispiega e si manifesta dagli effetti che produce, per esempio, si può dire che un bambino che mette in bocca la terra la mangia, ma è evidente che non si nutre di terra, mentre un ammalato che viene nutrito per via endovenosa è evidente che non mangia, ma non si può affermare che non viene nutrito; allo stesso modo il procedere di un avvenimento mistico non assomiglia del tutto a quello cognitivo, tuttavia consegue un aumento in quantità e in qualità di conoscenza. Anche nel caso che questo non avvenga o che porti a dei risultati erronei, il metodo è pur sempre valido, come del resto una qualsiasi conoscenza abituale che sia errata, non mette in dubbio la facoltà stessa del conoscere. il problema non è se esiste una conoscenza mistica, ma se questa apporta verità concrete, anche se talvolta può essere inficiata da errori e illusioni. In questo senso non v’è dubbio che Mosè abbia conosciuto qualcosa nel corso di un fenomeno mistico che prima non era per lui così chiaro, ma è quel che ha conosciuto a convalidare il metodo usato e non il metodo a mettere in dubbio la conoscenza. Del resto se queste considerazioni servono a spiegare il termine, la realtà è ancora più chiara, purché non la si voglia negare. Anzi, a questo proposito, dobbiamo chiederci se è proprio così straordinaria l’esperienza mistica al punto da ritenerla anormale e, magari, illusoria. Ci sono tante evenienze simili nella vita di un uomo: lo stesso innamoramento di una giovane non è una conoscenza errata, ma è sempre una conoscenza, anche se è accompagnata da un certo entusiasmo, o da una folla di sentimenti, che accentuano e perfezionano la conoscenza stessa. La mistica non è solamente una sensazione, o un’avvertenza, o una cognizione, ma ha tutte le caratteristiche di una partecipazione unitiva del soggetto con l’oggetto conosciuto. Se la conoscenza iconica produce immagini, la concettuale concetti e la eidetica idee, il fenomeno mistico consegue in chi ha una razionalità iconica una percezione immaginifica e creativa, in chi possiede una razionalità concettuale una esperienza entusiasta ed appagante e in chi possiede quella eidetica la comprensione incantevole di ideali e non solamente la formulazione di idee. Da questo punto di vista la conoscenza di una giovane innamorata non è differente da quella cosiddetta mistica se non per le conseguenze, e per il grado, ma non per la qualità e il modo in cui avviene. Il processo cognitivo di carattere mistico è un coinvolgimento personale e reale e non è limitato alla sola ragione o ai soli sentimenti e, proprio per questo è più completo e più affascinante. La stessa lettura della Bibbia può diventare una partecipazione alla conoscenza mistica che riferisce e, sempre proprio per questo, è risultata più affascinante ai suoi lettori delle più dotte e più circostanziate spiegazioni filosofiche degli antichi maestri. Non bisogna fare di ogni erba un fascio e sostenere che ogni conoscenza che assomiglia a quella mistica sia un errore – sia una non conoscenza – o una infatuazione immaginativa; entusiasmo e idealizzazione di per sé non sono sinonimi di illusione e di mancanza di concretezza. Una donna innamorata alle volte è molto più concreta di un uomo che si sposa solo per convenienza. In ogni caso, chi si accosta alla realtà con animo freddo la potrà anche analizzare, ma difficilmente la potrà capire, perché non si mangia quel che non ha gusto e non si conosce quel che non si ama.
Dopo tutto questo preambolo, la cui comprensione è più ovvia e intuitiva che non problematica e analitica, abbiamo già posto una premessa a quel che la Bibbia ci dice a proposito di Samuele e, ancor prima, di sua madre, che sembrava ubriaca ai piedi del Signore e invece è invasa da quella commozione estatica e dolorosa della propria miseria, che è un altro lato dell’esperienza mistica. Una conferma in più della verità di una conoscenza mistica sta nel fatto che molte volte la realtà percepita è dolorosa al punto che qualcuno potrebbe preferire di non averla mai conosciuta.
Ci sono due donne nel racconto biblico una che è superba delle proprie qualità e soddisfatta delle proprie affermazioni, l’altra disprezzata e inefficiente al cospetto della società e nei confronti della stessa sua compagna che si erge davanti a lei in veste di giudice e di rivale. La prima conosce il proprio valore e pensa che tutto dipende dalle proprie qualità che la rendono superiore, la seconda che non misconosce il proprio valore: quello di dipendere da Dio. Anche noi ci chiediamo chi tra le due conosceva se stessa nella verità e non nell’illusione. In altre parole, chi è più ‹conoscente›: quell’uomo che non ha sperimentato i propri limiti, perché conosce solo i successi che è riuscito a conseguire, oppure chi spera di superare perfino i propri insuccessi fidandosi, non solo di se stesso, ma anche di un aiuto straordinario che vagamente auspica e che concretamente non nega? Come al solito non è la teoria, ma è la pratica che denuncia la verità. Nel caso di Anna, la mamma di Samuele: il fatto consiste nella grandezza e nell’importanza del figlio e nello stesso tempo nella irrilevanza trascurabile della discendenza della rivale. Tutti gli uomini, quando si sentono investiti di una chiamata e quando si accorgono di una responsabilità, patiscono le difficoltà che limitano la realizzazione della loro risposta all’impegno che devono e vogliono assumere, ma non possono evitare di corrispondere a quello che loro stimano un dovere. Ma noi ci chiediamo: da chi hanno mai ricevuto questa chiamata? Chi li ha investiti di una responsabilità? In ogni caso la conoscenza mistica del proprio nulla è uno stimolo e una assicurazione oscura, mentre la supposizione abituale di una mancanza di vocazione corrisponde alla rinuncia di conseguire Una dignità maggiore e all’appiattimento degli ideali da parte di qualsiasi mortale.
Non ci rimane altro da fare se non di riferire il racconto della Bibbia.
Nei popoli cosiddetti primitivi la poligamia non è rara. Elkana, uno Zufita delle montagne di Efraim, ha due mogli: Anna senza figli e Penina che, con una pretensione superba assicura al marito la discendenza, umiliando senza ritegno la rivale. In un pellegrinaggio, tutta la famiglia si ritrova ogni anno in Silo nel tempio, dove esercitava l’incarico di sacerdote il profeta Eli. In questo luogo Anna riceve da Eli la conferma della grazia di avere un figlio. Effettivamente, una volta a Rama nella residenza abituale, concepisce dal marito IL figlio Samuele. Ritornerà così da Eli per ringraziare Dio e per restituirgli il figlio che rimarrà nel tempio con il profeta. È a questo punto che Anna esulta proferendo il suo inno:
«Il mio cuore esulta nel Signore,
la mia fronte s’innalza, grazie al mio Dio …» (1° Samuele. 1).
Non abbiamo altri documenti storici all’infuori della Bibbia che ci assicurano della fedeltà del testo all’inno che Anna levò al Signore in ringraziamento di aver dato alla luce Samuele: ma sappiamo che le persone che vivono una esperienza mistica diventano spontaneamente poeti, perché acquistano, insieme alla nuova realtà che vivono, una sensibilità che assomiglia a quella di un artista. Per noi è più importante conoscere questa esperienza concreta vissuta da Anna, non è così importante sapere in che modo o in che forma letteraria ci viene riferita, pur ritenendo che è più logico e più naturale asserire che le parole dipendono dai fatti e non i fatti dalle parole usate per descriverli.
Qualcuno potrebbe dire che oggi un intervento medico avrebbe reso superfluo un miracolo ma, se Anna oggi avrebbe un figlio senza un intervento straordinario di Dio, non si può concludere che oggi qualsiasi uomo potrebbe superare ogni suo limite e diventare perfetto e onnipotente senza l’aiuto di Dio. Questa affermazione ovvia apre uno spiraglio su un altro problema. Si tratta di una certa profezia del Messia pronunciata nel suo rapimento estatico da Anna. Anche a questo proposito ci domandiamo se la notizia è storica, oppure se si tratta di un passo aggiunto all’inno al fine di istruire o di edificare il lettore; questa domanda, tuttavia, la prenderemo in considerazione più avanti in connessione con altri fatti che possano aiutarci a trovare la risposta (vedi: ‹Il Dio e l’uomo di Samuele›, a pag. 63-64).

Come la madre così il figlio
Come la madre aveva conseguito il suo mandato ai piedi dell’altare di Dio, Samuele impara la sua vocazione nella casa del Signore.
Lascia, infatti, la madre, la famiglia e va ad abitare nella casa di Eli che diventa il suo maestro e, come il Dio di Anna le aveva parlato per bocca di Eli, lo stesso Dio di Samuele lo chiama di notte per parlare con lui. La Bibbia continua quindi la narrazione dei fatti avvenuti e lo fa con un’annotazione per inciso per riferire come «in quei giorni, le visioni non erano frequenti», senza nemmeno chiedersi se nei tempi successivi i fatti straordinari e le «visioni» non siano rimaste altrettanto così rare da mettere in dubbio la loro concretezza come capita ai giorni nostri.
La Bibbia mette a confronto due quadri ben diversi. Il primo quello di un bambino che nel profondo di una notte si sveglia chiamato dal suo maestro e il secondo quello dei figli di Eli che non obbediscono al padre, non si preoccupano delle critiche della gente e, quel che è peggio, non ascoltano nemmeno la propria coscienza, perché usano del loro incarico a servizio nel tempio del Signore per soddisfare la loro sete di guadagno e la connivenza del piacevole. Per un verso quindi l’obbedienza a quel Maestro che non è Eli e non è un uomo, ma Dio stesso e per un altro verso la disobbedienza sempre allo stesso Maestro e allo stesso Dio. Samuele diventerà il profeta che continuerà la missione di Eli, mentre i suoi figli perderanno un incarico che avrebbe potuto essere una vocazione e nello stesso tempo piombano nell’innominato e nella dimenticanza della storia (1° Samuele: 3).
A questo punto dobbiamo aggiungere che la voce di Dio non è quella di Eli e non è nemmeno un presentimento psichico, anzi sarebbe potuta sembrare un fatto fortuito e essere scambiata con un concorso di circostanze conseguenti per caso a una sorta di intuizione. Probabilmente, a proposito, di questi ‹casi› ne esistono parecchi, tanto che potrebbero essere confusi con le normali circostanze di ogni giorno, ma questo per il semplice fatto che non è stata percepita la loro straordinarietà. In altre parole, si può vivere in un mondo di conoscenze mistiche, oppure in una realtà di conoscenze piatte e abituali, ma più propriamente non si tratta solamente di conoscenza, ma anche di coscienza e di ‹non-coscienza›, ovverosia di incoscienza. Mentre Samuele viveva attento ad una ‹Voce› i figli di Eli vivevano distratti dalle richieste di una razionalità non ancora de-erotizzata e, quel che è peggio, del tutto ‹non-mistica›, ma mentre il primo viveva, i secondi vivevano per morire (1° Samuele. 3).
Dopo questi confronti noi vorremmo sapere come si distingue una voce di Dio da una circostanza fortuita senza significato. Anche a questo proposito la Bibbia ci dà una risposta raccontandoci un fatto, senza dilungarsi con la spiegazione di una teoria. I Filistei sono colpiti dalla peste e si chiedono se questa circostanza sia un castigo del Dio degli Ebrei, per essersi impossessati della loro arca dell’alleanza, oppure un caso fortuito. Evidentemente non conoscevano le infezioni e i contagi, ma anche se li avessero conosciuti, avrebbero sempre potuto chiedersi se quelle malattie fossero un avvertimento di Dio, oppure non avessero alcun significato, all’infuori di quello strettamente materiale. Per avere una risposta a un simile quesito non discutono teorie, ma cercano prove: se la circostanza è mossa da Dio, allora ha una finalità e anche le conclusioni sono in suo potere e, quindi, basta rimettere il tutto nelle sue mani ed egli non tarderà a manifestarsi. In altre parole se Dio vuole una data cosa, basta mettersi a sua disposizione, per capire quel che vuole. Come Samuele per assicurarsi che Dio gli voleva parlare si era messo in ascolto, così anche i Filistei se vogliono sapere quel che Dio comanda dovevano porsi alle sue dipendenze. Non avevano quindi il problema di obbedire a Dio, bensì quell’atro di sapere in che modo. Radunano i loro sapienti, li incaricano di una soluzione e, alla fin fine, stabiliscono di fare un’offerta al Dio degli Ebrei, arricchendo il carro dell’arca con oggetti d’oro che rappresentano un indennizzo del furto perpetrato per vedere se le mucche trascineranno il carro per raggiungere gli Ebrei, oppure non si allontaneranno dalla stalla dove hanno lasciato i loro vitelli in attesa di essere allattati. Così accade: le mucche si dimenticano dei vitelli e della loro stalla e trascinano il carro nel territorio degli Ebrei (1° Samuele. 6).
Per i Filistei e per la Bibbia era questo un segno che la peste equivaleva ad un castigo e non ad un fatto fortuito, per noi moderni la peste era la conseguenza di un contagio, ma questo non esclude che fosse un castigo, e che richiedesse una ammenda ed una correzione. In altre parole se dalle conseguenze si possono dedurre delle cause, nemmeno il Signore si dispensa di conseguire quello che egli ha stabilito, anche se gli uomini non lo riconoscono, e si astengono perfino dal chiedersene i motivi.
Tutti questi fatti e tutte le nostre riflessioni sembrano affermare il detto popolare che non cade foglia che Dio non voglia. D’altra parte alcuni filosofi sostengono che tutto accade senza una ragione, mentre altri, come i Filistei ammettono che qualcosa possa capitare per volere di Dio e qualcosa d’altro per puro caso, la Bibbia invece ci presenta un mondo diverso. Non ogni cosa è un prodotto della volontà di Dio, come se egli dominasse l’universo e imponesse delle disposizioni per puro arbitrio e senza una ragione ma, al contrario, ogni cosa o è un suo dono, oppure un suo castigo per non averlo riconosciuto come Donatore. Abitualmente si pensa che il volere sia diverso dall’amare, mentre di per sé sono sinonimi, perché l’amore è una scelta in base ad una fiducia, in vista di una speranza e tutto questo equivale a ‹virtù› che è ‹ordinata a …›, ovverosia che è finalizzata ed effettiva. In altre parole la nostra lettura sembra istruirci a cercare oltre al significato delle ‹ragioni› di Dio, anche il valore affettivo insito nel volere di Dio perché è questo che giustifica il suo operato e non solo le stesse sue opere che invece testimoniano la sua onnipotenza. Da questo punto di vista, se è importante Dio che opera, non lo è di meno l’uomo che lo riconosce, al punto che questa importanza non svanisce nemmeno quando non la riconosce, meritandosi così di diventare quella correzione, che coincide con la morte.
Per comprendere i successivi eventi che riguardano Samuele: bisogna sottolineare questi argomenti e, a proposito, osiamo paragonare le opere di Dio con quelle dell’uomo. Un artigiano fa qualcosa non per fermarsi poi ad ammirarla, ma perché è utile, ma non per questo rimarrà indifferente se qualcuno la disprezza. Ora se noi cerchiamo chi ci loda per quel che facciamo è mai possibile che Dio ha creato un universo per essere disprezzato dall'uomo? Certo ogni uomo può mettere in dubbio la creazione e affermare che ogni cosa capita a caso, ma per questo deve prima affermare che il mondo non è ammirabile e che egli stesso è un prodotto del caso. Come può stimare se stesso così importante e, nello stesso tempo, asserire di essere l’opera di un caso senza importanza. Forse il meno, come è il caso, può pretendere una stima maggiore di quel più, che vale e che è l’uomo?
Tutte queste riflessioni servono per comprendere, non per dimostrare. In altre parole, non è la perfezione dell’uomo che dimostra l’esistenza di un Dio perfetto, come se Dio fosse ancora più perfetto dell’uomo, ma è la comprensione dell’imperfezione umana in continua ricerca ed in continua realizzazione di una maggior perfezione, che attesta la Perfezione stessa e dimostra che non può consistere solamente in una minore imperfezione al punto di essere un’illusione. La ricerca di una perfezione imperfetta è una contraddizione pratica, prima di essere teorica. Non basta una dimostrazione logica dell’esistenza di Dio esautorata da una mancanza di volontà per ottenere una risposta soddisfacente, al contrario, una volontà pura permette una ragione chiara. L’uomo quando rinuncia alla perfezione, anzi non appena rinuncia a migliorarsi è già ateo, prima ancora di porsi il problema se esiste Dio. L’uomo non vuole avere una vita concreta e pratica supportata dal caso e, quando non conosce le ragioni, le cerca e non le accantona sostenendo che non esistono. Quando le ragioni sono fortuite, le finalità sono illusioni. I Filistei cercano le ragioni della peste che li ha colpiti e, se il metodo non fornisce sicurezze, proprio allora, continueranno a cercarle fino a quando hanno trovato dei metodi più adatti e delle risposte più sicure.
La Bibbia non perde tempo in queste discussioni teoriche riferisce semplicemente e continuamente che ciò che giova è un bene di Dio a cui corrisponde un riconoscimento operante e corresponsabile dell’uomo, mentre ciò che non giova è un altro bene anche se duro e oscuro, perché è una correzione per l’uomo e non una dimenticanza di Dio nei suoi riguardi. Del resto, Dio stesso ama sempre aiutando l’uomo a raggiungere le mete eccelse che gli ha indicato, ma non smette di aiutarlo perfino a realizzare quelle mezze misure che l’uomo si accontenta di trovare anche se sono riduttive delle sue possibilità.
È questo il caso della scelta di un re da parte degli Ebrei.


Il Dio dell’uomo Samuele
e l’uomo del Dio di Samuele
Come Eli, anche Samuele: in tarda età, con i figli che lo sostituiscono malamente, lascerebbe una situazione instabile e un’autorità irresponsabile, gli Israeliti allora gli chiedono la costituzione di un potere regale. Il popolo insiste, Samuele tentenna e il Signore stesso dirime la questione consigliandolo: "Ascolta la voce del popolo, perché non ha rifiutato te, ma ha rigettato me, […] però annunzia chiaramente le pretese del re che regnerà su di loro".
In pratica il re chiederà il rimborso delle spese del suo servizio con tasse, imposte e balzelli ai sudditi che da questo momento dipenderanno direttamente da lui e non più dal proprio concorso libero e liberale, come chi invece dipende dalla propria coscienza e, in definitiva, da Dio stesso (1° Samuele. 8).
Il popolo comincia così a capire la differenza delle due società: una più democratica e più responsabile, l’altra con un potere centrale, più esigente e più inflessibile ma, quasi costretto da una necessità, non crede di avere altre scelte; per questo risponde a Samuele: "Intercedi presso il Signore perché abbiamo peccato chiedendogli un re!" . E Samuele: "Non temete, ma non allontanatevi dal Signore e servite solamente lui" (1° Samuele. 12).
In che cosa consisteva il peccato degli Ebrei?
Non tanto nell’aver scelto un re, ma nell’aver confidato più nell’aiuto di un re, al posto che nell’aiuto di Dio. Non solo, ma anche per aver quasi messo l’autorità di Dio al secondo posto dopo quella del loro re. Samuele li avverte: «Non allontanatevi per seguire vanità che non possono giovare né salvare, perché appunto sono vanità». Ma perché gli Ebrei preferiscono un re e perché Dio glielo concede?
Più sopra abbiamo affermato che l’uomo istintivamente cerca sempre la perfezione, ma questa perfezione non può essere imperfetta come se fosse un oggetto pur gratificante, ma estraneo all’uomo. In un certo senso Dio è sì perfetto, ma troppo superiore all’uomo, tanto da ritenerlo, se non estraneo, almeno lontano, mentre un re è più vicino e più ‹consanguineo› per l’uomo comune. In questo senso possiamo ora capire meglio l’inno-preghiera di Anna, la madre di Samuele: quando affermava: «Il Signore giudicherà gli estremi confini della terra; darà la forza al suo re, eleverà la potenza del suo Messia». Si tratta di una profezia insita nel cuore dell’uomo, che è quasi una sua caratteristica congenita, come se fosse stato creato perché essa si possa avverare. È ovvio, tuttavia, che cercare in risposta un messia lontano da Dio significa credere che ci possa essere una perfezione senza il Perfetto, se manca perfino di personalità il che, tradotto in pratica, corrisponde ad una vanità, ovverosia una nullità senza senso. Per questo Samuele ripete: «Non allontanatevi per seguire vanità!» e gli Ebrei, in qualche modo hanno capito il suo avvertimento se gli rispondo: «Prega il Signore tuo Dio per noi tuoi servi che non abbiamo a morire, poiché abbiamo aggiunto a tutti i nostri errori il peccato di aver chiesto per noi un re».
In questo modo abbiamo ipotizzato un uomo che sia un Messia e, nello stesso tempo, un Dio che sia così vicino all’uomo da essere egli stesso uomo. Certamente noi viviamo in un tempo diverso da quello descritto in questi passi della Bibbia e quindi possiamo avere a disposizione altre ‹rivelazioni› che gli Ebrei a quel tempo non si sognavano nemmeno, tuttavia noi leggiamo la Bibbia non solo perché essa ci dà delle risposte, ma perché ci rivela dei significati persino quando pone delle domande che sembrano senza risposta.
Davide
Volontà - virtù - libertà
Parlando di Mosè abbiamo accennato alla libertà dell’uomo e l’abbiamo connessa con la promulgazione del decalogo, in pratica, con l’etica e l’esercizio delle virtù. Leggendo la Bibbia a proposito di Davide non si può non ritornare sull’argomento. 
Noi abbiamo un concetto di virtù in qualche punto diverso da quello tradizionale, oserei dire più vicino a quello della Bibbia che non a quello dei filosofi antichi e moderni. Ovviamente anche per noi la virtù non consiste solamente in una eccellenza di proprietà, come quella dell’acqua che è salubre o quella di un uomo che è forte nel fisico; le virtù sono una specie di ‹qualità-simile› e nello stesso tempo un qualcosa di ‹naturale-simile›, ma non sono né l’uno, né l’altro: esse costituiscono la ricchezza e la preziosità del suo spirito. Da questo punto di vista non si possono distinguere in virtù della ragione (dianoetiche), come sarebbe la saggezza e in virtù dell’agire (etiche), perché la ragione è di pertinenza dell’esistere dell’uomo (non dello spirito), così come anche l’agire. D’altra parte bisogna aggiungere che non ci può essere una ragione ed un agire senza le virtù. È tutto l’uomo, nella sua unità e integrità, che opera, ma non solo in base alle conseguenze di motivazioni logiche; se l’uomo fosse solo ragione sarebbe post-necessitato dalle sue conoscenze razionali, se fosse solamente natura sarebbe pre-condizionato dalle sue proprietà genetiche, nell’uno e nell’altro caso non sarebbe libero né poco né tanto, ma poiché è anche sospinto, esortato, convinto dallo spirito è anche libero di accoglierne le mozioni e di realizzare le proprietà, oppure di rifiutare le une e le altre. La Bibbia, quando illustra la creazione, lascia capire che l’uomo ha una determinata natura, mentre quando riferisce la conoscenza dell’uomo delle realtà del suo mondo e i suoi colloqui con Dio stesso, si riferisce principalmente alla sua razionalità, invece, quando parla del peccato originale mette in luce un tradimento dell’amicizia della creatura nei riguardi del Creatore e, implicitamente, palesa la sua affettività di cui la volontà è l’espressione più forte. L’uomo che tradisce l’amicizia nega le ragioni, contraddice le inclinazioni naturali, ma soprattutto rinnega le virtù, come se fossero irrazionali e innaturali. Se non altro, solo per questo, perde, per un verso, l’unità con il creato e l’Increato, per un altro verso, la propria libertà, ovverosia la felicità di chi si sente in pace e nell’ordine sia nei riguardi della natura, sia della ragione. Tutta la storia umana sembra una ripetizione di questa perdita, ma nello stesso tempo attesta lo struggimento di una sua continua ricerca, che assume forme esemplari nei suoi personaggi più significativi. Tra loro, in modo precipuo, per quel che ci concerne ora, in Davide, specialmente se lo si paragona a Saul che, alle volte, sembra aver confuso e dimenticato la voce del suo spirito. Davide è un uomo libero e sembra esserlo ancor di più proprio nelle strettezze del fuggiasco oppresso dalla sorte, che non del re ricco e famoso, quando viene colpito a tradimento nei suoi più cari affetti.
La favola dell’uomo che cercava il mare
Tutti questi bei discorsi avrebbero più consistenza se si ammettesse in partenza l’esistenza del Dio delle virtù e lo Spirito di ogni spirito, infatti, per esempio, l’amore è comprensibile solo se c’è qualcuno di amabile, così la fede se c’è chi la merita senza lasciar dubbi né incertezze.
Ma esiste Dio? Chi è, cosa è Dio?
Come quando abbiamo preso in considerazione il significato di ‹libertà› abbiamo raccontato una favoletta, come del resto hanno anche fatto i filosofi antichi, così ne raccontiamo un’altra come introduzione alla risposta di questa domanda.
C’era una volta un buon paesano che voleva trovare il mare. Aveva già sentito dire che il mare esiste, si era già fatto un concetto di come fosse, lo immaginava come una grande quantità di acqua e quindi sapeva che era bagnato, ma gli avevano anche detto che sulle sue rive fiorivano e crescevano le più belle piante, sulle sue onde navigavano i più grandi battelli diretti in nuove terre lontane e, nel suo seno, si muoveva una miriade incalcolabile di esseri viventi. Insomma aveva già una vaga idea di cosa fosse il mare, ma non l’aveva mai visto e, quel che non si vede è più difficile credere che esista. Così un giorno, fattosi coraggio, s’incamminò per cercare il mare. Lasciò il suo paese, dove almeno un po’ di acqua c’era, se non nelle fontane, almeno nelle pozzanghere e, dopo un po’ di strada, si trovò in un deserto, dove non solo mancava l’acqua, ma anche un minimo di umidità. Non si dette per vinto continuò a camminare, scoprì un ruscello, ne seguì il corso, si imbatté in un torrente, poi in un fiume, arrivò così sulle rive di un lago e qui dovette riconoscere di aver trovato tanta acqua sufficiente per supporre che quel lago fosse il mare. A questo punto, tuttavia, per essere sicuro di non aver cercato invano, s’immaginò un lago così grande, da essere solo acqua, senza niente di asciutto e, non contento di quel che aveva trovato, si mise a cercare di nuovo. Basta! Alla fine, trovò quel lago che aveva sognato, così grande che aveva tanta acqua da coprire ogni terra e che aveva un orizzonte così lontano che non si sarebbe potuto immaginarne uno più grande e, solo allora, si convinse di aver trovato il mare (Paginario 2010).
Quel buon paesano che non trovava il mare nel torrido del deserto, nell’umido di una pozzanghera, nel passare dell’acqua di un fiume, ma lo trovava in quella quantità di acqua senza terra e senza confini che è veramente il mare, assomiglia a quell’uomo comune che cerca Dio. Il paesano cercava l’acqua dove c’era almeno un poco di bagnato e non si accontentava di quel poco, l’uomo cerca Dio, ma non lo trova dove manca e nemmeno dove ce n’è solo un po’ di più, ma dove esiste in tutta la sua Concretezza, non dove c’è la falsità, ma dove la Verità si manifesta completamente e non dove manca l’Amore, ma dove nessuna scelta può essere più amabile di lui. In pratica l’uomo comune, quello che noi conosciamo in noi stessi e nei nostri simili, ha sempre una vaga conoscenza di Dio, non tanto perché lo ha intravisto, e ancor meno perché lo abbia sognato, ma perché egli è confrontato tutti i giorni con la sua mancanza: egli percorre un mondo che è il deserto dove Dio non esiste, davanti a figure che sono apparenze perché nascondono la verità, nell’esperienza continua di una alienazione non solo di cose e di persone ma di ideali che sembrano illusioni, eppure, malgrado tutto questo, continua il cammino, perché ogni giorno trova sempre un poco più di quel che manca e quel che manca non è mai un maggior vuoto, ma un sempre più pieno, non è una maggiore imperfezione, ma sempre un passo avanti verso la perfezione. Ebbene, quel buon paesano e quel bravo uomo comune, vivevano e vivono nella favola di tutti i nostri giorni, trovandosi insieme a tanti amici che cercano il più, ma non senza alcuni altri che si accontentano del meno e trovano solo quel poco che cercano, pur nutrendo l’eterna illusione di un colpo di fortuna, per raggiungere un sogno vago che non è mai una realtà. Il problema che nasce da questa ricerca consiste nel sapere se esiste veramente una perfezione libera da qualsiasi difetto. In altre parole, va bene migliorarsi sempre, ma ci si potrà in questo modo liberare dalla imperfezione? La risposta, purtroppo, è che non esiste una perfezione senza difetto. Non si tratta di una affermazione contrastante quel che abbiamo fin ora sostenuto, perché il paesano cercava il ‹non-arido› e noi cerchiamo di liberarci dalle imperfezioni e, quindi, ammettiamo in partenza l’esistenza del ‹difetto› quasi prima ancora di quella della perfezione, ma è questa mancanza che attesta la perfezione, come è l’ombra che attesta la luce del sole. Noi non ci fermiamo nell’aver trovato il meno perfetto insieme al perfetto, ma proseguiamo la ricerca discriminando e scegliendo continuamente. In altre parole non ci accontentiamo di quel che troviamo per caso, ma usiamo la ragione analitica e la volontà elettiva per continuare la ricerca. Più precisamente abbiamo trovato il Concreto e lo viviamo perché abbiamo rifiutato la mancanza di realtà e di personalità, abbiamo conosciuto il Vero, perché abbiamo ignorato il falso, abbiamo scelto l’Amabile perché abbiamo volutamente dimenticato l’odio.
Ora, cosa vogliamo di più? Vogliamo forse ritornare sui nostri passi nella irrealtà, nell’ignoranza e nella confusione?
Ma cosa fanno i nostri personaggi della Bibbia? Per prima cosa si chiedono, ovverosia cercano quello che è il concreto Il vero e il bene e, poi, si attengono alla risposta che hanno ottenuto. Ovviamente lo chiedono a se stessi e ai loro simili capaci di dare delle risposte sensate, eppure non tutti i personaggi della Bibbia agiscono sempre in questo modo; alcuni chiedono il concreto, il vero e il bene, ma quando ne hanno trovato almeno un poco, fanno marcia indietro e preferiscono il meno che avevano prima, al posto di quel più che hanno conseguito; così facendo, in pratica non cercano quel che in teoria affermano di voler cercare, perché si accontentano di fermarsi al fortuito, di obbedire alle opinioni più ordinarie, e di desiderare il più disprezzabile. Tutto questo perché non hanno coraggio, e l’indecisione che mostrano denuncia la debolezza dlla loro ricerca, non la mancanza del fine.


L’uomo del Dio di Davide 
e il Dio dell’uomo Davide
È sempre una sorpresa leggere la Bibbia, almeno con una mentalità moderna. Noi ci ‹attacchiamo› maggiormente alle teorie: i nostri ideali sono più facilmente prodotto della tecnica e della cultura, mentre quelli dei personaggi biblici sono più vicini alle realtà e alle persone, per così dire, allo stato naturale, tanto che, persino dopo morte, i loro avi hanno ancora una certa consistenza corporea. L’amicizia, la lealtà e la fedeltà rimangono così patrimonio di una intera famiglia e si tramandano di padre in figlio, gli stessi idoli sono materiali, anche se esprimono solamente immaginazioni, che tuttavia non sono solamente una teoria, senza amore. Saul e Davide prima di prendere una decisione, prima ancora di affrontare una qualsiasi impresa, o una necessità impellente, si mettono personalmente in dubbio e chiedono invece il parere di quell’altra persona che è Dio stesso. Ovviamente non tralasciano di indagare e di assicurarsi di quelle disponibilità che vedono, ma non dimenticano mai di chiedere indicazioni più concrete e più sicure a Colui che non vedono, ma che non sentono lontano dal loro affetto. Saul quando non ha obbedito alle istruzioni del Signore si sente perso e, prima ancora di andare in battaglia, è sicuro di essere sconfitto. Non potendo più ascoltare la voce di chi gli rappresenta Dio, si appella ai sortilegi di una di quelle negromanti che egli stesso aveva eliminato dal suo regno, non solo contraddicendosi, ma disobbedendo una volta in più ai comandi di Dio, sostituendo così le sue paure e le sue previsioni alla stessa realtà concreta.
È il destino di chi si avvia sulla china che lo allontana da Dio: sa quel che lascia non sa quel che trova, perde la forza e trova il dubbio e l’incertezza; Saul non era stato forte nella sua devozione è ancor più diventa debole mancando di fedeltà. Chiunque si trova nelle difficoltà è tentato di evitarle, ma è solo il forte che le supera, mentre chi dubita ha già deciso il suo destino. La sapienza popolare ammonisce che il Diavolo si è già preso tutto il braccio di chi gli ha concesso una sola volta il mignolo  (1° Samuele. 28).
La figura di Davide diventa così per noi sintomatica.
Quando giunge all’accampamento israelitico si trova nel bel mezzo di una situazione che, a dir poco, è senza speranza. Un solo uomo, un gigante, un Filisteo domina la scena e sospinge dietro le quinte la presenza di un esercito, di un re, la forza di un Dio per imporsi come unico attore dei destini del suo regno. È la scena del mondo di millenni d’anni fa che si ripete nelle piccole commedie di tutti i giorni di ogni uomo dove compare sempre un qualcuno che pretende di dettar legge, solamente perché si crede il più forte per poterla sostenere, ma su questa scena compare un ragazzetto, un pastore di pecore e di capre, che si è fatto le ossa combattendo gli orsi e i leoni. Ogni tempo, ogni storia ha avuto il suo Davide, venuto a portare un po’ di pane ai suoi fratelli sul campo di battaglia della vita e, invece, trovatosi necessariamente a prendere posizioni a confronto di necessità e di problemi più grandi di un intero esercito immobilizzato dal terrore.
Davide si fa avanti contro il gigante armato della fede in Dio e con una pietra raccolta nel letto di un torrente in secca, lanciata con la fionda, abbatte una superbia che si sgonfia accasciandosi al suolo  (1° Samuele. 17).
Come aveva abbattuto Golia senza pretese e senza superbia continuerà con umiltà e si direbbe con devozione a seguire  e a servire l’autorità costituita. Davide non è un illuso e ancor nemmeno un rivoluzionario che vuole sovvertire l’ordine. La sua forza è una obbedienza ai comandi di Dio e non degli uomini, per questo rispetta i re, ma non li adora e non li obbedisce per pura convenienza o, ancor peggio, per debole servilismo. In questo caso non si tratta di una sottomissione che ha paura o di una schiavitù che è necessitata, ma di vera e propria ‹obbedienza› nel senso di concretizzazione della ‹fede› perché è la virtù dei forti che credono nel Re dei re, depositario dei destini dei piccoli e dei grandi. Davide si trova due volte nell’occasione di sopprimere Saul, ma si oppone a chi gliene dà la possibilità e sembra così difendere il re che è diventato suo nemico e che lo cerca per poterlo sopprimere. Egli lascia il tempo all’Ordinatore di ogni tempo: sembra senza fretta, semplicemente non è precipitoso perché egli si accorge di godere della predilizione di chi ama i suoi fedeli.
Davide persino nel massimo della sua fortuna non si farà grande di una boria ingiustificata, ma continuerà a gloriarsi di servire il suo Dio. Anche allora mostrerà sempre un timore riverente nei suoi riguardi al punto quasi di fuggire dalla sua presenza, e ritirarsi nella sua piccolezza, quando gli sembra di aver osato qualcosa che non era di sua competenza, come accadde con il trasferimento dell’arca a Gerusalemme. In quell’occasione Uzza, il figlio di Abinadab, che è un amico del re, si appoggia all’arca per sostenerla e, folgorato, muore all’istante. Davide si accorge aver messo mano a un’impresa superiore alle sue possibilità e, forse per la prima volta, oltre a un Dio amico vede d’aver sempre trattato con quel Dio Onnipotente che ora si mostra a lui con estrema severità (2° Samuele. 6).
A prima vista può sembrare che Davide abbia nei riguardi dell’arca una sorta di rispetto magico un po’ come Saul si era rivolto alla negromante, ma egli, malgrado il dolore per la morte di un amico, non rinnega la sua fedeltà al Signore e, subito, riprende forza, manifestando così tutto il suo entusiasmo e la felicità di trovarsi al suo cospetto, davanti all’arca che accompagna con gioia durante il tragitto del suo trasferimento. In questa occasione, nelle poche vesti di un danzante, non esita nemmeno a mettere a nudo la sua povertà, preferisce essere disprezzato dalle persone dabbene che godono reputazione e ne vanno superbe, ma non deflette dalla sua dedizione a Dio, esprimendo nelle danze insieme alla fede anche la sua felictà. Purtroppo anche Davide è un comune mortale. La sua figura, quasi di uomo ideale, proprio al massimo del suo fastigio, pecca di infedeltà e dimostra la sua debolezza. Egli ruba la moglie a un ufficiale del suo esercito e lascia che muoia in guerra, per salvare lei e se stesso dall'accusa di adulterio. Dio gli manda il profeta Natan per avvisarlo che ha perso la sua forza e Davide si trova improvvisamente in balia della inimicizia e del tradimento. Lo stesso suo figlio è, per così dire, incaricato di eseguire il castigo di Dio, quando tramerà una congiura contro il suo stesso padre (2° Samuele. 12).
Neppure in questo caso Davide si allontana del tutto dalla sua coscienza e si sottomette alla correzione. È la sua grandezza e la sua salvezza (Salmo 50).
È questo il vero Davide che si è conquistata la stima di Saul, l’amicizia di Gionata, la riconoscenza e la fedeltà dei suoi guerrieri, la simpatia e l’affetto delle donne di Israele che innalzavano i loro canti in suo onore (1° Samuele. 18).
Davide ha esaltato le speranze degli Ebrei. Il suo ricordo sosterrà la loro fede perfino nei momenti più duri della loro storia, ha posto una testimonianza in più nella speranza del Messia. È un Davide a cui non manca nemmeno la traduzione pratica di questa idealità. Dischiuderà ad un intero paese, ancora immerso nell’età del bronzo, le porte dell’età del ferro. È il primo re effettivo degli Ebrei abitava in una reggia, possedeva un esercito e una corte con una amministrazione e una giustizia efficiente e non aveva nemeno dimenticato le arti. Egli stesso aveva cantato, accompagnando il suono della sua cetra, le note che rappacificavano perfino l’animo turbato di Saul, oppresso dalle preoccupazioni e dagli effetti della pazzia, aveva composto i più bei poemi che la Bibbia ci ha tramandato (2° Samuele. 8).
In Davide prende corpo la forza, che non è robustezza, bensì fortezza: è una virtù che lascia trasparire tutte le altre virtù, proprie della volontà e dell’affettività dell’uomo, che hanno il potere di renderlo quasi immagine di Dio stesso.
L’uomo a questo punto della lettura biblica è un Davide che ha trovato Dio, oppure è un Saul che non lo trova quando smette di cercarlo; è un re quando ha trovato il Re (con l’iniziale maiuscola), ma il suo trono vacilla quando non obbedisce alla regalità di Dio. Insomma, è l’uomo che ha trovato la ‹Perfezione›, ogni volta che si libera sempre un poco di più della sua imperfezione e ha trovato la ‹Libertà› ogni volta che conquista anche solo un poco più di libertà nei propri riguardi.
Davide rivolse al Signore le parole di questo canto, quando il Signore lo liberò dalla mano di tutti i suoi nemici, specialmente dalla mano di SauI. Egli disse:
"Il Signore è mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
il mio Dio, la mia rupe in cui mi rifugio,
il mio scudo, la mia salvezza, il mio riparo! (2° Samuele 22).
Salomone
Ci sono due episodi nella vita di Salomone che illustrano il messaggio della Bibbia in questa occasione: il primo riferisce un atto giudiziario del re, il secondo la visita della regina di Saba a Gerusalemme.

La sapienza di Salomone
Un passo della Bibbia introduce il lettore alla considerazione e alla comprensione del significato del termine ‹sapienza›.
Due donne si presentano nel suo tribunale. Si contendono la proprietà di un neonato e si accusano vicendevolmente di aver trascurato e lasciato morire il secondo neonato che dormiva con loro. Salomone ordina di tagliare in due con una spada l’unico vivente e di consegnarne una metà a ciascuna delle donne. A questo punto una delle due donne strepita di lasciarlo vivo a costo di affidarlo alla sua contendente ma questa sua rinuncia la svela essere la vera madre del suo bambino. È a questo punto che si diffonde la fama della ‹sapienza› di Salomone (1° Re. 3).
Ci sono testimonianze che riferiscono evenienze che non si ‹vedono›: non dati di fatto, nemmeno dati di ragione, ma di quei dati che sono propri dello spirito. I sentimenti sono incaricati di esprimerli manifestando le loro origini in quelle virtù che non si vedono con gli occhi, non si sentono con gli orecchi, ma che nessuno può mettere in dubbio, anche quando sono travisate; infatti, se i sentimenti sono misconosciuti e, al posto di attribuirli alla voce dello spirito, sono considerati un qualcosa di irrazionale e di immaginario – come se fossero solamente emozioni fisiche e non mozioni spirituali – rischiano o di essere soffocati, oppure sfogati senza ordine né freno. Chi nega le virtù non ammette distinzioni tra i sentimenti che esprimono le mozioni e le riflessioni che indicano invece le motivazioni della ragione e rischia di non saper ordinare i primi e sminuire gli effetti dei secondi. La prassi di chi non ama, perché non elegge ma solamente si diletta, che non crede ma critica per eliminare il difficoltoso, e che non spera perché guarda solo al conveniente, costruisce un mondo povero con tanti limiti e pochi orizzonti; soprattutto rischia di non poter emettere sentenze convinte nei propri riguardi, né convincenti per le persone che sono costrette a convivere con lui, senza riuscire a partecipare alla sua vita. Tutto questo perché chi non ascolta la voce del cuore manca di quella testimonianza che, insieme a quella della ragione e della sua natura, gli permetterebbe di esprimere giudizi e non opportunità o, ancor peggio, solamente decisioni fortuite. Ciò che è opportuno può essere ancora, almeno in parte, frutto di una conoscenza scientifica, quasi un frammento di quel che si può sapere ma, se è sapere, o magari solo informazione, non è ancora sapienza.

La regalità di Salomone
Il secondo episodio riguarda la visita della regina di Saba a Gerusalemme.
La politica del regno di Israele ai tempi di Salomone è una copia perfetta di tutte quelle che dominano la scena dei grandi imperi, al massimo del loro fastigio. Assomiglia a quella dell’impero romano, che non è diversa da quella degli Asburgo prima, e del ‹re sole› poi, e basta questo solo nome attribuito al re di Francia, per definire cosa sia un impero e quale sia la politica di chi lo regge, e dei sudditi che lo abitano. Fioriscono le scienze, rifulgono le arti, trionfa l’organizzazione burocratica, l’amministrazione e la giustizia. Il popolo non chiede altro, soddisfatto della dovizia e della libertà che gode nella pace e nella tranquillità. Dai paesi confinanti vengono mercanti, tecnici, forza lavoro e, non ultimi, i tributi dei vinti. Un sistema di alleanze, di commerci e di forze, più o meno equilibrate, reggono i rapporti internazionali. I regni, antichi nemici di una volta, sono diventati amici, se non altro per convenienza, sebbene ospitino i rifugiati politici e i dissidenti della potenza alleata. Non c’è un altro impero rivale, perché questa è l’unica terra dove è possibile l’impossibile.
La regina Etiope sente parlare di questa nazione e del suo re e viene dall’estremo confine della terra per conoscerlo (1° Re, 10).
A Gerusalemme trova una splendida reggia, non vede case, non s’imbatte in tuguri, ammira il re circondato da dignitari, cortigiani, ministri, consiglieri, tra loro perfino i coppieri, tutti con una divisa impeccabile e con una importanza decorosa, non vede schiavi, servi, poveri, emarginati; ascolta i pareri, le sentenze, le risposte del re che ha il potere e la responsabilità di definire cosa sia scienza e arte, non sente ignoranze, non percepisce mutismo. In una parola, non visita un popolo, non conosce una nazione, non fa esperienza di un territorio, ma si ferma alle soglie di un trono al massimo dei suoi fastigi. In una situazione del genere è irrisorio porsi il problema di cosa sia la libertà, perché la ricchezza sembra assicurarla in modo conveniente, del resto, non solo non esistono voci contrastanti, ma le stesse diversità sono sfumate, rappresentano solamente pluralità di pareri, ma non convinzioni che metterebbero a rischio un clima di generale tolleranza. Con una politica del genere la libertà diventa facilmente permissione e la tolleranza compromesso e la stessa morale, più precisamente diventa immoralità (1° Re. 11).
In questa prospettiva non c’è da meravigliarsi della direzione che prende la storia di questo regno: non è differente da quella dell’impero romano invaso dai barbari, né da quella degli Asburgo trascinati nella guerra dei tent’anni, né del re sole che prevedeva il ‹diluvio› dopo la sua morte e neppure da quella di tutti quei regni al culmine della potenza e alle porte della loro catastrofe.
Non si tratta di una nemesi storica, ma di una conseguenza logica di premesse volute o accettate, malgrado gli avvertimenti di persone illuminate che, pur additando i rimedi per prevenire i danni, non vengono prese in considerazione. Tutto questo perché esiste una responsabilità dei singoli e una anche di un popolo, ma tra i singoli quelli che hanno l’incarico di reggere la comunità, hanno una responsabilità maggiore e sono anche quelli che sembrano più colpiti dalla sciagura e dalla vergogna. Subito dopo la morte di Salomone il figlio che gli succede al trono pretende di continuare una politica di sperperi e di pretese e sancisce così la sua rovina e quella del suo impero. Il popolo si divide in partiti che si combattono e alla fine in due regni. Questa divisione esteriore è lo specchio di quella più grave e più dolorosa che esiste nella coscienza dei singoli.
Il figlio di Salomone Roboamo tenta in extremis una riunificazione imposta con le armi che non è, né accordo dei cuori, né associazione di interessi e che si conclude con una divisione di diritto e di fatto.  Nascono così due regni: quello di Giuda e quello del resto degli Israeliti sotto la guida del re Geroboamo. Ormai alla divisione politica si aggiunge presto quella morale e Geroboamo prepara due vitelli d’oro, convoca la moltitudine e annuncia: "Ecco, Israele, il tuo dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". La propaganda politica è ridicola, la divisione dei cuori è tragica e il popolo accetta l’imposizione di un idolo e si dimentica dell’elezione di Dio (1 Re. 12).
Eppure anche in questa situazione non mancano i continui avvertimenti della Bibbia e dei profeti che la hanno scritta con la loro vita, le opere e gli ammonimenti.
Elia, sfidando le ire di chi sostiene la scienza ufficiale e impone la propaganda ufficiosa riesce a convocare una folla di sfiduciati che si sono arresi alla noia del comune andazzo, per fare il punto della situazione: un unico profeta, Elia, mentre i profeti del quieto vivere e i commissari dell’ordine sociale, ben organizzati e ben stimati hanno raggiunto la cifra di quattrocentocinquanta unità. Elia, che si appella a Dio e i profeti degli idoli che si appellano alla loro tecnica propagandistica, il primo con il cuore infuocato gli altri con la rabbia accesa che fa del male a sé stessi e che serve per impressionare i semplicioni. Ma Dio accetta il sacrificio di Elia, mentre gli idoli rimangono muti alle richieste degli idolatri: scende il fuoco dal cielo per incenerire l’olocausto che aveva offerto il profeta del Signore. mentre l’offerta dei sacerdoti di Baal rimane abbandonata su un inutile altare.
A tal vista, tutti si prostrano a terra ed esclamano: "Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!" (1 Re, 18).
Malgrado questo strepitoso miracolo e malgrado la risposta del popolo non cessarono le divisioni e le apostasie in Israele. La Bibbia riferisce una storia che si ripeterà fino ai nostri giorni. Al tempo degli imperatori romani uno stuolo di profeti, che testimoniarono con il miracolo del loro martirio la necessità di cambiar rotta, non ottenne nessuna revisione di condotta dei singoli e di politica dello stato, al tempo del re sole non bastò il miracolo di San Vincenzo e dei suoi frati a frenare l’egoismo dei nobili e la sregolatezza dei poveri. Probabilmente anche ai nostri tempi se ci sono imperi salomonici c’è anche qualche profeta che malgrado i suoi innumerevoli miracoli rimane inascoltato, al punto che il riconoscerlo e l’additarlo può risultare inutile.
Non è una conclusione deludente, come non è frustrante per lo sportivo la palestra. C’è nella storia dei popoli un insegnamento continuo che è una testimonianza e una promessa: non è di questa terra il regno di Dio, ma è su questa terra che vengono reclutati quelli che lo possono abitare.

Giobbe

L’uomo: un povero ricco
La Bibbia parla sempre dello stesso Dio degli uomini più diversi: non solo dei profeti o dei re, ma persino di quelli che non rivestono un ruolo principale o di guida nei confronti dei loro simili. Tra questi ultimi, Giobbe. A questo proposito, il testo è talmente chiaro da meritare più una parafrasi che non un commento, d’altra parte la comprensione del problema che presenta è talmente difficile che, più di un commento, esigerebbe una approfondita meditazione. Fortunatamente non sono il solo a leggere la Bibbia e, oltre al mio lettore, l’ha letta quasi l’intera umanità, tanto che, volendolo, non è difficile trovare chi ci aiuti a capire il suo messaggio.
Giobbe non è una persona a prima vista identificabile con qualcuno che sia veramente esistito, infatti, per via della sua strepitosa ricchezza si è portati ad immaginarlo un personaggio leggendario, eppure non è difficile nemmeno oggi trovare uno come lui su questa terra, altrettanto non leggendario, come una regina inglese o come un produttore di programmi per computer, con una ricchezza ben superiore a quella di Giobbe senza confronto e senza misura.
Così è la situazione, almeno così era su questa terra ai tempi di Giobbe ma, anche allora come oggi, esiste la corte del cielo con Dio gli angeli e il Demonio. Gli angeli per aiutare, il Demonio per dannare e per dire al Signore che L’amore che Giobbe ha per lui è invece puro interesse, perché egli è sempre stato beneficato senza aver mai ricambiato ciò che ha ricevuto, salvo solamente un certo riconoscimento di onore ma, certamente, non di corrispondente valore. Ben diversa sarebbe la sua situazione solamente se fosse un poco provato dal Diavolo e Dio, che ha fiducia in Giobbe, permette la prova.
La figura di Dio, nel testo biblico, come un monarca orientale seduto sul trono, circondato dalla sua corte, è adattata alla comprensione e all’ammirazione di un personaggio antico, del resto non troppo diverso dai potenti di questa terra dei tempi moderni, tuttavia, se si considera Dio solamente un elargitore di benefici non può comparire altrimenti se non su un trono nell’atto di dominare i suoi sudditi. In ogni caso il futuro di Giobbe è inevitabile: in lui si rispecchia l’uomo nella sua essenziale finitezza destinato allo scacco e all’angoscia, un po’ come l’hanno considerato alcuni filosofi, nemmeno troppo pessimisti, semmai più realisti, dei giorni nostri.
Cominciano così le difficoltà di Giobbe, ma aumenta la fiducia e il suo amore per il Signore: "Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!" (Giobbe. 1).
Giobbe non pecca, perché non attribuisce a Dio «nulla di ingiusto». Ovviamente ingiustizia e perfezione sono una contraddizione in termini e non possono coesistere come attributi di Dio, per questo, almeno da un punto di vista generale, non si può considerare il male che un uomo patisce come se fosse causato da una giustizia, ma in questo caso rimane il problema di sapere in che cosa consiste la giustizia.
Davanti alla fede di Giobbe Satana ritorna a chiedere al Signore il permesso di infliggergli altre prove ben più difficili, che tolgono a Giobbe perfino la salute.
Il Giobbe ricco, sano, ossequiato dalla gente, una volta che si ammala e cade nella povertà, perde anche la stima perfino di sua moglie che, al posto di comprenderlo e consolarlo, gli rinfaccia: "Sei sempre stato onesto; ora benedici Dio e poi muori!". Ma Giobbe di rimando: "Da Dio accettiamo il bene, perché non accettare il male?".
Fin qui la situazione è, per così dire, privata come quella di un uomo comune cui è capitata una disgrazia qualsiasi che dipende dalla sua natura di povero mortale, ma ben presto il patire pone domande che coinvolgono ogni uomo come persona che ama e che è amata e non come una cosa che è usata senza che le si abbia mai chiesto il permesso.
Sulla scena compaiono, inaspettatamente, tre personaggi, non estranei, forse temendo la stessa sorte di Giobbe, ma anche per affermare il loro affetto all’amico. Per sette giorni gli fanno compagnia, senza aprire bocca e senza chiedersi il perché dei suoi mali, «infatti, vedevano che molto grande era il suo dolore». (Giobbe, 2).
Al giorno d’oggi nessuno perderebbe tanto tempo come i tre amici di Giobbe, ma chiamerebbe subito un medico d’urgenza. Ci siamo talmente abituati ai rimedi moderni ed è diventata ormai così grande la nostra fede nella scienza, che ci sembra superfluo aver fiducia in Dio, tanto da pensare che non abbiamo bisogno di lui; tuttavia certe malattie e certe morti sembrano una doccia fredda che ci costringe a un duro risveglio. Non sarebbe questo già abbastanza per capire che certi mali ci spingono a cercare delle spiegazioni non certo superficiali e ad ammettere i nostri limiti se non sappiamo trovarle? (Giobbe. 2).
Il testo sembra porre due questioni. La prima riguarda la inevitabilità del male che la perfezione di Dio non vorrebbe o non riuscirebbe a vincere e che, con una interpretazione affrettata, mette in dubbio, insieme alla perfezione di Dio, anche la sua stessa esistenza. La seconda riguarda il problema principale del testo biblico: «Può il mortale essere giusto davanti a Dio», oppure l’uomo è sempre un peccatore, perché non può mai fare a meno di essere ingiusto?
Se l’uomo non può mai considerarsi senza colpa, allora anche noi dobbiamo accettare l’ammonimento di Elifaz e ammettere che dobbiamo pagare lo scotto del male che facciamo, prima di chiedere il compenso per il bene che non abbiamo fatto. In questo caso il male avrebbe il valore di un avvertimento e insieme di una correzione. L’amico di Giobbe insiste e rincara la dose. Egli sembra dire: "Riconosci il tuo peccato, perché nemmeno Dio può aiutare il peccatore!".
La risposta di Giobbe è una ammissione di colpa, ma nello stesso tempo pone ancora una terza questione di principio: quella del fine ultimo della vita dell’uomo. Se egli è sempre manchevole, ancora peggio, se è peccatore, perché vivere?
Anche il terzo amico di Giobbe, Zofar il Naamatita, da consolatore si fa accusatore e gli propone come unico rimedio ai suoi mali di riconoscere che egli è colpevole, solo allora potrà sperare nella benevolenza di Dio (Giobbe. 11).
Un argomento che attende risposta
Dopo quanto abbiamo letto fin qui, ci sembra che il testo proponga alla nostra considerazione tre questioni:
1) la giustizia di Dio che non vuole contrastare il male
2) l’ingiustizia dell’uomo che è sempre peccatore
3) quale sia il fine ultimo dell’uomo e se possa raggiungerlo
I tre amici di Giobbe hanno già dato la loro risposta ‹dogmatica›:
1) Dio non è ingiusto e punisce con il male chi è peccatore
2) l’uomo può e deve essere irreprensibile davanti a Dio
3) il fine dell’uomo consiste nella felicità di chi vive giustamente che ha diritto d’essere ricompensato.
Ma è proprio vero che l’uomo è quell’operaio, che non deve sbagliare per avere il diritto ad una paga congrua da parte di quel Dio, che è un padrone?
Non è forse questa la vera questione principale?
Tuttavia gli interlocutori insistono sui loro argomenti, malgrado non sembrino convalidarli con ragioni convincenti (Giobbe. 12).
Giobbe non solo si sente incompreso dai suoi amici, non solo accusato, ma anche rifiutato. In altre parole, mentre Dio avrebbe preparato per ogni cosa e per ogni uomo una buona sorte, Giobbe invece è emarginato, diviso, alienato da Dio e da coloro che pretendono di correggerlo (Giobbe. 13).
Il discorso di Giobbe mette in luce una prospettiva drammatica per il misero: quella di chi ha perso ogni speranza, perché prima di essere un colpevole è già un condannato di fatto, tra l’altro proprio da quelli che non sono diversi da lui stesso. È la situazione di una perenne lotta di contrasti. I suoi amici sono dall’altra parte, dove c’è la giustizia, ogni bene e Dio stesso, mentre Giobbe è nella parte opposta, dove c’è la condanna senza diritto di appello. Quel che addolora Giobbe, almeno nel confronto con i suoi amici, non è tanto la infinita distanza tra lui e Dio, ma la divisione che gli amici hanno sancito nei suoi riguardi, come se loro fossero più dei, di Dio stesso. Si sentono, per così dire, in dovere di assumere le difese di Dio come se egli avesse bisogno di loro, mentre loro non avrebbero bisogno di lui. C’è in tutto questo colloquio una dissonanza larvata e strisciante, ma non evitata né contrastata, non tanto tra Giobbe e Dio, ma tra quelli che sono i giusti amici di Dio e il cosiddetto suo nemico che sarebbe l’ingiusto per antonomasia. Tra i due partiti contendenti non c’è alcun colloquio, ma solo contesa e Giobbe deve riconoscersi vinto prima ancora di potersi difendere.
Senza quasi rendersene conto, Giobbe avverte la divisione che lo separa dai suoi prossimi che dovrebbero essere suoi fratelli e che invece si sono fatti interpreti di un Dio così superiore e londano da essere relegato dall’uomo che soffre in un mondo inaccessibile.
Giobbe, invece, si aggrappa implicitamente alla virtù della speranza come un naufrago allo scoglio del mare.
Le asserzioni di Giobbe sembrano un paradosso nel bel mezzo di tutti questi argomenti; ma non è forse questa virtù che lo fa così diverso dai suoi accusatori? Egli sa di non poter sperare né in loro, né in se stesso, ma non può disperare di Dio. Se il libro di Giobbe servisse solamente per avvisarci che ogni speranza riposta negli uomini, perfino in se stessi, è insicura, avrebbe già assolto parte del suo compito. Solamente quando non abbiamo speranza in Dio siamo condannati a cercarla negli uomini, purtroppo con la prospettiva di rimanere delusi, se non imbrogliati. Se c’è una virtù che è teologale, nel senso che riguarda il nostro rapporto con Dio, è proprio quella della speranza, infatti, solo perché ha il suo fondamento in lui possiamo poi estenderla anche ai nostri simili e al mondo che ci circonda, ma senza Dio l’uomo rischia sempre e conseguentemente teme continuamente di essere un lupo rapace per il suo simile, constatando che nessun contratto sociale lo può salvare da questo pericolo.
Giobbe tuttavia non sembra farne una colpa ai suoi amici, piuttosto avverte che non sono nella possibilità di alleviare le sue pene, proprio perché rimangono fermi nelle accuse al posto di muoversi nell’aiuto. Quando egli manifesta i loro sentimenti – quando cita le loro parole – «Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?» – sembra dire: "Voi trasferite la vostra colpa di non volermi aiutare, su di me, asserendo che sono io ad impedire l’aiuto non correggendomi dalle mie presunte colpe ma, così dicendo, rivelate solamente che siete incapaci di aiutarmi". Egli sembra avvertirli che stanno compiendo un reato di omissione di soccorso, scusandosi col dire  che la colpa è dello stesso Giobbe che non vuole accettare l’aiuto, mentre, di fatto, hanno approvato il danno senza cercare il rimedio. Per questo li ammonisce di non temere per lui, ma per loro stessi  (Giobbe. 19). Questo ‹distanziarsi› dallo sfortunato, in pratica è una auto condanna, anche se le motivazioni non sono espresse del tutto chiaramente. I primi due amici si sono separati da Giobbe, ma Zofar lo accusa proprio di quella colpa che loro stessi stanno commettendo. Egli afferma con una esposizione ancora confusa, ma non nascosta, che chi fa il male non è tanto colui che danneggia, ma l’egoista che si avvantaggia dei danni inferti a chi invece dovrebbe dare soccorso. Gli amici di Giobbe, per il solo fatto, di non farsi uno con lui, imboccano la strada dell’auto compiacimento che autorizza la conquista delle proprie soddisfazioni, malgrado le insoddisfazioni procurate ad altri. «[L’iniquo] perché ha oppresso e abbandonato i miseri, ha rubato case, invece di costruirle» (Giobbe, 20). Egli è condannabile primariamente perché non ha amato – non ha costruito – e solo secondariamente perché ha rubato quello di cui mancava, perché ha oppresso e abbandonato i miseri.
Le accuse degli amici di Giobbe diventano ancora più pressanti e più chiare: egli stesso è accusato di essersi distanziato dal suo prossimo come ora loro stessi e, a parer loro, insieme a Dio si distanziano da lui. Elifaz il Temanita non ha peli sulla lingua, quando si rivolge a Giobbe: "Forse Dio ti punisce per la tua pietà? O non piuttosto per la tua grande malvagità e le tue iniquità senza limite? 
Dio umilia il Superbo! Se tu sei umiliato questo dipende solo dal fatto che tu sei colpevole!" (Giobbe. 22).

Il Dio dell’uomo Giobbe
Il discorso tra Giobbe e i suoi amici continua su questo tono e sembra senza fine. Gli uni riaffermano le loro tesi, l’altro ribatte le sue difese. Sono da una parte e dall’altra affermazioni dogmatiche facilmente discutibili, difficilmente provate. Vengono ripetute le solite affermazioni che si sentono al giorno d’oggi. La prima: Dio non fa il male, ma è l’uomo che se lo merita e, solamente per mezzo della sua grazia l’uomo acquista ogni bene; oppure al contrario la seconda affermazione: i bricconi la fanno franca e vivono nella prosperità e non vale la pena di essere onesti, perché Dio è lontano e non vede quello che l’uomo fa. Ovviamente non ci sono prove scientifiche a sostegno dell’una o dell’altra tesi; per esempio, manca una statistica sperimentale di una coincidenza tra benessere e truffa del prossimo, ma gli interlocutori sono convinti dei loro argomenti. Quel che invece è certo, è che Giobbe patisce ogni pena non solo e non tanto perché è povero, ammalato e ignorante, ma soprattutto perché è stato messo da parte. Egli ricorda amaramente le condizioni ben diverse in cui prima viveva: il confronto è stridente. Giobbe continua con rammarico: «Vedendomi, i giovani si ritiravano e i vecchi si alzavano in piedi, i notabili tacevano ...» (Giobbe. 30).
Sono forse queste tutte le cause delle pene di Giobbe?
Ce ne sono ancora due importanti.
La prima consiste in una ignoranza di fondo che Giobbe paventa, anche se non riconosce esplicitamente. Dio stesso interviene e gli chiede se è così sicuro di avere il diritto e la capacità di mettere in dubbio l’operato e l’intelligenza di chi ha creato l’intero universo (Giobbe. 40).
Il secondo motivo dei suoi mali consiste in una tentazione assillante: quella della disperazione. Ne abbiamo già accennato, ma conviene ritornare sull’argomento. Giobbe si vede giudicato e respinto dagli amici, disistimato dai conoscenti, senza forze e senza ragioni e, quel che è peggio, abbandonato da Dio stesso. Alcuni filosofi hanno definito Dio il ‹totalmente altro›, quasi un elemento irrazionale originario che sarebbe alla base di ogni religione e, a maggior ragione, alcuni commentatori di questo passo biblico hanno considerato come irrazionale e senza risposta il problema del dolore, mettendo in risalto la lontananza di Dio da quel Giobbe che è qualsiasi uomo di questa terra: Dio è l’infinitamente superiore, inaccessibile, misterioso. Per questo le sue ragioni sarebbero lontane da quelle dell’uomo e inspiegabili. Davanti a lui bisognerebbe ammutolire senza appello. Il testo tuttavia non sembra affermare questo lato della questione come se fosse l’unico. Giobbe resiste alla tentazione della disperazione e per questo ha un’arma segreta per non perdere l’amicizia di Dio che, anche quando sembra lontano, non è mai diviso: se Giobbe è ancora unito a lui è perché Dio non è assente. Al contrario, sono gli amici di Giobbe che mettono in dubbio la vicinanza di Dio nei suoi confronti, creando un dio simile a se stessi che si sono distanziati dall’amico. Tra il Dio di Giobbe e il Giobbe di Dio non si sono mai rotti i ponti: Dio ha sempre avuto fiducia in lui e Giobbe non ha mai disperato della sua amicizia. Il testo della Bibbia è tutto un inno alla virtù della speranza. Il Dio di Giobbe non è lontano misterioso inaccessibile perché non avanza ragioni dogmatiche come gli uomini, ma protesta affetti vicini che l’uomo purtroppo comprende solo quando sembrano mancare, e non li riconosce quando li riceve solamente per abitudine e senza attenzione.
La conclusione del discorso di Dio è una conferma della sua fiducia e un riconoscimento della virtù provata di Giobbe. Soprattutto è una spiegazione pratica e concreta della sua amicizia e della sua vicinanza che appare evidente proprio tra il contrasto del comportamento di Giobbe e quello dei suoi amici. Loro hanno visto il male dell’amico e si sono distanziati da lui, ma così facendo hanno aumentato le sue pene, mentre se avessero cercato di ristabilire la comprensione, l’affetto, l’amicizia, in una parola se si fossero fatti uno nei suoi riguardi, lo avrebbero non solo consolato, ma approvato nella sua speranza e nel desiderio di non perdere l’unità con Dio e con gli uomini. Non è questa una considerazione marginale: sembra ovvia e semplice, mentre è di una importanza fondamentale. Quel che risana, allevia, rimedia, istruisce, consiste nella ricostruzione dell’unità e ciò che ammala, abbatte, e istupidisce, consiste nel giudizio che condanna e che praticamente divide, dettato da una affettività che odia, come quella di chi si arrabbia e si ribella. In questo consiste il vero male, mentre il vero bene sta tutto nel suo contrario, tutto il resto, quello che sembra male è invece solamente una conseguenza. Questo si rispecchia e si concretizza in tutti i rapporti tra gli uomini e tra gli uomini e il creato, ma a maggior ragione, tra loro e Dio stesso. Quando Giobbe viveva nella pace e nell’abbondanza sembrava unito a Dio, ma tra lui e Dio c’erano interposti i beni di Dio, mentre quando egli è senza beni diventa a poco a poco ricco di speranza e solo allora comprende meglio l’amicizia di Dio e con Dio. Quando era ricco, lo era solamente dei beni di Dio, quando è diventato povero ha capito quale fosse la vera ricchezza: Dio stesso e non le sue creature come se Egli non esistesse o occupasse un posto di secondo piano. Il Dio di Giobbe dopo la prova è un Dio vicino; prima della prova era un Dio lontano e diviso dalle molte cose. Con questo non si vuol dire che una prova sia sufficiente per capire Dio, ma senza prove, soprattutto senza la perdita con al morte fisica di ogni cosa che dio non è, non si potrà mai vedere Dio, come egli invece veramente è.
Giobbe riacquista, in questo modo, anche quei beni che possedeva prima, ma con una misura e un valore ben diversi. Egli li possiede, forse per la prima volta, realmente e non solo provvisoriamente. Ora, infatti, la sua vita non dipende più dai beni e, in un certo senso, non dipende nemmeno dal Bene (con l’iniziale maiuscola) dei beni che, da padrone qual egli era, è diventato suo amico e suo commensale.
Noi vediamo la sua figura come quella che rispecchia più veramente  la definizione di ‹uomo› che abbiamo appreso quando abbiamo cominciato la lettura della Bibbia che attesta l’opera di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza» (Genesi. 1, 26).

L’uomo del Dio di Giobbe
Possiamo ora chiederci in che cosa consista questa vicinanza e questa amicizia di Dio: si tratta della ‹partecipazione› alla costruzione dell’unità stessa del creato e dell’Increato. Perché Giobbe ha sperato, amato e ha avuto fiducia nel suo Dio è chiamato da lui a partecipare alla redenzione anche di quei suoi fratelli che si sono divisi dall’unità. Giobbe, alienato dalle persone per bene e dagli amici auto rivestitisi dell'ufficio di pubblico ministero nel tribunale di Dio, è incaricato invece di farsi loro avvocato e pegno di redenzione.
Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». Poi comanda loro di offrire un olocausto di sette vitelli e sette montoni per chiedere perdono, che egli accorderà solamente per l’intercessione di Giobbe che lo ha onorato con la sua fedeltà.
Solo allora Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita fanno la volontà di Dio, mentre il Signore si preoccupa di ristabilire Giobbe nelle sue condizioni accrescendo del doppio quanto aveva già posseduto, proprio per ricompensarlo di aver pregato per loro (Giobbe. 42).
L’uomo Giobbe ha una vita con uno scopo ben definito quello di compiere e rifare un mondo dove si vivono le virtù, perché l’unica ragione dell’esistenza e l’unica natura dell’uomo ha un solo significato: la fratellanza universale, se non ancora dei figli di un unico Padre, almeno delle creature dello stesso Dio.
Giobbe in poche righe
Tra la figura di Giacobbe che lotta con Dio per raggiungere la terra promessa e quella di Giobbe che collabora con Dio per redimere l’uomo c’è tutta la storia dell’umanità nel suo insieme e nei suoi componenti. Si tratta della vocazione, dell’incarico e del disegno di quell’ente che la Bibbia definisce simile a Dio.
La comprensione filosofica di quest’immagine-persona assomiglia alla descrizione di un mistero, ma la considerazione del personaggio Giobbe la rende più facile.
Noi possiamo ‹vedere› nella persona di Giobbe due figure.
La prima è quella di un uomo stimato, facoltoso, capace, superiore, senza nemici e senza rivali. È una persona che non ha necessità, non conosce lo scacco, non patisce la delusione, non dipende da nessuno. Proprio per questo non ha debiti con alcuno, non sente riconoscenza per chichessia, non dipende e, nello stesso tempo non spera, non crede e non ama. In una parola è l’essere più insulso e il meno amabile della terra, destinato a morire e a scomparire davanti ai nostri occhi, senza nemmeno lasciar traccia di sé.
C’è un’altra figura di Giobbe che è un uomo del tutto diversa. Costui è amabile, comprensibile, aperto, sincero, solidale, lo si ricorda volentieri e con lui si discorre in pace, come se si abitasse l’un l’altro nella stessa casa. Eppure anch’egli non senza limiti, anzi, forse proprio perché ha coscienza dei propri limiti e perché li ha sperimentati nella sua miseria.
Qual è la differenza tra le due figure?
È la loro vita e la loro esperienza che li distingue in modo inequivocabile.
Il primo accarezzato dalla fortuna.
Il secondo provato dalle difficoltà.
La scuola del dolore è maestra. Chi la frequenta ed è promosso diventa uomo che parla e s’intende con gli altri esseri dell’intero universo. Chi cerca di evitarla non supera l’esame che lo attende, rimane ottuso e scontroso, ben presto si troverà nemico del mondo che lo tollera, fintanto che non riesce a eliminarlo.
L’uomo finché non si decide e non ama l’altro, pur diverso da sé, rimarrà in balia del mistero e vivrà una continua morte, sospirando un suicidio che non potrà mai compiere con le sue mani.

Gesù

La favola del Natale
Nel contesto della Bibbia e nell’ambiente del vecchio testamento si apre una pagina del tutto nuova della storia del popolo ebraico, anzi della storia dell’umanità e, come tutte le storie inizia con un fatto: la nascita di un bambino a Betlemme cui gli viene imposto il nome di Gesù.
Il Vangelo prima ancora della notte di Natale racconta degli antefatti difficili da immaginare, però con una descrizione piana e facili da seguire. Si tratta dell’immacolata concezione annunciata a una vergine da un angelo (Lc. 2, 26 ss.). Il suo promesso sposo si sente tradito dalla fidanzata e decide di licenziarla in segreto per non esporla al disprezzo dei conoscenti che, nel quadro delle usanze di quel tempo, non escludeva il rischio della lapidazione sulla pubblica piazza. Mentre pensa come dar atto ai suoi progetti, egli stesso viene coinvolto in questo evento da un angelo che lo avvisa di condurre la sua sposa nella propria casa per poter dare un padre putativo al figlio che dovrà nascere (Mt. 1, 18 ss.).
Tutti gli anni a Natale, in un clima di gioia e di festa si ricorda questo avvenimento che assomiglia ad una favola e che invece rispecchia il crudo vivere di una famiglia appena composta e già alle prese con un quotidiano ben diverso da quello che si sarebbe potuto sognare e desiderare. L’uomo ha bisogno di favole per cominciare a vivere, ma per vivere è costretto ad usare la realtà contingente al punto di farla diventare una favola concreta. In altre parole, il bambino con una razionalità iconica considera il mondo come un sogno, ma questo mondo vagheggiato lo deve costruire egli stesso, rinunciando alle favole e affrontando le fatiche e il lavoro pratico di tutti i giorni.
Il Vangelo riferendo questo evento aggiunge che Gesù è nato non per volere di uomo, ma per volere di Dio, per attestare che è il vero Figlio di un vero Padre che è Dio. Effettivamente, Gesù stesso è un uomo che nasce e vive in Palestina ma, nello stesso tempo, che si arroga poteri divini e, che per via di questa ‹arroganza›, viene condannato a morte, dove è evidente che non è immortale e che è abbandonato da qualsiasi dio; dopo questa sommaria presentazione ci domandiamo, come si possa sostenere che sia Dio.
Noi rimaniamo fedeli al nostro assunto d’essere senza preconcetti, in altre parole non restiamo nel dubbio, pur scontato, della sua eventuale divinità e ci atteniamo alla decisione di leggere per capire, e non di aver già capito senza leggere ma, proprio per questo, non accantonando la ragione. Quel che importa è assumere le informazioni che la Bibbia ci offre, come delle testimonianze, che se anche si possono mettere in dubbio, non si devono dubitare solamente in base a interpretazioni soggettive.
Bisogna distinguere tra testimonianza e interpretazione. I testimoni raccontano quello che vedono e valgono per i fatti che riferiscono, non per le interpretazioni dei fatti che addicono. Una testimonianza è convalidata dal confronto con altre testimonianze e non dalle intenzioni degli attori dei fatti stessi e, ancor meno, dalle interpretazioni di coloro che li riferiscono o dei giudici che li esaminano. Allo stesso modo il giudizio di un tribunale non dipende né dalle intenzioni, né dalle interpretazione, ma solamente dai fatti, così come vengono riferiti dai testimoni. D’altra parte un giudizio del genere non è di ‹verità›, ma di ‹veridicità›. Per emettere un giudizio di verità è necessaria una cognizione aderente ai fatti, ma non senza una riflessione sulla ‹effettività› dei fatti stessi. In altre parole un fatto può essere eccezionale e inspiegabile, ma non senza effetto, ovverosia senza senso. Da questo punto di vista, un giudizio di verità prevede l’esame del fatto per percepirlo, poi l’indagine che provi che non sia contrario alla sua efficacia naturale e, nello stesso tempo, il riconoscimento che non sia confuso in ordine alla sua effettività finale. Questo passaggio dalla veridicità alla verità coinvolge quindi anche la natura, ovverosia un riscontro delle proprietà naturali sia nel fatto in sé, sia nell'uomo o in Dio che lo hanno compiuto, ed una interpretazione esente da confusioni e illazioni fortuite. Per quel che riguarda un giudizio del genere a proposito dei fatti riferiti dai testimoni biblici, non è quindi necessario uno sviluppo razionale fino alla maturità cognitiva (cognizione eidetica), purché si tenga presente di non considerare le interpretazioni equivalenti alle testimonianze. È ovvio che un giudice può ascoltare, almeno come indicative, le testimonianze di un bambino, ma non per questo si atterrà alle sue interpretazioni favoleggianti. Leggendo la Bibbia ascolteremo quindi con più attenzione quelle testimonianze che non peccano di fabulismo e di utilitarismo (opportunismo), anzi le accoglieremo tutte per poter confrontare i testimoni, prima di capire intenzioni e interpretazioni. A questo proposito è ovvio che anche i secondi testimoni, che riferiscono testimonianze raccolte da altri, sono altrettanto credibili come i primi testimoni che le hanno vissute e viste. In questo senso io non sarei tanto del parere di quegli esegeti che affermano che gli scritti del Vangelo devono essere interpretati con una mentalità moderna; a mio avviso, dovrebbero essere assunti come delle testimonianze e interpretati non tanto con una razionalità moderna – nessun sviluppo cognitivo va dall’antico al moderno, ma dall’iconico all’eidetico – ma con una filosofia matura, semplicemente perché non bisogna confondere lo sviluppo cognitivo con l’aumento delle informazioni.
Dopo tutto questo lungo discorso ritorniamo alla Bibbia ringraziando i testimoni se ci raccontano dei fatti e se quando li interpretano non peccano di fantasia e di opportunismo, ovverosia di fabulismo e di erotismo.
Una delle testimonianze più attendibile è la concordanza dei fatti riferiti dagli stessi suoi attori. Ebbene è sorprendente come gli attori della favola di Natale, concordino nel riferire i fatti, e manchino tutti di qualsiasi ombra di fabulismo.
È il caso, per esempio, della Madonna, se non altro perché le stesse circostanze non glielo permettevano. Basta pensare alla sua maternità. Ogni madre sogna di portare il figlio a casa, ma lei faceva la figura di essere una adultera nei riguardi di Giuseppe, davanti a lui e al parentado, mentre sentiva il dovere di salvare il suo buon nome, per non compromettere quello del figlio. Tra l’altro accettando la maternità si era assunta l’incarico non tanto di allevare un figlio suo, ma di testimoniare quella sua vera paternità che sarebbe risultata benissimo un assurdo al punto da esporla al ridicolo. Noi oggi sappiamo che un uovo può cominciare lo sviluppo sotto uno stimolo aspecifico e minimo, anche solamente chimico o elettrico, ma le affermazioni della Madonna rimangono pur sempre eccezionali e lo erano maggiormente anche per lo sposo e i parenti, tanto da destare tutte quelle preoccupazioni che avrebbero tolto ogni fabulismo a qualsiasi persona su questa terra. La Madonna non aveva nemmeno bisogno di defabulare il futuro di suo figlio, perché lo vedeva semplicemente come quello di una persona normale che, tuttavia, pur essendo assolutamente diverso da un grande di questa terra, non per questo mancava di manifestare il suo valore, quando bastava per dare tanto filo da torcere un po’ a tutti e principalmente a lei stessa. La sposa di Giuseppe poi, non si presentava con una psicologia tarata di erotismo, perché aveva un sentimento di fedeltà all’altezza (corrispondente) della fedeltà del Padre di suo figlio. Non dipendeva nemmeno da sentimenti di possessione nemmeno nei riguardi di suo figlio, che le ricordava chiaramente che egli doveva obbedire al Padre e non a lei e che diceva a tutti che sua madre era solamente chi fa la volontà di Dio (Mt. 12, 49-50); d’altra parte Maria sapeva che la sua maternità era un dono di Dio, prima ancora di un assenso reale e personale.
Consideriamo ora il resoconto dell’evento natalizio così come testimoniava Giuseppe di averlo visto e agito. Anch’egli è attratto da una visione che avrebbe potuto parere una favola, simile a quella di una cenerentola che sposa il principe, con la differenza che Giuseppe era un artigiano che sognava di sposare una principessa; in pratica è la favola di tutti gli innamorati che non conoscono ancora cosa sia il matrimonio, ma che immaginano con la fantasia che sia sempre un idillio. Ebbene, Giuseppe non deve far fatica a defabulare questo evento, non come tutti gli innamorati solo dopo che è passata la luna di miele, ma fin da principio e sempre in ogni caso. Egli non può nemmeno permettersi il lusso di concedere qualcosa al proprio erotismo, semplicemente perché le sue intenzioni, prima ancora di qualsiasi comportamento, non sarebbero state recepite da Maria. Del resto se la Madonna avesse ceduto in qualche cosa, avrebbe di fatto dato credito agli eventuali dubbi dello sposo sulla sua maternità verginale, infatti, Giuseppe avrebbe potuto pensare: se cede ora con me, ha ceduto già prima con qualcun altro; al contrario la mancanza delle conseguenze del ‹peccato originale› in Maria erano la prova visibile più concreta e più continuata di testimonianza della sua verginità, perché era prima spirituale, nell’esercizio delle virtù, e poi esistenziale, anche nel fisico. Giuseppe, poi, non aveva defabulato solamente il suo rapporto con la madre del figlio di Dio, ma anche con la sposa; in altre parole, non aveva con lei un rapporto magico e artificioso, perché lei stessa non lo aveva con lui. Basta pensare all’episodio della fuga in Egitto: nel pieno di una notte, Giuseppe sveglia Maria e le dice che ha avuto un sogno: ebbene, la Madonna non pensa che il racconto dello sposo dipenda dalle sue preoccupazioni e non da un comando ricevuto, ma senza avanzare dubbi, e molto concretamente, fa subito fagotto e scappa con il marito e il figlio prima ancora delle luci dell’alba (Mt. 2, 13-14). Certo qualsiasi buon Ebreo si sarebbe aspettato un Messia un poco più potente di un neonato che scappa di notte, ma la realtà non era una favola, non rappresentava un puro piacere, né ammetteva una supposizione utilitaristica.
Nella descrizione che fanno i principali attori del Natale appare evidente una concordanza defabulata e de-erotizzata, così come quella degli altri testimoni: i pastori, i magi, gli intellettuali di Gerusalemme, ma c’è anche un attore-testimone con una mentalità tutt’altro che de-erotizzata. Si tratta del re Erode. Certamente Erode non peccava di illusioni e di fabulismo, ma non si può dire che fosse ricco di idealità. Il suo comportamento è la conseguenza della sua filosofia. Noi pensiamo che per puro interesse non sia possibile emettere un giudizio di verità e noi sappiamo da tanti esempi anche della storia moderna che molti re, per paura di perdere e per bramosia di rubare, hanno imitato Erode che uccise i bambini, o comunque i contendenti al trono.
In ogni caso si può facilmente concludere che la ‹favola› di Natale è quella realtà concreta che purifica una affettività e chiarifica una ragione ancora inficiate di fabulismo (Mt. 2, 16 ss.).
Ebbene, tutto questo perché non c’è favola più incantevole della stessa realtà. Dopo tutte le nostre considerazioni, non possiamo immaginare una casa più felice di quella di Nazareth che fa invidia a qualsiasi convivenza che si possa sognare sulla terra. Non c’era, e non c’è un luogo, né una comunità, dove le virtù erano così preziose e le ragioni così eccelse. Non solo mancavano la fabulazione, l’erotismo e il dominio possessivo, ma al contrario rifulgeva la fiducia, la benevolenza e la lungimiranza per chiarire gli orizzonti di qualsiasi visione e per impreziosire i tempi di ogni impresa. La casa di Nazaret era la fucina della realtà di un mondo nuovo, non ancora del tutto annunciato, eppure già completamente vissuto.

La realtà della comunione
A questo punto noi ci domandiamo quale fosse la direttiva che permetteva una vita del genere, anzi quale energia ne assicurava la piena attuazione. I termini direzione e energia richiamano subito quel complesso di ragioni e di volontà che oggi chiameremmo assertività e che equivalgono al vecchio termine di corresponsabilità. Più precisamente non si tratta di una responsabilità teorica, come di chi la chiede agli altri, quasi dimenticandosi di esigerla da se stesso ma molto concreta, perché rendeva capaci i singoli di superare le proprie difficoltà per aderire ai desideri ed alle necessità l’uno dell’altro. In pratica non era dettata da una soddisfazione delle proprie voglie, ma dalla volontà di obbedienza ordinata, propria di chi ha la fiducia di poter agire la situazione che vive e non di soccombere alle costrizioni che non lo lasciano vivere. La fede consiste in una obbedienza attiva e non in una sottomissione passiva. Una persona è fiduciosa quando consegue quello che vuole e non quando si rassegna a fare quello che non vuole, ma che le circostanze fortuite, o le voglie soggettive, o le imposizioni altrui lo costringono a fare. Tutto questo perché la fede è una virtù e non una mancanza di volontà e di affettività. La volontà non è una espressione soggettiva, ma personale, ovverosia non di un soggetto che opprime o è oppresso, oppure che esclude o si estranea dal concreto, ma che sa rivalutare il suo prossimo e apprezza la realtà, a tal punto di ‹farsi-uno›, fino a obbedire all’uno e all’altra. Ovviamente, come non si abbandona alle proprie voglie, nemmeno si lascia soverchiare dalle voglie di un altro o dalle costrizioni dettate dalle difficoltà, perché la sua obbedienza è ordinata, ovverosia compiuta nella distinzione e nell’unità e non nella confusione e nella eccentricità. Una fiducia del genere è semplice e prudente, non complica i rapporti, ma non cede a debolezze, cioè non permette la doppiezza, che ha sempre bisogno di tante spiegazioni e di tantissime assicurazioni perché è artificiale e arrischiata. Che la fiducia debba essere semplice e prudente non lo dico io, ma lo afferma Gesù stesso (Mt. 10, 16). A questo proposito non dobbiamo dimenticarci che stiamo leggendo la Bibbia e non che stiamo insegnando ai personaggi biblici quale sia la filosofia alla quale si devono attenere.
C’è un episodio della vita di Gesù che evidenzia queste riflessioni: è quello della sua rimanenza a Gerusalemme all’insaputa dei suoi genitori. Nella festa della Pasqua Ebraica l’intera famigliola di Gesù dodicenne raggiunge Gerusalemme per visitare il tempio. Gesù non si aggrega nella carovana né alle donne, né agli uomini che si avviano sulla strada del ritorno e rimane nel tempio a discutere con i dottori e i teologi del suo tempo. Immaginarsi la costernazione dei genitori quando si accorgono di averlo perso. Ritornano a Gerusalemme, rientrano nel tempio e ritrovano fortunosamente il figlio: "Perché ci hai lasciato andar via senza avvisarci? Angosciati ti abbiamo cercato!". E Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc. 2, 41-50).
Gesù non annulla e non soverchia la responsabilità dei genitori di curarsi di lui; questo non significa che egli debba rinunciare alla propria coscienza. Il loro rimprovero non sarebbe stato necessario se egli avesse comunicato prima quello che aveva intenzione di fare poi ma, per farsi intendere, vedendo che non erano pronti a capirlo, poteva solamente spiegarlo con i fatti e non con le parole. Del resto gli stessi fatti non sarebbero stati capiti nemmeno dopo l’accaduto, tanto è vero che «loro non compresero le sue parole», anche se «sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore». Quel che dimostra la sua obbedienza non è quindi solamente il suo rimanere a Gerusalemme, ma soprattutto la sua capacità di obbedire per trent’anni in famiglia e di scegliere l’una o l’altra manifestazione di docilità disciplinata, senza preoccuparsi delle difficoltà e delle opposizioni, ma mai sottomettendosi, per capirci meglio, alle proprie voglie o, per così dire, alle manie di fare il Messia.
Fin qui abbiamo parlato della fede come virtù senza connetterla con il concetto di ‹fede in Dio› ovverosia senza considerarla una virtù teologale, ma io vorrei prendere i fatti così come sono narrati dalla Bibbia. Gesù è un uomo di fede che presta e chiede fiducia e che agisce quel che crede. Egli non ha una fede in Dio di tipo magico e artificiale come quella di chi si aspetta che il mondo cambi e diventi perfetto per miracolo, ma egli chiede a se stesso e ai suoi interlocutori la ‹fede di aver fede›. In pratica, è lo stesso uomo Gesù che si sente interpellato ad aver fede in se stesso, negli altri e nelle altre cose, così come se egli stesso fosse Dio. Gesù non si comporta come il figlio di Dio, ma come quel Figlio che obbedisce perché è Dio. Se ogni uomo fosse come lui – per partecipazione –, allora il mondo, anche quello occidentale, non sarebbe più in crisi, anzi sarebbe già salvo. Non si può rifugiarsi nella permissione di essere senza volontà, con la scusa che non si può essere come Dio – o che non si può arrivare ad essere ‹altri Cristo› – basta essere solamente uomini come Gesù e tendere sempre a realizzare una umanità come la sua. Prestare attenzione a un ideale è sempre più semplice (meno complicato) e più prudente (meno falso) di obbedire a un modello che non esiste, perché è stato creato solamente con la fantasia, basta sapere quel si vuole e volere quel che si è venuto a sapere di fatto, il resto vien di conseguenza.

De-erotismo e partecipazione
È importante sottolineare che per comprendere il significato del messaggio di Gesù sia necessario defabulare la sua esistenza altrimenti si rischia di farlo diventare un personaggio leggendario e non un uomo. Che cosa poi sia un uomo e come egli esista su questa terra è un altro problema che la filosofia di tutti i tempi ha cercato di spiegare. Anche la filosofia di quell’uomo che era Gesù ha dato una sua spiegazione di questo problema. Si tratta proprio di una spiegazione e non solo di una informazione teorica, perché poggia sulla esplicitazione continuata di dati di fatto e non solamente sull’enunciato di dati di ragione. Già questa asserzione è eccezionale, ma la spiegazione è talmente straordinaria da risultare a prima vista pazzesca. Si tratta dell’annuncio della ‹comunione›. Anche in questo caso, prima di asserire che è impossibile mangiare il corpo di Cristo, bisogna leggere quel che la Bibbia riferisce.
L’episodio è molto semplice; l’enunciato è difficile, ma cominciamo con ciò che è facile. Gesù è circondato da una folla che lo vorrebbe acclamare re, per il solo fatto che ha dato loro il pane da mangiare, quando nel deserto lo ha moltiplicato (Gv. 6, 14-51). Si tratta di una moltitudine di popolo che mira all’utile, non al bene, che denuncia una razionalità non de-erotizzata. Gesù non discute di filosofia, afferma invece semplicemente che egli metterà a disposizione di tutti un pane, che dona la vita e non solamente che toglie la fame, e aggiunge che questo pane è lui stesso al completo, carne compresa. In pratica egli dice chiaramente: senza di me, fatto pane, non potete vivere e siete condannati a non concludere niente, e a finire con una morte completa e reale. L’affermazione è dura e cruda, anche se il suo significato possa diventare più abbordabile, ma solo a prezzo di sminuirlo, anzi è senza mezze misure proprio per evitare che si facciano illazioni, confusioni e fraintendimenti. Se avesse usato il termine di ‹partecipazione› al posto di quello di mangiare la carne, allora forse noi l’accetteremmo più facilmente ma, in questo caso rischieremmo d’intendere: unione, consenso, collaborazione, corresponsabilità, spirito di corpo e non ‹comunione›, ovverosia partecipazione senza alcuna esclusione e senza estraneità. Tuttavia, se usiamo il termine di partecipazione, per introdurci alla comprensione di quello di comunione, capiamo subito che Gesù afferma qualcosa di ovvio che consiste nel fatto che un uomo isolato e non partecipante è già morto prima di fare o di pensare qualsiasi cosa. Non è difficile ammettere la partecipazione, ma bisogna capire in che cosa consiste e probabilmente è questo che Gesù vuole significare. Facciamo l’ipotesi di una partecipazione senza un partecipante e comprendiamo subito che è impossibile. Questa considerazione mette in chiaro che esiste una sorta di partecipazione per così dire attiva ed una passiva, infatti, c’è chi partecipa perché dona se stesso e chi partecipa perché acquisisce almeno un poco dell’altro. Ovviamente tra i due partecipanti quel che dirige e opera in primis la partecipazione è chi dona, infatti, è vero che senza chi riceve, manca la partecipazione, ma è più vero che se manca il partecipante manca persino il dono partecipato. In questo senso c’è un prima proponente e un consenziente che è solamente un poi. Ora è questo prima che dà l’avvio che è l’inizio di ogni partecipazione, altrimenti ci sarebbero tanti inizi e tante partecipazioni diverse e dove ci sono molti prima non esiste un unico poi, ma una diversità di molti che cercano di mettersi d’accordo perché sono divisi e, quindi, non esiste una unità di molteplici distinzioni. A questo punto, si capisce come sia la Partecipazione (con la l’iniziale maiuscola) che comanda, perché non può esservi una partecipazione, senza chi  la inizi con il dono di sé; infatti, se tutti iniziassero scambiandosi una unità che non hanno, ma che cercano, allora sarebbero divisi in partenza e già esclusi dall’insieme della totalità. La totalità, invece, è mancante se non poggia sull’unità, perché chi cerca non ha e, se non ha, non può partecipare, e ancor meno costruire con tante mancanze l’intera totalità. In altre parole, la partecipazione è possibile in un ordine di totalità e non di somma, infatti, o esiste la totalità che rende possibile la partecipazione, oppure non esistono le parti se non possono partecipare alla totalità aderendo in unità. L’insieme è il modo per partecipare, ma la partecipazione è la totalità. In pratica, se la partecipazione è concreta deve essere anche una realtà che tra persone è una personalità, se invece la partecipazione è solamente contemporaneità occasionale, allora non è nemmeno certa, e nemmeno sempre possibile, ovverosia è di per sé caduca e necessitata. In questo senso Gesù conclude io sono la Partecipazione e senza di me morirete, ovverosia vi escluderete dall'inizio di qualsiasi partecipazione possibile. Quel che ostacola l’assenso a questo annuncio è la sua drasticità, ma tutte le verità sono drastiche, altrimenti sono errate e nemmeno veridiche. D’altra parte non si può assumere qualcosa da chiunque se non lo si capisce, e non lo si capisce se non si partecipa al suo psichismo e, quindi, in qualche modo al suo modo di esistere in carne e ossa. Ma questa è una spiegazione aggiunta del termine partecipazione nel senso di comunione, perché sembra indicare che la partecipazione con il Partecipante è solo nell’atto dell’esistere, o meglio, negli attimi diversi successivi dell’esistere contingente, cioè carnale, di un uomo, perché non ci sono due dei, come la totalità non è una somma di somme.
Il problema quindi non è la comunione, ma la comunione con Gesù e gli Ebrei forse non si opponevano a una certa unità, ma avevano paura di perdere se stessi nella comunione, anche se acquistavano Gesù. Pietro non dice a Gesù: "Io ho capito la comunione" ma, parafrasando, precisa: "Io mi sono reso conto che tu hai parole di vita, ovverosia che senza di te non possiamo compiere atti di esistenza". – «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». (Gv. 6, 68). 
In fondo questo assunto è un aspetto particolare di un problema generale: ogni uomo vorrebbe acquistare la possibilità di essere un dio ma, mentre riconosce di non esserlo, esita ad avvicinarsi al vero Dio, assillato solamente dalla paura di perdere se stesso. Ovviamente si tratta di quell’uomo che non vive o non ha capito la partecipazione, ma non dobbiamo condannarlo, senza non aver ancora capito quali attimi di esistenza sono possibili nell’ambito di questa partecipazione, in una parola, quale sia la ‹qualità della vita› in queste condizioni. Ebbene Gesù non ha chiesto una partecipazione senza prima aver mostrato nella pratica concreta di che qualità sarebbe stata. Egli non ha detto di partecipare al suo modo di esistere senza aver dimostrato tutto il valore di vivere la sua stessa vita: gli Ebrei, specialmente i suoi seguaci, non lo hanno solamente ascoltato, ma anche visto, infatti, egli dirà: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi». (Gv. 15, 15). Questo tutto che gli apostoli hanno vissuto con Gesù è la Partecipazione stessa. Si tratta di una vita tra persone che si vogliono bene, alle dipendenze di uno che è pronto a morire persino per i nemici, piuttosto che difendersi a loro danno: in pratica si tratta di una partecipazione che è l’equivalente di quell’amore che non si ferma nemmeno al dono della stessa vita.
Lo avevano capito gli uditori?
Non certamente Pilato che poneva domande e non attendeva risposte (Gv.18, 33-38). Non gli accusatori, che imponevano risposte senza nemmeno far domande (Mt. 12, 10-14). Non i Samaritani che non lo avevano accolto (Lc. 9, 51-56). Nemmeno gli apostoli quando discutevano chi tra loro fosse il più importante, come se il più importante fosse esonerato dall’amore che serve (Mt.20, 25-28).
Lo aveva invece capito l’adultera che aveva accolto l’amore che perdona (Gv. 8, 1-11). La peccatrice pubblica che aveva bagnato di pianto i piedi del Signore (Lc. 23, 39-43). Il buon ladrone che condivideva la stessa croce di Gesù (Lc. 23, 39-43). E molti altri; compreso gli stessi apostoli, sempre pronti a correggersi quando si accorgevano di non aver capito l’Amore e di non averlo amato.
È questa la partecipazione, sinonimo di comunione: consiste in una continua comunione di atti di amore del tipo di quelli di Gesù per rivivere lui, sia personalmente, sia insieme, e renderlo presente di fatto, e non solamente in immagine, come quando si è costretti dalla necessità sociale o in cerca dell’utile assicurato da una connivenza.
È bene ricapitolare per punti quanto detto fin qui per evitare fraintendimenti.
1) la partecipazione è insita nella natura dell’uomo, perché egli non può vivere se non in una società totale.
2) La partecipazione, non è una teoria, ma è concreta e, per l’uomo, è personale.
3) consiste in un dare e in un ricevere.
4) Chi riceve può ricevere da un suo simile, ma da un suo simile non può ricevere la totalità e nemmeno ricevere l’‹uno› perché sceglierebbe una sola parte di una somma di cose ancora da unire, ma non espressione dell'unità.
5) Partecipazione equivale a: a) persona, b) totalità, c) unità, ovverosia Dio.
6) Un Dio che è vissuto dai partecipanti personalmente e a ‹corpo› ovverosia viventi una sola comunione.
7) Gesù insegna con la sua vita cosa e come sia questa partecipazione e nel medesimo tempo la rende attuale e attualizzabile, comunicando se stesso ai suoi discepoli.
8) Gesù, dopo averla insegnata e praticata, la richiede.
Dopo il riepilogo un corollario introdotto da una citazione che avvalora le riflessioni fin qui fatte.
In quello stesso giorno vengono alcuni sadducei, per discutere la risurrezione, che loro negano: "Maestro, una donna diverse volte vedova, con quale dei suoi ex-mariti conviverà dopo la risurrezione?". Gesù risponde: "Vi ingannate, senza conoscere né le scritture, né la potenza di Dio.  Una volta morti si muore anche alla convivenza matrimoniale, altrimenti non si vive l’unità del Cielo" - in questa trascrizione non c’è nessun errore razionale, anche se la parafrasi evangelica è molto liberale –  (Mt. 22. 23-32).
La risposta di Gesù lascia capire che Dio ama, perché dona la vita e dona la vita, perché ama, ma nello stesso tempo che il vero amore è de-erotizzato. Più precisamente: se il Dio di Gesù è un Dio che partecipa, il suo amore non sta tanto nel dono che lo esprime, ma prima ancora nella persona che lo partecipa.
Qui serve un esempio: se l’amata ama più il dono del fidanzato che glielo porge, allora non è degna del suo amore. È solamente quando perde un dono ricco, che può testimoniare il suo amore non al dono che ha ricevuto, ma al fidanzato, che viene da lei in veste di povero. È quando l’uomo perde la vita terrena che allora antepone l’amore per Dio a quello per il dono ricevuto. Ma in questo modo, non avendo più il dono, si troverà da solo al cospetto di chi lo ama e solo allora ‹vedrà› l’Amore più grande dello stesso dono. In ogni caso, Gesù dichiara che l’amore che dura in eterno è quello che viene purificato dalla de-erotizzazione, anzi da quella de-possessione (dominio possessivo) che lo sembra privare della materia, ma non dello spirito e, in definiva, della vita così come egli è.

L'uomo di Gesù
Fin qui abbiamo rilevato dei fatti dal racconto biblico cercando di comprenderne i messaggi che indicavano e, la comprensione del messaggio è servita a rilevare più chiaramente gli stessi fatti, non abbiamo tuttavia posto la domanda se fatti e significati siano consoni alla verità e non dipendano invece da una pura illazione soggettiva di chi li ha letti. È anche vero che abbiamo cercato di distinguere il messaggio da una interpretazione soggettiva, ma possiamo dire in modo esplicito che il significato e i fatti corrispondono a verità?
Ma cos’è la verità?
Probabilmente questa domanda doveva essere posta all’inizio del libro – e di fatto rimaneva sottintesa – ma la stessa lettura ci ha aiutati ad esplicitarla al punto che ora abbiamo molti elementi in più per dare una risposta.
Le relazioni dei fatti così come sono stati percepiti dagli attori e dai testimoni e come noi li abbiamo letti ci ha messo a contatto con una realtà apparente – che si vede e non che non è esistente –, o meglio con le apparenze della realtà stessa. Questo equivale a dire che ciò che abbiamo recepito consiste in quelle manifestazioni che non sono proprietà, ma qualità, di quel qualcosa che si è manifestato, tanto è vero che può assumere altri aspetti, pur rimanendo sempre se stesso. Questo aver recepito alcune delle qualità corrisponde ad una specie di appropriazione delle manifestazioni stesse, al punto che chi le ha recepite può usarle per esempio per tracciare un disegno (icona), che è una copia non solo di come appare, ma anche del significato che le apparenze indicano. In altre parole l’oggetto conosciuto ha una sua esistenza, il conoscerlo permette al soggetto di esistere in corrispondenza con lui. Questa corrispondenza esistenziale si chiama verità logica.
A questo punto, bisogna aggiungere che la lettura e la conoscenza dei fatti ha mostrato a noi non solo aspetti, ma ha destato in noi anche dei sentimenti. Questa risonanza di simpatie e di antipatie è una con-conoscenza che corrisponde ad una coscienza ovverosia è una ri-conoscenza affettiva e volitiva che equivale all’acquisizione di una verità per così dire spirituale. Dopo aver corrisposto e coscientizzato (riconosciuto) ci dobbiamo chiede se oltre ad una corrispondenza dell’esistere e dello spirito sia possibile anche una conoscenza dell’essere di ciò che si è visto e amato, perché solo questa corrisponde ad una acquisizione di proprietà naturali che merita di essere chiamata verità ontologica.
Ci sono due motivi che la dicono possibile e che nello stesso tempo la limitano – nel senso che la precisano. Il primo motivo consiste in un paragone; come ciascun soggetto sa e sente di avere un essere e di costituire una sola unità con le altre sue distinzioni di esistere e spirito, così deve ammettere che le cose che appaiono e che si sentono affettivamente possiedono anche proprietà naturali corrispondenti, altrimenti non sarebbero una unità. Del resto, se si conosce un esistere, come può esistere senza un essere? E come può l’esistere avere un essere che non corrisponda? In questo senso, se esistere e essere si corrispondono anche la conoscenza dell’uno permette di trarre definizioni dell’altro.
Il secondo motivo che comprova la conoscenza dell’essere consiste in un dato di fatto: si tratta della partecipazione. Una conoscenza non partecipante è impossibile come è impossibile che un uomo possa vivere senza conoscere, ovverosia senza dipendere per partecipazione dal mondo che lo circonda. Il problema non sta nella conoscenza dell’essere, ma nel definire che cosa di questo essere viene acquisito. Infatti, una acquisizione delle qualità è diversa da quella delle proprietà naturali, perché la prima è una specie di copia, la seconda sarebbe una furto di un possesso altrui. L’acquisizione dell’esistere consiste in un apprendimento di qualità che, se è una parziale presa in possesso, assomiglia però ad una condivisione che non toglie le qualità all’esistere altrui, ma che le gestisce in una specie di comune esistenza. Diversa sarebbe l’acquisizione delle proprietà di un essere con una natura diversa. Si capisce benissimo che le qualità della pirite possono essere gestite insieme dal fabbroferraio e dal ferro, ma è impossibile che il fabbroferraio si trasformi in ferro con tutte le proprietà della natura di questo metallo. Tuttavia il soggetto che acquista le qualità, le assume nell’atto del loro ‹avvenire-prodotto-efficace› causato dalle proprietà dell’oggetto conosciuto in compartecipazione con il soggetto conoscente.
In altre parole conoscere significa, assumere ‹qualità-effetto› e non qualità improprie. In questo modo le stesse qualità sono ‹proprie›, ovverosia corrispondenti a un particolare del patrimonio naturale dell’oggetto conosciuto.
Per questo si può affermare con certezza che ogni conoscenza permette l’acquisizione di una verità ontologica, tuttavia con due limiti: il primo che è solamente di quella ‹parte di natura› che può essere acquisita con la partecipazione, tenendo sempre presente che non è una parte divisa e dissonante, ma un particolare di una unità; il secondo limite sta nel fatto che si tratta di una partecipazione di alcune ‹caratteristiche› propriamente naturali, ma attraverso un succedersi di mediazioni che dipendono dalla conoscenza delle qualità esistenziali. In questo senso la conoscenza può essere alle volte talmente incompleta, da risultare in parte errata. Per rifarci al solito esempio della conoscenza del ferro l’uomo per via dell’uso (partecipazione), e non solamente della visione della pirite, impara con una successione di esperienze esistenziali ad acquisire le qualità effettuate dalle proprietà naturali del ferro fino a diventare un fabbroferraio; in questo modo si può dire che per analogia impara l’efficacia e l’effettività del ferro, al punto che può usarla per la fabbricazione di altre leghe simili a quelle possibili con il ferro, ma con altri metalli e senza il ferro; questo tuttavia non significa che egli conosce le proprietà di questo metallo al punto di crearlo di nuovo dal nulla. Riassumendo la conoscenza della verità ontologica è possibile per l’uomo, ma solo nei 1) singoli particolari che sono 2) mediati in serie di successioni dall’esistere dell’oggetto conosciuto. Per questo il soggetto conoscente non cambia natura, e non acquisisce le proprietà naturali del conosciuto, ma quel qualcosa di esse che chiameremo ‹caratteristiche› e che mostreranno l'essere, così come le ‹qualità› hanno presentato l’esistere. Le caratteristiche sono una specie di qualità che non cambiano, perché rispecchiano la natura, mentre le apparenze qualitative cambiano sempre con il cambiamento del divenire dell’esistere, ma mai al di fuori delle loro corrispondenti caratteristiche e, anche questo, solo nell’ambito di una esistenza, senza escludere che vi siano altre caratteristiche che non vengono nemmeno visualizzate. In qualche modo le caratteristiche sono congenite, mentre le qualità (attributi) sono attribuiti nel corso dell'esistere.
Tutto questo discorso serve per rispondere a due domande che continuamente si presentano con la lettura della Bibbia. La Bibbia descrive le qualità di Dio, ovverosia racconta l’esperienza dell’esistere di Dio e dell’uomo per quel che appare da un loro possibile rapporto che esprimono una verità ontologica, oppure ci descrive delle apparenze senza una corrispondenza reale e, quindi, non ontologica?
Ancora ci insegna ad amare l’Amabile al punto che mette in evidenza quanti e quali sentimenti l’uomo non sapeva nemmeno di avere a disposizione, oppure illude la volontà dell’uomo, indicandogli una affettivitá che non corrisponde – nel senso che è dissonante – con la verità spirituale (dello Spirito) di Dio?
Dal discorso fatto fin qui, la risposta a queste domande ci assicura che è possibile una conoscenza di Dio attraverso l'esistenza partecipata dei suoi attributi, tuttavia entro quei limiti sopra esposti che indicano trattarsi solo di partecipazione mediata, ovverosia di particolari mediati da un esistere di Dio in mezzo agli uomini. In altre parole noi conosciamo veramente Dio perché abbiamo visto come egli esiste e abbiamo riconosciuto i suoi sentimenti che egli ci ha espressi e che sono risuonati nella nostra coscienza. Più precisamente la Bibbia illustra e esplicita le qualità di Dio e il suo amore, al punto che ce lo fa conoscere così come è e non come solamente potrebbe apparire o, ancor meno, come potrebbe essere immaginato.
Ebbene, tra tutti i personaggi biblici se ce n’è uno che corrisponde meglio alla verità ontologica di Dio è quell’uomo che si chiama Gesù perché è un esistere completo e esauriente per un suo simile al punto di mostrare l’‹Esistere-Dio› che è mediatore per antonomasia e per eccellenza del ‹Dio-Essere›.
Ma c’è un punto di questa manifestazione che riassume tutti quegli altri che egli ha presentato nei particolari durante la sua vita: è quello della crocifissione. In quel momento «Gesù gridò a gran voce: [ ... ] Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. 27, 45-49). Dopo questa domanda, prima di morire «Gesù, gridando a gran voce, disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc. 23, 44-46).
Questa affermazione a prima vista può lasciare molti dubbi e, invece, è conseguente a quanto detto finora, anche se richiede spiegazioni e approfondimenti ulteriori.
Per capire la morte bisogna considerare in che cosa consiste. Essa equivale ad un recedere dell’esistenza in una delle ‹parti› dell’esistere totale, affinché possa rinnovarsi e continuare in un’altra parte. In pratica è uno spostarsi dell’esistere dal vecchio al nuovo: è un dover morire in un punto, a favore di un poter vivere meglio e di nuovo in un altro punto, dell’esistenza totale. Anche la morte dell’uomo Gesù è un permettere ad altri di poter vivere.
I componenti del Sinedrio che rappresentava l’autorità degli Ebrei al tempo di Gesù, riuniti in consesso, giudicano e decretano che sia giunto il momento di togliere di mezzo Gesù per evitare di essere loro stessi tolti di mezzo, in pratica di togliere la vita a Gesù necessitati dalla paura di perdere la propria (Gv. 11, 45-53).
Già questo fatto di sopprimere l’esistenza altrui per conservare la propria, a paragone di quello di chi vuole non toglierla agli altri al punto di pagare di persona con la propria morte, indica due modi di ‹esistere› ben diversi e di diverso valore. Si tratta, in ogni caso, della situazione di chi prende dove c’è, perché egli non ha, con il risultato di impoverire l’altro senza potersi arricchire; in questo modo costui denuncia la sua dipendenza, come quella di un parassita che è già morto se uccide il donatore parassitato (sfruttato): in effetti, prende perché non ha più da dare in proprio, e non ha da dare, perché non può produrre, ma solo consumare, lasciando di proprio unicamente i rifiuti. Persino tra i ricchi è ricco solamente chi non dipende, perché non chiede, ma la ricchezza si consuma, la produzione invece arricchisce anche il povero.
Dopo questa considerazione il significato di ‹partecipazione› è ben diverso se visto con gli occhi di chi può e vuole sempre dare e di chi esaurisce il suo sé, quando  non riceve, al punto che non può mai più dare. Ebbene, quando Gesù-uomo si paragonava a Dio, come chi sempre può e vuole dare, doveva mostrare di volerlo fare persino quando gli fosse stato impossibile. Gesù sulla croce non solo non può più dare, ma egli stesso avverte che egli non può nemmeno ricevere, perché è stato abbandonato dal Padre, tuttavia, proprio allora, egli consegna se stesso al Padre. In questo modo quando non riceve, nemmeno chiede, ma dona. Quando non sa, non pretende di sapere, ma offre una risposta. Quando muore, non cerca la vita, ma la rende. In una parola, quando avverte la disunità, non si ribella e non pretende, ma si ‹fa-uno›, ma così facendo ‹produce› la Distinzione e, nello stesso tempo, anche l'Unità. Egli dona sempre la ‹Totalità› senza chiedere una parte, senza nemmeno esistere solamente come ‹parte›. Gesù al colmo della sua umanità ha perso la possibilità di ricevere, come se fosse stato ritenuto indegno dal Padre, ma non ha dimenticato quella di dare, perché si è ritenuto degno di amare. Si è comportato come se dicesse: "Io, che per esistere devo ricevere come un consumatore, sono diventato un ‹consumato›", fino ad essere un rifiuto, ma non perdo la mia volontà (affettività) di produrre, perché uso me stesso e la mia volontà per farne un dono al Padre", o in altre parole più chiare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc. 23, 46).
Solo chi ha dato tutto è sicuro di essere amore e non favola, non opportunità e non dominio possessivo, e solo chi è Amore Crocefisso dà prova di essere Dio. Gesù è stato del tutto dono di amore senza odio, affermazione di bene senza male, esistenza di vita senza morte. La conseguenza di questa sua offerta consiste in un amore che è salvezza, un bene che è redenzione e in una vita che è continua risurrezione, perché ogni uomo, in quel particolare che è il suo tutto di ogni singolo momento, può essere con lui e in lui, come lui. Quello che non si sarebbe mai potuto immaginare, e nemmeno supporre, è stato testimoniato da coloro che lo hanno constato de visu. Si tratta di un altro dei fatti raccontati dalla Bibbia. Tra la ragione e questa testimonianza non c’è differenza, ma eventualmente difficoltà di comprensione. L’uomo, che non supera le difficoltà, limita il suo diventare sempre più uomo e, in questo caso, limita la possibilità di diventare (partecipare) ‹uomo-Gesù›, che ha superato la difficoltà di non ricevere, trasformandola in un continuo sempre dare. L’uomo di Gesù è un ‹altro Cristo› ma Cristo non è meno uomo, ma è Dio. In lui qualsiasi uomo trova la sua umanità e, nello stesso tempo, il suo Dio per partecipazione, o meglio, per ‹comunione›.

La redenzione
La crocifissione spiega quella realtà connessa con l’intero messaggio di Gesù che va sotto il nome di ‹redenzione›. Per questo è così importante per la comprensione dell’intera Bibbia, che ogni sua considerazione non è mai completa. 
La redenzione è l’‹opera› di Gesù. Ogni uomo nasce, vive e muore, ma costruisce un qualcosa che resta e che è la sua opera o la sua missione. Gesù è il salvatore: colui che ha salvato l’umanità dal male.
Prima di passare a questo argomento, è bene fermare in un corollario alcuni punti a compimento e precisazione di quanto si è scritto.
1) cosa si intende per male
2) Il male è una mancanza di bene.
3) L’unico rimedio del male consiste in un aumento di bene fino al raggiungimento di ogni bene senza alcuna mancanza.
4) Questa completezza è irraggiungibile se non per una partecipazione alla totalità.
5) Una partecipazione completa fino alla totalità coincide con l’unità.
6) In conseguenza  il vero male consiste nella divisione.
7) La redenzione consiste nel lasciare una situazione di male che è deficitaria e ristabilire il bene che è la totalità o, più precisamente, nel patire la divisione per poter ristabilire l’unità.
8) Gesù ‹abbandonato› dal Padre si è trovato nella mancanza di ogni bene, perché gli è venuto a mancare Dio stesso, in altre parole, si è trovato diviso dal Bene e immerso nel nulla di qualsiasi bene.
9) Gesù rimettendosi al Padre, ha rifatto l’unità senza richiederla, ma donandola, in pratica ha ridato al Padre se stesso per essere completamente unito a lui.
10) La redenzione consiste nel continuare questa unità per partecipazione in tutta l’umanità e in ciascun uomo, come delle membra con il capo.
Alla stesura di questi punti ne aggiungiamo un breve commento.
1) cosa si intende per male
Bene e male, nella lingua parlata, sono principalmente avverbi, ovverosia sono una sorta di qualità attribuita ad un verbo per specificarlo, inoltre, per esteso indicano anche quella realtà che agisce in quel modo specificato dall’avverbio, per esempio una data cosa che comporta una azione utile o opportuna o piacevole, ovverosia che si svolge ‹bene›, si può chiamare ‹un bene›, oppure una data cosa che può agire sia bene sia male diventa un ‹bene-realtà› – insieme a tanti altri beni – se viene considerata solamente per il suo lato positivo. La nostra attenzione si rivolge quindi al significato di bene come avverbio perché quello legato al sostantivo è solo secondario al primo. In altre parole il bene e il male non sono enti, non modi di essere, ma modi di agire degli enti e quindi delle loro relazioni vicendevoli.
2) Il male è una mancanza di bene.
Da queste definizioni si trae la conseguenza che il male non è un ente concreto, ma è un modo o un aspetto o un grado connesso con gli enti nella loro realtà di cose o di persone. La domanda che si presenta spontaneamente è se questo modo è necessario, come se fosse la conseguenza di una natura perversa, o se è irrimediabile, come se dipendesse dalle qualità intrinsecamente manchevoli dell’esistere, o anche inevitabile perché determinato da una volontà di per sé malvagia, oppure, al contrario, se è solamente una imperfezione nel senso di deficit in seno a queste distinzioni o del loro insieme. Infatti, se si sostenesse che certi enti agiscono sempre e necessariamente male si dovrebbe ammettere la malvagità come una proprietà naturale e quindi concludere che accanto ad enti buoni esistono anche enti cattivi con la conseguenza di negare un Creatore perfetto dell’universo o, al massimo, di ammettere l’esistenza di due divinità, una buona ed una cattiva, come affermano i manichei. Se invece il male è un ‹modo›, allora, sotto questo aspetto, noi ammettiamo che qualsiasi ente possa avere una natura con facoltà alle volte un poco inefficaci, oppure un esistere con qualità un poco incomprensibili e infine uno spirito con sentimenti un poco disordinati. Nello stesso tempo, escludiamo che un ente perfettissimo possa avere delle mancanze del genere, anzi affermiamo che possiede ogni contrario ovverosia, modi aspetti e gradi che sono solamente un bene. In altre parole il male è connesso con quel soggetto donatore che non è Dio e con quell’altro che è il ricevente: il donatore non può esprimersi malamente, ma il ricevente può recepirlo in modo conforme oppure in modo differente e persino opposto.
3) L’unico rimedio del male consiste in un aumento di bene fino al raggiungimento di ogni bene senza alcuna mancanza.
D’altra parte male e bene non sono solamente un modo di comportarsi delle realtà tra loro, ma un dato di fatto: una guerra, un terremoto, un comune nubifragio non sono solamente modi ma delle realtà concrete, come se fossero degli enti. Noi abbiamo già sostenuto che sembrano enti-male, perché vengono considerati soggettivamente come necessariamente, irrimediabilmente e inevitabilmente produttori di male, mentre obiettivamente le cose non presentano questa dicotomia assoluta. Il giudizio soggettivo, proprio perché non è obiettivo è sempre falso. In questo senso rimarremmo nel campo delle interpretazione e non in quello della realtà, ma se ogni giudizio dipende da una conoscenza, anche ogni conoscenza costruisce, se non degli enti veri e propri, tuttavia dei ‹quasi-enti› che, con lingue straniere, chiamiamo acquaintance o Bekanntschaft. In questo senso il male pur rimanendo solo un modo, è anche un ‹quasi ente›, un po’ come quell’uomo che ha conosciuto la pirite, non è diventato pirite, cioè non ha assunto la natura e l’essere del materiale che ha conosciuto, tuttavia non è più solamente un uomo, ma è diventato un vero fabbroferraio. In ogni caso questa distinzione tra ente conoscenza (come acquaintance o Bekanntschft) soggettivo e ente reale obiettivo non serve per mettere in dubbio il fenomeno del male, ma per indirizzarci nella ricerca del rimedio e nella affermazione del bene.
Ogni giudizio soggettivo dipende da una mancanza di chiarezza razionale, o da una impurità affettiva o da una inadeguatezza naturale. Il rimedio al male sta quindi nella correzione del giudizio. Per quel che riguarda la nostra natura noi non possiamo superare le nostre facoltà limitate e per questo ogni giudizio di proprietà naturale sarebbe condannato a rimanere soggettivo, ma se non possiamo superare, riusciamo tuttavia ad aumentarne l’efficacia per via della partecipazione, quasi usando delle stesse caratteristiche della natura altrui non assunta in proprietà, ma usata in comune possesso con il proprietario. Questo è possibile come per via di una sorta di esistere in comune tra chi ha una natura superiore alla nostra e noi stessi, per cui le nostre qualità diventano a mo’ del donatore superando il modo nostro.
L’unica condizione necessaria ai fini di questo aumento di effetti dipende da un conseguente adeguamento della volontà. Una volontà limitata dall’erotismo e dalla possessione è talmente legata e schiava del nostro soggettivismo che non è disposta a perderlo per acquisire il giudizio obiettivo del donatore, con il risultato di un permanere nella impossibilità di rimediare al male. In pratica se natura, esistere e spirito a nostra disposizione sono limitati è solo con la partecipazione e l’analogia senza limiti che si può acquistare ogni possibilità, capacità e volontà sufficienti e necessarie a rimediare al male. Del resto anche se il discorso è stato lungo è ovvio che l’unico rimedio ad ogni mancanza sta in un suo totale completamento da parte di chi lo può ridare in dono.
4) Questa completezza è irraggiungibile se non per una partecipazione alla totalità.
Anche il termine ‹completamento› può avere un significato soggettivo ed uno obiettivo. È evidente che un piccolo aumento può corrispondere ad un completamento soddisfacente da un punto di vista soggettivo, ma non sempre obiettivo. Quel che assicura l’obiettività non è un piccolo aumento, ma l’acquisto di una totalità. Altrettanto dicasi del significato di partecipazione e di analogia: solamente una partecipazione al totale può assicurare un completamento senza alcuna mancanza. C’è tuttavia una ‹scorciatoia› che permette un certo accesso alla totalità che consiste nell’usare natura esistere e spirito secondo le intenzioni di chi costituisce la Totalità in persona. Avviene in questo caso allo stesso modo di chi usa una macchina secondo le istruzioni di chi l’ha costruita, anche se non conosce i suoi meccanismi ed il suo funzionamento, così se noi usiamo la ragione secondo chi ce l’ha data, se esercitiamo le virtù teologali e se obbediamo alla nostra natura che abbiamo da lui ricevute, in qualche modo, ci troviamo all’unisono con chi ha creato quella macchina che siamo noi stessi e raccoglieremo quei risultati che egli stesso ha previsto.
5) Una partecipazione completa fino alla totalità coincide con l’unità.
Così facendo, il termine di partecipazione e di analogia acquista il suo vero significato in ordine all’unità. È ovvio che non si può partecipare all’infuori dell’unità ed è altrettanto ovvio che una totalità non può essere costituita da parti divise e dissonanti né, in ogni caso, mancanti.
6) In conseguenza  il vero male consiste nella divisione.
Il significato di unità è complesso ed assomiglia a quello di bene perché rappresenta più un modo o un aspetto o un grado di essere esistere e volere che non una realtà e, come il bene, per estensione indica anche quella realtà che è una in se stessa e che è un esempio di unità. Per cercare di capire il valore consideriamo il termine per quel suo significato che riguarda l’ordine come espressione delle virtù dello spirito. L’ordine presuppone una misura e la misura presuppone una unità di misura che è una parte della misura stessa, ma che ne è parte determinante. Se la si considera in sé, allora è solamente una parte che serve per confrontare le altre dell’insieme, se invece la si considera come un campione, allora esprime l’unità di ogni singola parte, ovverosia l’insieme delle parti e non le parti dell’insieme. Allo stesso modo l’unità è una misura campione delle parti, ma è anche il loro essere ciascuna una precisazione particolare di tutto l’insieme.
7) La redenzione consiste nel lasciare una situazione di male che è deficitaria e ristabilire il bene che è la totalità o, più precisamente, nel patire la divisione per poter ristabilire l’unità.
In altre parole è il problema della ‹salvezza›.
...[Gesù disse ai discepoli]: «Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt. 28, 18-20).
«Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc. 16, 15-16).
Il battesimo conferisce la salvezza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La salvezza per un verso consiste nella possibilità di avere a disposizione il tutto e per un altro verso nella prevenzione di ogni mancanza. L’uomo dipende sempre da un completamento di sé, perché se non lo ottiene non solo ne è manchevole, ma lo è fino al punto di non poter esistere: se all’uomo manca il pane muore di fame. Il concetto di male è connesso con quello di morte come impossibilità di esistere e quello di bene con la possibilità di esistere per sempre. Salvezza ed esistenza sono la stessa cosa e, più concretamente, non c’è salvezza se manca la possibilità e la capacità di ricevere quella parte di cui l’uomo manca per esistere. Il dolore, che di per sé non è un male, è l’avvertimento di questa mancanza. Si può dire che l’uomo ha bisogno per esistere di un continuo rifornimento di quel che gli manca: è come una macchina che per produrre consuma. Questa richiesta di completamento e la sua soddisfazione riguarda quindi l’esistere dell’uomo, ovverosia consiste in un aumento di conoscenze e di partecipazione all’esistere delle altre realtà. Egli non può rubare le realtà in modo di sottrarre ad esse le loro proprietà naturali, altrimenti le metterebbe in necessità fino la punto di consumare la loro esistenza e quindi di sopprimere il loro essere, con il risultato di non averle più a disposizione e, a lungo andare, di mettere in pericolo la sua stessa vita. Di fatto, poi, non potrebbe nemmeno acquisire una natura altrui, che cambierebbe la propria con una conseguente perdita di identità; in altre parole, ha bisogno di un supplemento di esistenza, ma non di un cambiamento di essere assumendo una natura non sua – neanche quella di Dio. D’altra parte se acquisisce un esistere altrui non può accontentarsi di una parvenza che non corrisponde a qualcosa di concreto. Queste riflessioni mettono ancor più in evidenza cosa sia la ‹partecipazione›. Non si tratta solamente di una acquisizione di qualcosa data da un altro, ma di una unità con l’altro che sia una totalità, o almeno che la presupponga e non la contrasti, come se si rendesse all’altro quel che gli manca, quasi prima ancora di chiedere quel che manca a noi. In una parola sta in una specie di processo che, nello stesso tempo, consiste nel formarsi verificarsi e contestualizzarsi, senza mancanza sosta e illusione, e tutto questo corrisponde ad un essere sempre operante una vita che non muore e in un rapporto che non ha limiti. Questo Tutto è Dio, perché Unità, ma che, nello stesso tempo, è mancanza di uniformità simultaneità e indifferenza, ovverosia è anche distinzione rivolta all’unità e unità dedicata alla distinzione.
Queste riflessioni pongono il problema di sapere in che cosa consiste il bene, prima ancora di sapere cosa sia il male. La risposta che il Vangelo indica sta in quel «sarà salvo», se sarà battezzato nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito santo. Che il bene corrisponda alla salvezza lo abbiamo già detto, che avvenga in un aumento di esistere perché «ammaestrate» e «battezzate» lo afferma il Vangelo come condizione necessaria. Questa comunicazione di beni per l’esistere non può avvenire se non nel nome di chi genera l’esistere stesso e che è l’Essere. Nella terminologia Trinitaria una partecipazione con il Figlio non può avvenire se non nel nome dei Tre, compreso il Padre e lo Spirito. Il battesimo diventa così una necessità per la salvezza e chi lo rifiuta volutamente sceglie l’isolamento nei riguardi dell’essere e la mancanza di esistere, avviandosi così sulla strada che lo conduce ad una morte continua, ovverosia un’esistenza corrispondente ad una esperienza eterna (continua) di privazione di ogni bene. Il battesimo è la evidenziazione di una dinamica connessa con la realtà dell’uomo nel suo rapporto con Dio che è naturale prima ancora di essere avvertita, perfino quando non è nemmeno del tutto conosciuta.
8) Gesù ‹abbandonato› dal Padre si è trovato nella mancanza di ogni bene, perché gli è venuto a mancare Dio stesso, in altre parole, si è trovato diviso dal Bene e immerso nel nulla di qualsiasi bene.
Il contrario della totalità non è un nulla come se fosse una entità e non è nemmeno una negazione come se fosse ancora un poco di esistere, né una repressione come un soffocamento. Solo chi è Totalità può capire il nulla, mentre quel nulla che l’uomo può comprendere è ancora qualcosa che si esprime nella necessità, in altre parole non è un nulla, ma è dolore senza sollievo. Per questo l’uomo senza Dio è sempre ancora in cerca di lui ed è questa ricerca che è il presupposto della redenzione.
9) Gesù rimettendosi al Padre, ha rifatto l’unità senza richiederla, ma donandola, in pratica ha ridato al Padre se stesso per essere completamente unito a lui.
Gesù sulla croce era uomo, perché si è sentito senza Dio ma, consegnando se stesso al Padre, ha ridato a Dio la totalità e l’unità, in questo modo si è rivelato egli stesso, Dio.
Così facendo ha, per così dire, ri-creato (ristabilito di nuovo) l’unità e ha riempito ogni mancanza, in una parola, ha redento ogni male per tramutarlo nel Bene (con l'iniziale maiuscola), sinonimo di Totalità e di Unità, ovverosia di Dio.
10) La redenzione consiste nel continuare questa unità per partecipazione in tutta l’umanità e in ciascun uomo, come delle membra con il capo.
Ovviamente dalla totalità non c’è un qualcosa di escluso o di diviso: in questo senso non c’è nemmeno una mancanza di volontà unitiva. Una mancanza di volontà non consiste in una volontà contraria o oppositiva, ma nella mancanza di libertà.
La libertà consiste nella possibilità di scegliere e la scelta è possibile solamente se vi sono diverse parti distinguibili, infatti, se esistesse solamente un tutto monolitico, ovviamente non si potrebbe scegliere alcunché. Le parti, in questo modo, possono essere considerate come dei particolari del tutto, che lo precisano, oppure al contrario delle porzioni della totalità che la dividono: se si scelgono come particolari rappresentano un bene, mentre come porzioni che si vogliono separare risultano sempre un male che costringe, necessita e limita la libertà. Di per sé, quindi, male e bene dipendono da una scelta, ma è la libertà che permette di scegliere ed è il male e il bene che permettono all’uomo di essere libero. Quel che è importante ai fini della fruizione del bene – e in questo consiste la felicità – sta nel considerare le realtà distinte, ma non divise, unite, ma non confuse. In pratica non c’è gioia di scegliere, senza libertà di poterlo fare, ma non c’è libertà senza ordine. L’ordine poi è la manifestazione dello spirito che si evidenzia con l’esercizio delle virtù.
In questo senso quando Gesù consegna il suo spirito al Padre non solo permette un esistere completo e una creazione di un universo nuovo ma ristabilisce una libertà nuova che si chiama Ordine, perché riporta lo Spirito in seno alla Trinità.
Con la redenzione l’uomo Gesù ha rifatto il mondo e, in un certo senso, ha creato Dio stesso. In questa realtà ogni uomo trova la sua possibilità e la libertà, ma può anche scegliere di non ‹vederla›, in questo senso, per lui è come se fosse inesistente.
In altre parole la redenzione che è opera di Gesù-Dio, dipende, in qualche modo, anche da ogni uomo sulla terra come adesione di volontà e libertà di scelta. Si tratta di una scelta iniziale, continua e finale. L’uomo è partecipe della vita e della redenzione di Dio, ma è all’inizio di una continua libertà che solo alla fine sarà compiuta per sempre: noi vediamo la redenzione come un processo, Dio la vede già come un compimento.

Gesù è veramente risorto?
La prima persona che ha testimoniato la risurrezione di Gesù è la Maddalena che si era recata alla sua tomba per imbalsamare il suo corpo. Era così lontana dal pensiero di ritrovarlo vivo che, in un primo tempo,  non lo guardò nemmeno in faccia e, per questo, non si accorse nemmeno di averlo incontrato. In seguito alla sua testimonianza si interessarono subito gli apostoli e, un po’ per volta lo rividero anche loro ed ebbero modo di accertarsene in diversi tempi e in diversi modi.
La questione se Gesù è risorto può essere considerata 1) da un punto di vista storico e 2) nei suoi risvolti filosofici.
1) Da un punto di vista storico, bisogna considerare: a) le convinzioni comuni in voga in quell’epoca, b) il dato di fatto come riferito e, quindi, le sue testimonianze.
2) Da un punto di vista filosofico bisogna distinguere: a) il problema della immortalità dell’uomo da b) quello della risurrezione di Gesù e, quindi c) di ogni uomo.
L’ambiente culturale dei contemporanei di Gesù è reso in modo magistrale dal resoconto di un fatto, riferito negli atti degli apostoli. Paolo viene trascinato in tribunale dai Giudei con l’accusa di diffondere la religione cristiana. Egli sa che tra i Giudei che lo accusano alcuni, i sadducei, non credono alla resurrezione, mentre i farisei sono sicuri che l’uomo risorgerá dopo la morte fisica. Egli confessandosi fariseo convinto, figlio di farisei, tramuta d’incanto alcuni degli accusatori in suoi difensori nel processo in cui l’hanno trascinato. Ne nasce una disputa tra farisei e sadducei, al punto che le forze dell’ordine devono intervenire per evitare il peggio ... (Atti degli apostoli 23, 8-10).
Da questa citazione è evidente che per gli Ebrei il discorso della risurrezione, o almeno dell’immortalità dell’uomo, non era estraneo e che molti di loro lo ritenevano possibile. D’altra parte c’è ovviamente una grande differenza tra l’ammettere la possibilità di un fatto (la risurrezione) e il testimoniare la realtà dell’essere accaduto, per averlo osservato de visu. Il problema della risurrezione si riduce quindi a quello della testimonianza degli apostoli e dei primi cristiani. La dimostrazione storica della risurrezione dipende dalla loro testimonianza, perché non ci sono state altre persone che lo hanno visto, né gli storici dell’epoca se ne sono occupati quanto il problema avrebbe meritato. Si tratta quindi della testimonianza di poche persone – fino a cinquecento in una volta sola – e, in controluce, della mancata testimonianza da parte di altre, che pur avrebbero potuto essere interessate al riguardo. Anzi, non manca nemmeno del tutto una testimonianza di quest’ultimo tipo: la riferisce il Vangelo di Matteo.
I soldati del manipolo di guardia posto a custodia della tomba di Gesù riferiscono il fatto ai loro comandanti ma le autorità in carica comperano il loro silenzio: "Dichiarate che i suoi discepoli hanno rubato il cadavere, mentre voi dormivate" (Mt. 28, 11-15).
La citazione tratta di un certo modo di fare notizia e, se tutte le notizie contribuiscono a scrivere la storia, in qualche modo, spiega come mai Gesù non sia apparso a coloro che lo avevano condannato; infatti, anche se costoro lo avessero visto risorto, non per questo lo avrebbero ammesso e, ancor meno, avrebbero testimoniato la gloria di Gesù, e chiesto il perdono del loro operato. Anche a proposito di questa diceria Il problema sta nel fatto che è testimoniata da pochi, tanto da chiederci se si tratta di una affermazione personale o se invece corrisponde ad una conoscenza a quei tempi così diffusa, da non meritare ulteriori conferme. Tuttavia, a ben vedere, il vero problema consiste nella credibilità storica di eventi, malgrado siano stati avvalorati da poche testimonianze, e non se sono incredibili malgrado queste testimonianze, per il solo fatto che sono eccezionali. In altre parole, la fede nella risurrezione di Gesù dipende dalla testimonianza dei primi cristiani e non dalla approvazione o disapprovazione in base ad argomentazioni razionali dei singoli più o meno credenti che siano. D’altra parte è ovvio che la ragione sia chiamata in causa per controllare che il fatto non sia contrario al buon senso; ebbene proprio la ragione ci ha offerto alcune dimostrazioni della immortalità dell’uomo, ancor prima che il Signore risuscitasse.
Passiamo così all’esame della seconda serie di questioni. A questo proposito bisogna distinguere le ragioni di pertinenza strettamente filosofica da quelle che riguardano la filosofia delle religioni.
In effetti la fede nell’immortalità è ben più diffusa nell’ambito religioso di tutti i tempi che non in quello filosofico dei nostri giorni. Gli stessi archeologi trovano quasi più ragguagli sulle culture antiche nei rinvenimenti funerari delle dimore dei defunti che non nelle abitazioni dei viventi di coloro che ci hanno preceduto. Non bisogna meravigliarsi di questo fatto. Alcuni pensatori moderni hanno sostenuto che la filosofia soppianterà la religione, ma si tratta di affermazioni riduttive basate sulla supposizione che l’uomo sia solo testa, pur con un cuore che se non rovina la ragione, la intralcerebbe con una affettività che è inspiegabile. La realtà obbiettiva sta invece in senso opposto. Senza le virtù dello spirito i principi della ragione non sono nemmeno chiari e, d’altro canto, senza la ragione l’affettività è confusa, perché l’affettività ha la caratteristica della scelta elettiva, mentre la razionalità ha quella della precisione analitica dei particolari. Ora mentre l’affettività è connessa con l’esercizio delle virtù, la ragione dipende dal grado di sviluppo nelle varie epoche della storia dell’umanità e nelle diverse età della vita del singolo uomo. Per questo non ci troviamo davanti a delle pure dimostrazioni razionali dell’immortalità, ma davanti a reperti di un modo di affermarla che è più completo nella vita e nella pratica delle diverse civiltà che, tuttavia, può essere compreso solamente ammettendo diversi gradi di sviluppo razionale nelle diverse epoche. Con una razionalità iconico-simbolica l’immortalità è maggiormente rappresentata nei miti delle religioni primitive e nei miti di quelle figure affettive costruite dall’amore dei parenti per i loro defunti. Con una razionalità concettuale essa viene riconosciuta come necessaria per il compimento di una perfezione alla quale l’uomo tende per natura, sia nel campo della verità, sia in quello della morale. Ma è solamente con una conoscenza eidetica che la dimostrazione della immortalità dell’uomo assume la sua piena evidenza. A questo proposito le ragioni sono più complesse e meritano un discorso un poco più lungo.
Una santa, di cui non ricordo il nome, ebbe a dire che, se Dio l’avesse condannata all’inferno, non per questo lei avrebbe cessato di amarlo anche in quel luogo; in altre parole, se Dio avesse cessato di amarla, lei avrebbe invece continuato a farlo. L’affermazione della santa non è poi così esagerata come potrebbe sembrare a prima vista, perché è una copia, con altre parole, del: «...nelle tue mani consegno il mio spirito», rivolto da Gesù al Padre prima di morire. Del resto, tutti gli uomini vivono in quell’inferno che è il dolore del male sulla terra, ma non per questo cessano di amare Dio; anzi è il loro amore che tramuta questo inferno in un purgatorio che serve, appunto, per purificare e perfezionare lo stesso amore. Su questa asserzione che può sembrare un assurdo per la ragione, ma che testimonia una affettività senza riserve, riposa la dimostrazione eidetica dell’immortalità dell’uomo. Dio non può aver donato all’uomo un amore più grande di se stesso – non avrebbe potuto dare se non quello che egli possiede –  ora, se l’amore dell’uomo per Dio può essere incessabile, come quello della santa, non può nemmeno cessare l’amore di Dio per l’uomo. Infatti, se l’uomo ama è perché ha ricevuto amore e se ha ricevuto un amore eterno è perché Dio possiede un amore eterno per l’uomo, senza alcun limite, nemmeno quello del tempo. In altre parole, se Dio non fosse Amore, l’uomo non lo potrebbe amare e se l’amore non è egoismo, ovverosia non cessa mai, allora non cesserà mai l’amore di Dio per l’uomo e quello dell’uomo verso Dio. Per lo stesso motivo non vivrà eternamente tutto ciò che non è amore. La stessa natura – anche la materialità umana – perirà per quel che non è amore, e si rinnoverà del tutto per poter vivere in eterno l’amore che per sua natura non può morire. Questa dimostrazione dell’immortalità dell’uomo contiene di per sé anche quella della risurrezione stessa. Infatti, mentre il problema risurrezione e immortalità sono ben diversi, il fatto di affermare che l’immortalità è legata ad un rinnovamento radicale dell’uomo, introduce implicitamente la necessità della sua morte naturale e della risurrezione finale. In effetti, quel che alle volte manca alle varie dimostrazioni sull’immortalità consiste nel ridurre la vita futura alla sola sopravvivenza della facoltà razionale, non avvertendo che in questo modo sarebbe più completo un uomo non ancora perfetto nella sua vita temporale, rispetto a quello ridotto ad una vita puramente intellettuale nell’eternità. Bisogna invece affermare che l’uomo, che ha raggiunto il suo completamento, riceverà, insieme ad una vita che non muore, un corpo rinnovato, con facoltà e caratteristiche diverse, che noi sulla terra non possiamo ‹vedere› con gli occhi del fisico, perché superano il nostro ordine spazio-temporale. In questo modo si comprende meglio come solamente Gesù abbia voluto manifestarsi, dopo la risurrezione, per soccorrere la nostra fede, ma unicamente prima di uscire dalla temporalità.
A questo punto ci possiamo chiedere quale sia l’apporto cognitivo della risurrezione di Gesù per l’uomo o, in altre parole, quale contributo ha portato alla razionalità umana la rivelazione della risurrezione. In parte lo abbiamo già visto, ma c’è ancora qualcosa di nuovo. Si tratta di una idea di importanza generale che si può esprimere con questi termini: la radicalità della verità.
Tutta la ‹rivelazione› del Vangelo ha una sua radicalità che può sconcertare una razionalità confusa ed una affettività impura. Basta citare a questo proposito l’amore per i nemici. Senza l’amore per i nemici non avremmo nemmeno l’amore sufficiente per sciogliere gli errori filosofici, che alle volte sono più nemici di coloro che li sostengono. Orbene, la risurrezione di Gesù è una risposta radicale al problema della immortalità dell’uomo. Ogni uomo ad un certo punto della vita si trova davanti alla verità, ma non tutti hanno il coraggio di realizzarla con radicalità. Allo stesso modo, l’umanità, e ogni uomo, si sono trovati davanti alla morte con il problema della immortalità e molti lo hanno risolto affermando la vita eterna, ma Gesù ha reso questa affermazione radicale, togliendogli ogni forma di supposizione e di auspicabilità, rendendola un fatto concreto e storico in seno all’esistere dell’uomo e dell’umanità.
Effettivamente questo episodio e l’intera Bibbia ci hanno messo davanti al problema della verità che è ‹vera› solo se è radicale. Non bisogna sconcertarsi se qualche volta l’uomo che siamo noi stessi, o quell’altro che abbiamo incontrato, era così poco radicale da meritare la stima di persona falsa. Il falso, come abbiamo più sopra accennato è solamente una mancanza di vero e ogni mancanza può essere riempita da un supplemento di conoscenza. Anzi, la conoscenza della verità ontologica è sempre una corrispondenza, che anche se è solamente parziale, non equivale alla ‹mancanza› tipica della falsità. Infatti, la falsità non consiste in una povertà di conoscenze, ma in una ‹non-corrispondenza› tra l’esistere cognitivo e l’essere caratteriale; per questo da un punto di vista pratico la radicalità è indispensabile all’esistere per attualizzare le ‹caratteristiche-naturali› della realtà, senza sfalsarle. Non si tratta quindi di andare in cerca di perché impossibili o solamente opinabili, ma più concretamente di vivere obbedendo alla realtà. Non tarderemo ad accorgerci che tra le realtà di questo mondo ci sono anche quelle della Bibbia e tra gli uomini della terra anche i personaggi di cui lei parla e, tra loro, Gesù. Si tratta di conoscerlo per quel che è, il resto viene di conseguenza.

Dio: immagine e realtà
Ermeneutica comunitaria
A questo punto della lettura della Bibbia viene spontanea la domanda se l’abbiamo anche capita.
È il problema dell’interpretazione o, con un termine tecnico, dell’ermeneutica.
Una teoria moderna a proposito afferma che una comprensione di un testo o di un fatto dipende da una condizione determinante che sfugge ad ogni controllo, perché è condizionata da quel mondo e da quel tempo in cui vive il soggetto che li viene a conoscere, che sono diversi da quelli di chi li ha manifestati o di quando li scriveva e li viveva. In pratica lo scrittore non esprime del tutto se stesso, ma quel sé connesso con il tempo e il contesto in cui vive e, per le stesse ragioni, il lettore non lo può comprendere se non attraverso le lenti del suo esistere in un tempo e in mondo che è diverso da quello vissuto dallo scrittore. In questo senso, chi legge la Bibbia la comprenderebbe in base ad una interpretazione condizionata perché non può uscire dai suoi limiti naturali, o dalle necessità del suo esistere o, e dalla debolezza della volontà.
Questo modo di considerare il problema della conoscenza e di valutare un uomo può diventare unilaterale e il lato in questione è quello negativo e pessimista. C’è un altro modo di considerare il problema più ottimista. Ogni uomo può comprendere qualsiasi persona e ogni situazione, perché possiede una natura inserita in un contesto universale, gode di una facoltà razionale comune e di una volizione corrispondente a quella dei suoi simili. In altre parole, l’uomo non ha una esistenza per condizionare la comprensione, ma perfino per interpretare ciò che sembra incomprensibile. Questo non significa che la sua interpretazione sia completa ed esauriente, ma se è mancante non equivale a disapprovazione o contraffazione. È ammissibile e ovvio che l’interpretazione sia condizionata, ma solamente dalle proprie condizioni di essere uomo, per esempio, se al contrario fosse un animale o un pezzo di legno non leggerebbe la Bibbia, non la capirebbe, e non sentirebbe nemmeno la necessità di interpretarla. Il problema di una comprensione insufficiente nasce nel contesto di una conoscenza soggettiva. Se si mette in dubbio la possibilità di una conoscenza obiettiva, una delle conseguenze è che non si può nemmeno essere certi di potersi capire, perché ci si deve fidare solo del proprio parere, senza potersi confrontare con quello degli altri. Al contrario, si deve affermare che, se l’uomo ha una ragione possibile, non manca nemmeno di una natura integrata e integrante o meglio costituente. Ciò non significa che il suo integrarsi avvenga sempre senza difficoltà, ma se è difficile, allora è possibile e, anche in questo caso, lo può fare un poco alla volta e nell’ambito di quell’universo che egli riesce a raggiungere, ma proprio perché lo può raggiungere e non contrastare, o negare, o falsare. La stessa cosa vale per l’affettività, infatti, se le passioni umane impediscono la comprensione, allora è evidente che la volontà ermeneutica è condizionata, ma se lo spirito dell’uomo ama e cerca di capire anche le oscurità, allora può sopperire con l’esercizio delle virtù persino alla povertà della ragione. Avviene un po’ come nel rapporto dipendente del bambino nei riguardi di sua madre: se non la ama trova pesante questa dipendenza, se la ama la vede come una liberazione ed una possibilità aggiunta alle sue che sono limitate. Allo stesso modo, quando Gesù ama Dio, pur sentendosi abbandonato da lui, non si rassegna alla condizione impostagli dall’abbandono ma, al contrario, offre a chi lo rifiuta una partecipazione senza condizioni; egli non reclama ma riaggiusta, non si auto estromette nell’isolamento, ma costituisce egli stesso l’unità che sembra mancata. Allo stesso modo, l’interpretazione del rapporto è data da una volontà di rapportarsi non da una sottomissione ad un isolamento. Già il bambino che ama la mamma costruisce una società con lei, mentre chi non ama impedisce la formazione della società persino a quel suo simile che la vorrebbe costruire con il suo amore.
Gesù ha sentito l’abbandono del Padre, in altre parole, ha interpretato la sua morte come se fosse un isolamento, ma non ne aveva una prova. D’altra parte non aveva bisogno di trovarla, al contrario, egli stesso dava la prova di una unità con il Padre per il solo fatto che gliela donava senza richiederla.
L’interpretazione altrui non è condizionata dalla propria soggettività o da quella della società e del mondo in cui esiste, ma è connaturale e voluta e, se non è voluta, non è nemmeno possibile.
Se ci fosse ancora qualche dubbio sulla possibilità di capirci, anzi poiché rimane sempre un dubbio del genere, la Bibbia ci descrive un fatto che lascia intendere che dove non arriva la nostra comunicazione di uomini tra uomini, interviene un’altra partecipazione ben più importante, universale ed omnicomprensiva che è quella degli uomini con Dio stesso: si tratta della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli.
In quella occasione una folla di gente in pellegrinaggio a Gerusalemme dai paesi più diversi e con i dialetti più incomprensibili senza una traduzione simultanea, si rivolgono algli apostoli che parlano le diverse lingue degli uditori, al punto che sentono, comprendono, vivono insieme una Unità senza precedenti, sorpresi e incantati, nell’ascoltare Pietro che proclama: «Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona» ... (Atti. 2, 1-37).
Lo Spirito dona agli apostoli una nuova comprensione della realtà e una nuova energia per affrontarla. Le conseguenze sono evidenti: loro capiscono meglio come spiegare e non solo come interpretare la realtà, che non solamente avevano conosciuto, ma che loro stessi vivevano. Pietro espone ai suoi contemporanei una nuova lettura della Bibbia, così come l’avevano interpretata con la vita e non unicamente come l’avevano appresa con l’informazione. Pietro non domanda agli uditori di essere capito, ma si fa capire e tutti lo capiscono, pur sempre a modo loro e nella loro lingua, ma non in contrasto con quello che egli annuncia e in opposizione a quello che hanno capito gli altri interlocutori. Il comprendere in modo diverso comporta un arricchimento per chi ama, mentre è un impoverimento per chi vuole dominare e imporre unicamente il proprio punto di vista e un conseguente dirigismo di programmi arbitrari. Senza l’impegno di rimanere in una concordia cognitiva e affettiva di fatti e di ragioni, la comprensione è più povera, più difficile, perché soggettiva e male interpretata.
Tutto quello che si è detto di una interpretazione individuale condizionata dal soggettivismo, vale anche a proposito di un’altra interpretazione: quella sociale, quando è ammalata di retorica e di partitismo. Non bisogna confondere l’uniformità accomodante e accomodata con la concordia responsabile e coscienziosa. Di per sé non è una società di individui con civiltà, cultura e consuetudini ordinate che possa sclerotizzare e impoverire la comprensione e l’interpretazione con una sua ermeneutica limitante ma, al contrario, ogni comunità di persone che costituisce quel quasi ente che è la società acquista la facoltà di un aumento di comprensione interpersonale e inter-responsabile. La società di persone unite e partecipi diventa comunità, che può essere un popolo, una nazione, ma anche, e nello stesso tempo, una assemblea o una chiesa, che come tutte le realtà ha una sua natura che si chiama civiltà, un suo esistere nella tradizione e uno spirito come cultura. Tutte queste distinzioni dell’unico ente concorrono alla costruzione di una ermeneutica interpretativa sempre più nuova, sempre più completa, ma non in contrasto o in opposizione con la sua completezza e la sua eterna novità. Qualsiasi uomo insieme al suo simile può e deve costruire una acquaintance di questo tipo, partecipe di quella più grande, perché ordinata alla totalità. Bastano due persone o più, per costruire una chiesa dell’unica chiesa e, in seno al contesto di questa nuova comunità dove domina l’unità, ogni ermeneutica è una partecipazione alla vita dell’Unico principio che si è espresso in essa, al punto che egli stesso rivive nella sua lettura e si fa garante di ogni comprensione.
È il caso dei due discepoli sulla strada che mena da Gerusalemme a Emmaus. Si accompagna ai loro passi un viandante, in un primo tempo, sconosciuto. I loro discorsi sono dominati dalla straordinarietà inspiegabile di quel giorno: la possibile risurrezione di Gesù. Arrivati alla fine del viaggio vogliono stare ancora insieme, vogliono ancora parlare della risurrezione. Si siedono a tavola e Gesù, recitata la benedizione, spezza il pane. «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc. 24, 13-35).
Purtroppo nessuno può essere sicuro non solo di aver evitato del tutto il soggettivismo personale, ma anche quello collettivo, magari solo perché l’opinione della maggioranza è dominata da un’ermeneutica dissonante dalla totalità, al punto che per assicurarsi una certa aggregazione sociale non esita a eliminare fisicamente i dissidenti; per questo non basta credersi in unità solo perché si è trovato un medesimo assentire, senza aver raggiunto un consentire di coscienza personale. A questo scopo come ogni singolo uomo è «persona» e non un composto fisico o un assemblaggio meccanico di proprietà naturali insieme a facoltà esistenziali e virtù dello spirito, così ogni società è una unità vitale, che si esprime in una persona sociale, secondo un ordine, percorrendo un esistere, sul fondamento di un essere naturale. Anche la comunità dei lettori e dei conoscitori del messaggio della Bibbia è retta in una unità che esiste e che si vede, tanto è vero che ha i suoi rappresentanti che la governano. In questa unità ogni singolo ritrova anche il proprio essere ‹uno› e acquista la conferma di essersi liberato da una ermeneutica di parte, povera e parziale. In questo senso basta un esempio per tutti: quello di Paolo di Tarso.
«Vi dichiaro dunque, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo». Voi avete certamente sentito parlare del mio tirocinio: prima fariseo, persecutore accanito della chiesa, ma quando chi mi ha creato mi rivelò il Figlio divenni un apostolo del Signore, senza ascoltare pareri umani, ma non senza chiedere agli apostoli  e a Pietro conferma della mia vocazione. Successivamente diffusi il Vangelo tra i pagani ... A un cero punto confrontai ancora «il Vangelo che io predico tra i pagani con le autorità della chiesa [ ... ] per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano»... (Galati 1, 11-24. 2, 1-2).
Paolo era convinto di essere un interprete fedele del messaggio biblico, ma ritornava, appena gli era possibile, a Gerusalemme, come nel caso citato, per incontrare chi aveva l’incarico di «confermare» (Lc. 22, 32) i suoi compagni nella fede. Si trattava dell’autorità di Pietro e del conforto dei fratelli che avevano il loro fondamento nelle stesse parole del Signore.
«Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli" ...» (Gv. 21, 15-17).
E, in un altro passo, quasi per assicurare la continuità della sua comunicazione diretta alla comunità dei suoi fedeli, Gesù stesso aveva aggiunto:
«Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt. 18, 20).
La chiesa, in questo senso, non nasce da un intervento extra-naturale imposto ad una natura che non può comprenderlo, al contrario, sboccia in una natura che è fatta per accoglierlo, come il fiore che non è terra, ma che è anche terra. Il fiore è prima un seme e quindi un germe prima di arrivare alla sua bellezza naturale, così anche la comunità dei credenti non è una unità nata per un incanto magico, ma sulla base di un miracolo che non sopprime, ma richiede la fede, l’amore e la speranza di chi vuole con le virtù della affettività quello che ha compreso con la ragione, sulle basi della sua natura. Si tratta di quel regno di Dio che vive con le radici in terra e, nello stesso tempo, con la corolla in cielo. Alle volte, quando si ode la parola chiesa l’immaginazione corre alla gente che alla domenica ascolta la predica o al papa che parla alla finestra del Vaticano, che spiegherebbero la presenza di Dio, al posto di correre con il pensiero e gli affetti alla realtà di Dio che si esprime persino nelle immagini temporali di questo mondo.
Tutto questo semplicemente perché non sempre la ragione è sottoposta ad una perdurante chiarezza e perché non sempre l’affettività è così pura da eliminare ogni confusione e, di conseguenza, ogni oscurità della ragione. A questo proposito non solo la filosofia, ma anche la psicologia ci dà una indicazione di come rimediare: lo abbiamo già additato, si tratta dell’esercizio delle virtù infuse che permettono il conseguimento di una razionalità defabulata, de-erotizzata e, infine, senza ombra di possessione. Abbiamo già parlato di un regno dei cieli, ma è necessario ricordare come l’unica pratica che ci permette di raggiungerlo consiste in quella depossessione totale che esige la rinuncia perfino a quel bene che è il proprio sé rimasto ancora nei panni della vita fisica. Non tutti sono così poveri come un san Francesco, ma anche questo santo ebbe bisogno di una depossessione completa che esclusivamente la morte può tradurre in pratica. Una condizione così drastica è concepibile solamente in ordine ad un risultato altrettanto risolutivo, così come l’apostolo Giovanni ce lo ha presentato descrivendo questo regno in un libro della Bibbia.
«Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi [ ... ] Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo»
È la risposta ad ogni esigenza di qualsiasi uomo e il raggiungimento compiuto della terra promessa per una nazione abitata da un numero di discendenti più grande di quello delle stelle del cielo, perché nasce da una creazione così divina, al punto da sembrare solamente umana, mentre più propriamente è una risposta talmente umana che non può essere altrimenti se non quella dovuta a un dono di Dio. Essa è espressa dal ‹credo› la professione di fede del cristiano, che termina con queste parole:
«Io credo [...] nella comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione dei morti e la vita eterna. Così è».

L’uomo di Dio
Abbiamo chiuso la maggior parte dei capitoli precedenti con le considerazioni dell’immagine dell’uomo così come lo vede il Dio di quell’uomo che vive nei tempi della storia, vorremmo chiudere questo piccolo libro con la descrizione dell’uomo come lo vede il Gesù del Vangelo.
Abbiamo già letto come il Signore, dopo la risurrezione, affida la chiesa a Pietro, ma poi l’evangelista aggiunge altre due considerazioni; la prima consiste nella profezia del Signore del martirio di Pietro per testimoniare la fede. Noi possiamo immaginare in quale condizione emotiva si sia trovato Pietro dopo la sua elezione come papa e la previsione come martire: per un verso così unito al cuore del Signore e per un altro verso così responsabilizzato nei confronti non solo della chiesa, ormai nata, ma anche dei suoi compagni e tra questi di quel discepolo che aveva ottenuto perfino la notizia confidenziale dal Maestro del nome di chi l’avrebbe tradito
La seconda considerazione, a prima vista, sembra una notiziola personale di poca importanza, mentre invece è un excursus che svela il rapporto di Dio con ciascun uomo.
I primi cristiani credevano che Giovanni non sarebbe morto, non tanto perché aveva raggiunto una vecchiaia inoltrata, ma perché Pietro in questa occasione aveva detto a Gesù: «Signore, e lui?».
La domanda nascondeva forse la preoccupazione incombente per le pecore del suo gregge, oppure il non voler lasciare senza considerazione un discepolo così caro al Maestro che li seguiva in questo colloquio, senza nemmeno esser nominato, ma Gesù risponde: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi» (Gv. 21, 18-23). In altre parole: "A Giovanni ci penso io. A te questo non ti deve importare!".
Di per sé, le parole del Signore non escludono Pietro, ma sono la rivelazione dell’amore personale e direttamente intenzionato di Dio per Giovanni, come erano prima le altre parole indirizzate a Pietro che riguardavano lui altrettanto personalmente. Per Gesù ogni uomo era una persona scelta e amata. Lo aveva dimostrato durante la vita e con la stessa morte, ma in questo caso egli rivela un amore per ciascuno esclusivo, diretto, colmo di affetto, personale e proprio: in una parola senza paragoni e senza altrui intromissioni.
Per il Signore ogni uomo è senza paragone, come se avesse un valore infinito perché è stato pagato versando sangue e donando vita.
È questo l’uomo di Gesù.
Lo deve sapere Pietro, lo saprà sempre di più Giovanni. Chiunque deve conoscere la dignità dell’uomo così come la riconosce il Signore: per Gesù tutti e ciascun uomo è ‹l’uomo di Dio›: è sua proprietà, è suo figlio.
Giovanni scriverà in una sua lettera ai primi cristiani (1°Gv. 3, 1 ss.): «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! [ ... ] Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è».
Ebbene, noi fin d’ora siamo figli di Dio: noi non lo sapevamo e, forse, se non avessimo letto la bibbia, saremmo ancor oggi come orfani che vivono di ripieghi, abbandonati su una strada.



SOMMARIO
PRIMA PARTE
Introduzione
Gli argomenti della Bibbia
Una Bibbia senza prevenzioni
Abramo
Il Dio di Adamo e l’Adamo di Dio
Il Dio di Abramo e l’Abramo di Dio
Sara sposa di Abramo
Giacobbe
Trinomio - partecipazione
Giuseppe
Tempi normali …
… sogni straordinari
L’uomo del Dio di Giuseppe
Il Dio dell’uomo Giuseppe
Mosè
Mosè esiliato dagli esiliati
Le ‹piaghe› di un intero popolo
Mosè nel deserto
Mosè del decalogo
L’uomo del Dio di Mosè 
e il Dio dell’uomo Mosè

SECONDA PARTE
Samuele
La madre di Samuele
Come la madre così il figlio.
Il Dio dell’uomo Samuele
e l’uomo del Dio di Samuele
Davide
Volontà - virtù - libertà
La favola dell’uomo che cercava il mare
L’uomo del Dio di Davide 
e il Dio dell’uomo Davide
Salomone
La sapienza di Salomone
La regalità di Salomone
Giobbe
L’uomo: un povero ricco
Un argomento che attende risposta
Il Dio dell’uomo Giobbe
L’uomo del Dio di Giobbe
Giobbe in poche righe
Gesù
la favola del Natale
la realtà della comunione
De-erotismo e partecipazione
L'uomo di Gesù
La redenzione
Gesù è veramente risorto? 
Dio: immagine e realtà
Ermeneutica comunitaria
L’uomo di Dio